Il presente, per definizione, è un concetto sfuggente e
impalpabile, come una collezione di sabbia in una clessidra. E forse l’unico
modo per coglierlo davvero in un romanzo – operazione che può fare sì che
l’opera valichi l’invisibile e decisivo confine tra l’ordinario e il
significativo – è adeguarsi alla stessa natura sfuggente, scegliendo di non
dare riferimenti, ma puntando dritto all’essenza di alcune situazioni. In Italia
lo hanno fatto, per esempio, Occidente
per principianti di Nicola Lagioia e gran parte dei romanzi di un maestro
come Walter Siti. Adesso lo fa anche La
produzione di Meraviglia, secondo romanzo di Gianluigi Ricuperati, uno
scrittore che sembra stare ai margini di quella cosa – piuttosto stantia, se ci
è concesso – che è la cosiddetta società letteraria, ma che riesce a cogliere,
fulmineo e spesso visionario, i concetti chiave del nostro tempo, entrando a gamba
tesa su argomenti, che siano il denaro o le chat per lesbiche, che normalmente
non trovano adeguata cittadinanza nella grande letteratura della patria del
Manzoni.
Attraverso la storia di Remì, campione di poker muto e
pilota d’aereo, e di Ione, ragazza inquieta con un padre che da ingombrante
diventa addirittura galeotto, Ricuperati riesce a tessere un racconto che è
contemporaneamente lieve – e quindi, come si diceva prima, decisamente
sfuggente – ma che è anche denso, avvolgente come il gioco che instaura con il
lettore, perso in una serie di situazioni e immagini che, per l’appunto, hanno
spesso la qualità di produrre meraviglia. Immagini e gioco sono due parole
chiave per capire il romanzo. La prima, lapalissianamente, perché a tre quarti
del libro compare una sezione illustrata, dove il grafico Marco Cendron ha
creato, in una vertigine di rimandi metaletterari, le carte da gioco modificate
ad arte che il protagonista della storia usa per comunicare i suoi messaggi,
tanto criptici quanto profondi. La seconda parola, gioco, è fondamentale e,
come tutto il libro, si muove attraverso molteplici possibili livelli di
interpretazione: da quello che nasce dal fatto che, in fondo, per quanto
riguarda la trama il romanzo di Ricuperati non fa che ripeterci che “è successo
qualcosa” (senza quasi mai dirci davvero cosa), fino alla dimensione
esistenziale che il gioco del poker assume nella vita di Remì, considerazione
questa che spalanca le porte alla filosofia (citare Wittgenstein è sempre molto
cool, ma in questo caso quasi inevitabile) e a ragionamenti (“da quarta fila”
direbbe Baricco) sul valore universale che assumono le parole una volta
liberate dall’uso comune e bisunto, parole che diventano, da sole, vaste
porzioni di realtà…
Parole che sono l’unica e imprescindibile sostanza della
parte più importante del romanzo, la scena di un gioco, ovviamente, il mind
game che va in scena tra Remì e Ione e che dimostra quanto sia profonda la
capacità di lettura dei meccanismi sociali di Ricuperati e quanto riesca a renderli
in un modo che potemmo arrivare a definire assoluto. Perché la scena del gioco,
una dialogo via chat tra l’uomo e la donna che è un manifesto implicitamente
esplosivo su cosa sono i rapporti interpersonali oggi, su come la tecnologia
influisce sulla nostra vita, su come ogni volta non possa che essere la prima
volta, tanto strutturalmente gli esseri umani sono, Kundera ci benedica,
incapaci di qualcosa che non sia folle unicità. (Qui, davvero, siamo lontani
dal panorama italiano, e i
riferimenti che vengono in mente sono poderosi e anglofoni: la precisione
feroce di un Franzen o di un Amis, la brutalità magnifica di un DeLillo). Nelle
pagine del gioco, che sembrano pagine accessibili, conosciute (in realtà,
direbbe Foster Wallace, la loro meraviglia è ben nascosta in piena vista),
avviene invece uno dei miracoli della letteratura: la scomparsa del mondo, di
tutto ciò che non siano quelle parole virtuali che si alternano algide su uno
schermo. Parole che scatenano il primordio dell’umano, parole che sigillano la
distruzione, ma anche la contemporanea ricostruzione, di ciò che per
convenzione chiamiamo realtà.
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