30 ottobre 2012

Last Days, Lost Days (Venezia, autunno 2012)

Fino al deposito bagagli tutto sembra normale. La solita stazione ferroviaria italiana, con i self bar dai prezzi stravaganti, lavori in corso in almeno un paio di passaggi strategici, turisti in shorts e ciabatte indipendentemente dalla stagione. Poi, non appena oltrepassato il cartello che indica un peraltro invisibile punto di ristoro, qualcosa cambia e, dietro i vetri brunati si comincia a intravedere l’altra dimensione, il pianeta, conosciutissimo ma comunque alieno, dove si è appena sbarcati. Il viaggiatore, punto dalla sorpresa, si volta e si scopre incapace di digerire la lezione di David Hume sulla risibilità del principio di causa-effetto, e pertanto si chiede perché uno spazioporto dovrebbe essere camuffato da stazione ferroviaria. E per un attimo, brevissimo, ma percepito distintamente, al posto di binari e biglietterie automatiche, tabelloni con gli orari e facchini abusivi, vede le astronavi e i tunnel spaziotemporali, il centro di controllo virtuale e, più in fondo, la sagoma di un pianeta gassoso che troneggia nel cielo. A quel punto, rinfrancato, sa che può uscire dalla stazione ed esplorare questo strano universo, talmente vero da non poter essere altro che posticcio. Benvenuti a Venezia, il più strabiliante parco a tema della Galassia.




La pioggia, sottile ma insistente. L’aria, afosa e salmastra. Il vaporetto carico all’inverosimile di turisti che rappresentano un campionario equilibrato della geografia umana del Pianeta Terra. L’affollamento, al limite dell’isteria, del Canal Grande, solcato da marinai nervosi e gondolieri in divisa. La costante presenza, guardinga ma impossibile da non notare, di uomini del Subcontinente indiano, posti a presidio di quasi tutti i ristoranti con vista sul Canale, pronti, nelle loro livree bianche e nere, ad accalappiare la prima coppia di Americani che mostri anche solo un barlume di esitazione nel transitare davanti alla carta del menu, dove un secondo piatto parte da 25 euro e un dessert ne vale all’incirca 12. Tutto, compreso il sapore dolciastro di sale e nafta che comincio a sentire in bocca appena metto piede sull’imbarcazione, e che non mi lascerà neppure nelle prime ore del viaggio di ritorno, mi rimanda alle metropoli dell’Estremo oriente, quelle città immaginarie costruite sulla pressione demografica e sul desiderio di arrivare, con l’idea platonica delle Torri Petronas (le prime, poi abbondantemente imitate e architettonicamente travolte da figli e figliasti ai quattro angoli di quel sottomondo che si regge sul petrolio arabo, la potenza effusiva cinese e il tigrismo di ritorno della penisola del Siam), a toccare, anzi a superare il cielo, in un tripudio di vetrocemento e sogni, spesso meravigliosi, talvolta deliranti, da archistar psicotropa. La parola chiave della mia Venezia oggi, è frenesia. Quella dei turisti, alla spasmodica ricerca di un altro scorcio da fotografare prima di cenare in un ristorante dove, precisa compìto il portiere dell’albergo a quattro stelle, “le ricordo che è necessario indossare un abbigliamento formale, anche se nel vostro caso mi pare che non ci siano problemi”. Quella dei commercianti, che si disputano le porzione della calle e lottano contro i portabandiera globalizzati della contraffazione di secondo livello. Quella delle guide che, con il sudore che si espande inarginabile anche al giubbino impermeabile, oltre che alla camicia in seta cruda che portano sotto, e che, con l’improvvisa comparsa del sole ora somiglia a un amplificatore del calore, tentano di tenere a bada un gruppo di ottuagenari nordamericani nel quale le signore si distinguono per l’uso massiccio degli strass e gli uomini si mostrano sorprendentemente indisciplinati e forse anche un po’ alticci.



