Pioveva sui Giardini di Venezia nelle giornate inaugurali della
55esima Biennale d'arte, e nelle code
per accedere ai padiglioni nazionali gli ombrelli sono diventati una costante
colorata e imprevedibile. Che involontariamente ha fatto da contrappunto, o da corroborante, a seconda dei casi, alle opere
esposte. Così il senso di gioia rumorosa che si respirava all'interno del
padiglione serbo mitigava l'effetto plumbeo del tempo atmosferico, mentre a
fronte della cupa e sconvolgente potenza
dell'opera Crippelwood di Belinde De
Bruyckere presentata nel padiglione del Belgio, il grigio smunto del cielo
sembrava quasi una liberazione.
Misteri dell'arte, insomma e del ragionamento pericoloso, cui ogni Biennale ci espone, sul rapporto tra l'estetica e la necessità di dare un nome al mondo, tra la vita e la sua rappresentazione. Il contemporaneo, di solito, non offre risposte certe, ma si può spaziare dal senso di aspra libertà che si respira sotto le ali di un rapace nel padiglione della Gran Bretagna a quello di attraversamento di un confine, che sia fisico o mentale. Dopo tanti incerti movimenti borderline, tutto poi pare ricomporsi nello sguardo trasognato di un Luigi Ghirri, forse il vero creatore dell'immagine attuale del paesaggio italiano.
La Biennale, tra incertezze e scogli, mette una volta di più il visitatore di fronte al tema metafisico della bellezza, qualunque cosa questa parola abusata significhi davvero. E per chi ha attraversato febbrile l'Arsenale e i Giardini nelle giornate inaugurali, questa edizione sarà probabilmente ricordata anche per le inconfondibili tracce di fango sulle scarpe, marchio distintivo ed effimero per poter dire "Io c'ero". Prima che, ancora una volta, Venezia e il suo mistero sfuggano via, perduti su un motoscafo di seconda mano o nel riflesso di una terrazza che, inopinatamente, si affaccia sul Canal Grande, mentre fuori piove e le calle sono sempre più strette.
Misteri dell'arte, insomma e del ragionamento pericoloso, cui ogni Biennale ci espone, sul rapporto tra l'estetica e la necessità di dare un nome al mondo, tra la vita e la sua rappresentazione. Il contemporaneo, di solito, non offre risposte certe, ma si può spaziare dal senso di aspra libertà che si respira sotto le ali di un rapace nel padiglione della Gran Bretagna a quello di attraversamento di un confine, che sia fisico o mentale. Dopo tanti incerti movimenti borderline, tutto poi pare ricomporsi nello sguardo trasognato di un Luigi Ghirri, forse il vero creatore dell'immagine attuale del paesaggio italiano.
La Biennale, tra incertezze e scogli, mette una volta di più il visitatore di fronte al tema metafisico della bellezza, qualunque cosa questa parola abusata significhi davvero. E per chi ha attraversato febbrile l'Arsenale e i Giardini nelle giornate inaugurali, questa edizione sarà probabilmente ricordata anche per le inconfondibili tracce di fango sulle scarpe, marchio distintivo ed effimero per poter dire "Io c'ero". Prima che, ancora una volta, Venezia e il suo mistero sfuggano via, perduti su un motoscafo di seconda mano o nel riflesso di una terrazza che, inopinatamente, si affaccia sul Canal Grande, mentre fuori piove e le calle sono sempre più strette.
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