A proposito di Telegraph Avenue
La
definizione di "grande romanzo americano" è ormai ufficialmente
abusata, per quanto si possano elencare diverse opere che legittimamente
ambiscono a questo titolo, al tempo stesso il più lusinghiero e il più vago
della pubblicistica letteraria. Meno battuta, forse, è però la via che va alla
ricerca di quei libri che si rivelano complementari
ai capolavori ufficiali, che in qualche modo rappresentano l'altra faccia
dei monumenti. In questo senso i romanzi di Michael Chabon, un premio Pulitzer che non si prende troppo sul
serio (e che nelle foto dei quotidiani viene sempre proposto in una versione
giovanile, mentre in realtà porta con
grande leggerezza e intensità i suoi 50 anni), sono una sorta di mappa del
tesoro per i cercatori di questa America letteraria che ama i territori più
ombreggiati, gli angoli di periferia e i cavalcavia dove, e forse più che mai,
scorre comunque il Sogno a stelle e strisce, oltre che il suo racconto.
Avventurarsi
nell'ultimo, incontenibile, Telegraph
Avenue (Rizzoli), storia impossibile da riassumere della comunità -
soprattutto afroamericana, ma non mancano meravigliosi ebrei - che vive
nell'omonima via di Oakland nel 2004,
mentre un megastore dell'intrattenimento minaccia la sopravvivenza di un
raffinato negozio di dischi di quartiere, è un'esperienza che rinnova lo
stupore di lettura di romanzi come Le
fantastiche avventure di Kavalier e Clay, o Il sindacato dei poliziotti Yiddish. Tra pazzesche scene di parto,
iconografie da B-movie anni Settanta,
dirigibili neri dove si consumano pasti luculliani e tante citazioni musicali,
Chabon costruisce - e il verbo rende perfettamente il senso di un'opera che
dimostra in maniera inoppugnabile come il massimo dell'apparente libertà nasca
solo dal massimo della cura strutturale
di ogni singolo dettaglio - un mondo completo e autosufficiente, una palla di vetro
natalizia nella quale, guardando bene, magari pure con gli occhi velati di uno pseudo-Borges, dietro l'apparenza
kitsch, si può essere così fortunati da vedere "tutto". Ma, in fondo,
senza rendersene conto.
L'epopea
degli Stallings e dei Jaffe, due famiglie intorno cui si incardinano miriadi di
altre storie (e la sensazione è quella di una doccia che inonda il lettore, dove l'acqua è la lingua e le gocce
sono le singole vicende dei personaggi, umide ed effimere nel loro essere
sempre decisive), è divertita e reticente al tempo stesso, talmente incurante,
all'apparenza, da far sembrare tutto molto semplice (da qui, oltre che dalle
precise scelte sui personaggi e sul modo di presentare gli stessi, il senso di B-side rispetto al grande romanzo
sociale che oggi siamo unanimi nell'associare a un Jonathan Franzen).
L'accademia
sembra abitare altrove, non certo nel garage dove Luther Stallings - ex star
nera di film Blaxploitation (vedi
alla voce Quentin Tarantino) ispirati
all'estetica di Bruce Lee, reinterpretata però nella consapevolezza
afroamericana, che tenta disperatamente di sbarcare il lunario - consuma i suoi
progetti di riscatto semi deliranti con la sempre bellissima compagna di un
tempo Valletta Moore (gambe mozzafiato e pettinatura
afro incredibile, per intenderci). Non certo nella sporcizia della casa di
Archy, figlio dell'anziano attore, appena mollato dalla
"cazzutissima" moglie Gwen, peraltro incinta al nono mese, dopo aver
scoperto l'esistenza di Titus Joyner, figlio illegittimo e adolescente venuto
pochi giorni prima a bussare alla porta di casa Stallings per presentarsi a suo
padre. Ma anche qui pulsa l'impudicizia irresistibile della grande letteratura.
Come dimostra il terzo capitolo di Telegraph
Avenue, intitolato Un uccello di vasta
esperienza: sedici pagine di pura
bellezza senza un punto nelle quali si sente esplodere tutta la passione di
Chabon per le parole e tutta la meraviglia, imprevedibile fino a che non ci si
va a sbattere contro picchiando forte il naso, che la lettura riesce ancora a
regalare.
Nel
racconto del volo del pappagallo 58, liberato dopo la morte del suo ineffabile
padrone, il musicista Cochise Jones, lo scrittore californiano crea un movimento di camera (tra Wenders e
Orson Welles, ma fusi tra loro), una vita in un momento, una chiaroveggenza
soprannaturale, una esperienza di morte (per lo meno per lo struggimento dolce
e assoluto che, indefettibile, innesca), che rappresentano alcuni dei più
validi motivi per cui vale la pena leggere e, ci sia consentito, per estensione anche vivere.
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