Limonov è stato, a detta di molti e di svariate
classifiche, il libro dell'anno del 2012 ed Emmanuel
Carrère ha ricevuto, anche in Italia, la consacrazione che
spetta a un autore dotato di tanto coraggio e consapevolezza narrativa. Sulla
scia del successo della inconsueta biografia – questo termine è senza dubbio
inesatto e chiaramente limitativo - dell'irregolare russo Adelphi ha annunciato
la pubblicazione di altre opere di Carrère, a partire da L'avversario, uscito in Francia nel 2000 e già tradotto da Einaudi.
Un libro che all'epoca aveva suscitato un certo clamore, ma che forse non era stato compreso davvero nella sua poderosa e sinistra
grandezza. E in questo senso, magie dell'influenza di ciò che viene dopo, rileggere
la storia di Jean-Claude Romand lo sterminatore della propria famiglia dopo aver letto e amato Limonov è un'esperienza, se possibile, ancora più intensa che ci apre squarci
d'illuminazione - capire razionalmente in questo caso è cosa molto difficile -
su quello che è il mistero della grande letteratura e, più nello specifico,
sulla insondabile, e per più di un aspetto disturbante grandezza di scrittore di Carrère.
La misura con cui ci si sta confrontando è quella del male assoluto,
per dirla con Citati, o della crudeltà veterotestamentaria, o ancora, e con più
consonanza, il senso dell'abisso che pervade un'opera come il Gordon
Pym di Edgar Allan Poe. Con l'aggiunta o l'aggravante, che dir si voglia,
che in questo caso l'orrido non è segnato su alcuna carta geografica intelligibile
e, anzi, non è neppure fuori di noi. Non si tratta del "mostro della porta
accanto", cosa che Romand certamente è anche stato, bensì dell'effetto che tale mostruosità produce
sulla nostra vita, della impossibilità di trovare un vero motivo che inneschi
l'orrore, dell'impellente necessità di guardare da vicino chi ha commesso il
crimine più abominevole. E qui Carrère, tanto ardito da sembrare quasi
disperato, si trova davanti, e lo descrive, qualcuno che a volte sembra l'uomo
che non c'era dei fratelli Coen e a volte somiglia semplicemente un essere
umano. Carrère, e il lettore con lui, barcolla, sbanda, rischia di crollare e
il rimando all'Avversario del titolo, il demonio, è una possibile risposta ai
dilemmi insopportabili che sono sollevati dalla storia di un padre che ammazza
i suoi figli, di un marito che ammazza sua moglie e di un figlio che ammazza i genitori.
Tre archetipi degni dei grandi tragici greci, qui follemente riuniti nella
storia di un unico uomo, per di più reale (qualunque cosa l'aggettivo
significhi davvero), che risponde al nome di Jean-Claude Romand. Una possibile
risposta, si diceva, nulla di più. Il vero senso di tutto sta, probabilmente,
nel libro, nell'averlo scritto e scritto in questo modo. Nell'aver accettato
una sfida destinata necessariamente alla sconfitta o alla follia. Ed Emmanuel
Carrère, non dimentichiamolo, è stato anche il biografo di Philip Dick, quindi doppiamente consapevole di ciò di cui si sta tentando di
parlare.
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