Quando mi affaccio sulla Riva degli Schiavoni, diretto all’Arsenale dove un sociologo di fama mi parlerà, illuminante, delle fratture dell’attuale modello di sviluppo e della necessità di ripensare il concetto di limite, citandomi la parabola veneziana dalla potenza di Lepanto all’attuale palude esistenziale, l’isola di San Giorgio brilla nel tramonto come una promessa di tranquillità, ovviamente mendace. Basta pensare alla prospettiva dirompente dell’Ultima cena del Tintoretto, che la Basilica isolana sembra voler proteggere dall’invasione unna (o forse è il contrario, San Giorgio Maggiore, mi rendo conto, protegge il mondo da quel dipinto incredibile), che urla esasperata come un motore tirato due tacche abbondanti oltre la linea rossa d’allarme che segnala il “fuori giri”. E i suoi apostoli extraterresti (come le ombre bianche che invadono il mondo nel Trafugamento del corpo di San Marco dell’Accademia) sono perenni testimoni di una quiete impossibile e di quella storia sotterranea che si cela, ben protetta ma non senza falle, nelle pieghe impreviste del quotidiano. E a rompere il tacito accordo, il patto narrativo tra una città illusoria e i suoi turisti spaventati – condizione che, per reazione, genera inevitabilmente l’aggressività difensiva che pulsa in ogni assembramento di almeno due persone dotate di mappa della città e fotocamera digitale con super zoom – arriva il mostro della Verità, che ha l’aspetto spaventoso e inconcepibile di una mastodontica nave da crociera che arranca a due passi dall’Hotel Baglioni. E’ l’astronave madre che attracca nel cosmodromo, è il razzo Fine del Mondo di Thomas Pynchon, è il momento clou di qualsiasi film sulla colonizzazione del pianeta, è l’Apocalisse militarizzata. E sta accadendo ora, qui davanti a me. E un amico esperto del luogo mi dice che accade quotidianamente, due volte al giorno, in eterno. Non posso non pensare all’Inferno dei primi grandiosi racconti di Jonathan Lethem, quello che iniziava nel giardino con dei bambini seduti intorno a un tavolo e dal quale il dannato periodicamente ritornava, reiterando ogni volta l’orrore e la pena. Non posso non pensare che ogni parco divertimenti è il set perfetto per un film dell’orrore nel quale le macchine gioiose divorano il pubblico in mille modi raccapriccianti. Non posso non pensare che la ricorsività è una condanna cui non si sfugge, per quanto lontano si tenti di andare per non sentire più l’odore nauseante di disinfettante misto a profumo che sprigiona dai ricordi, dal passato e, inevitabilmente, pure dal futuro. L’odore dei giorni perduti, che a Venezia continuano a fissarci, muti e pieni di rancore.



A questo punto davanti al Ponte dei Sospiri cerco di concentrarmi solo sulle due belle ragazze asiatiche che si scattano fotografie a vicenda, pronte con i loro iPhone a condividerle in tempo quasi reale, e nella naturalezza dei loro movimenti, nella precisione con cui sanno quello che vogliono fare, nella ribellione anche estetica all’oppressività del luogo, è la stessa città a ritrovare un afflato di speranza, quanto basta per scatenare l’orchestrina del Caffè Florian e riportare tutto, almeno in apparenza, alla normalità di un tramonto, con Bellini freschi, aperitivi all’aperto, Harry’s Bar e Peggy Guggenheim, magliette da gondoliere certificate e pizza margherita, in una delle città più famose della Cintura di Orione. Tutto talmente rassicurante, adesso, da farmi trascurare il pensiero che prova a suppurare poco dopo, quando attraverso un ponte su un canale secondario, illuminato solo da un lampione debole ed esitante. Questi non sono gli ultimi giorni dell’umanità, mi dico, questa è soltanto Venezia. Dovunque essa sia.

Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

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