(Quattro giorni in cerca del contemporaneo)
Giorno Uno
"L'arte contemporanea è, per sua natura
elitaria", mi ha detto poco tempo fa il direttore di un importante centro
d'arte italiano. Una frase che sembra avere un suo fondamento se penso ai
personaggi bizzarri che si possono incontrare ai vernissage, oppure,
all'opposto, all'atteggiamento scettico (e ovviamente qualunquista) da Alberto
Sordi apparente-uomo-comune nei suoi
film ("Ve lo meritate", diceva dell'attore romano un Nanni Moretti
meno posato e più brillante, anni fa. Bei tempi). La domanda che mi frulla in
testa questa notte, in una località balneare minore della Costa degli Etruschi,
mentre fuori piove e un bar dove fermarsi a scrivere non l'ho trovato
nonostante una passeggiata sotto l'acqua di oltre mezzora, parte però da un
altro luogo, il Lago d'Iseo, e dalla folla veramente variegata - e in gran
parte autoctona - che ha fatto diligentemente la fila per salire sui Floating Piers di Christo. Ed è una
domanda sul carattere popolare - nel senso anche deteriore del termine se
volete (lunghe code sotto il sole, odore di creme per la pelle, selfie a ogni presso, salamelle e
cotillon) - di quell'evento che non è mai stato disgiunto dal suo essere anche
un atto d'arte, di un maestro certo, la cui lezione in qualche modo già abbiamo
digerito e che quindi corrisponde più facilmente a parametri mentali mainstream[1],
ma che, sono convinto, è rimasto ancorato con forza alla dimensione del
contemporaneo. (L'altra domanda che non riesco a non pormi riguarda i costanti
proclami per espandere la platea dell'arte e poi l'inevitabile disagio - con i
noiosissimi distinguo e le insopportabili precisazioni - che si genera quando
questo succede davvero).
La verità - che non esiste, sia chiaro, ma
scriverlo mantiene un suo fascino al quale faccio quasi finta di credere -
è che a me è capitato di vedere Carsten Höller in bermuda, berretto da
baseball e birra media in mano sedersi tra il pubblico che seguiva il suo
festival di musica ispirato alle sfide tra rapper nella Repubblica democratica
del Congo (per non dire di un Maurizio Cattelan dallo sguardo silenziosamente
furibondo al tavolo di una trattoria dall'aria moderatamente turistica in via
Garibaldi a Venezia nei giorni di press preview di una recente Biennale).
Oppure di ascoltare Theaster Gates dire più o meno che l'arte deve farti
sentire come quando tua madre ti abbracciava e ti diceva che andava tutto bene[2]
(Theaster Gates!). Cerco di non giudicare (ovvio che non ci riesco, ovvio), ma
qui ho la netta sensazione che si stia parlando di un'altra cosa, dove quello
che conta ha poco a che fare con una certa idea di élite.
Allora è necessario riascoltare Giorgio
Agamben: "Il presente - scrive il filosofo - non è altro che la parte di
non-vissuto in ogni vissuto e ciò che impedisce l’accesso al presente è appunto
la massa di quel che, per qualche ragione (il suo carattere traumatico, la sua
troppa vicinanza) in esso non siamo riusciti a vivere. L’attenzione a questo
non-vissuto è la vita del contemporaneo. E essere contemporanei significa, in
questo senso, tornare a un presente in cui non siamo mai stati"[3].
La leggo tre volte, questa frase, per essere sicuro che l'illuminazione che ho
avuto istantaneamente non sia solo un abbaglio (leggiamo sempre quello che
vogliamo leggere, sussurra regolarmente una amica molto brillante all'orecchio
del mio iPhone). No, non lo è. Qui dentro c'è tutto: dalla ragione per cui ci
si innamora di Tino Sehgal, al secondo motivo (il primo è di natura
fondamentalmente mondana) che ci porta ancora a trepidare per una inaugurazione
o a visitare la Tate
Modern con un misto di reverenza da tempio e di appartenenza
decisamente pop (e se non avete pianto, o baciato, o non vi siete infuriati
almeno una volta in qualche galleria o museo allora smettete adesso di leggere,
subito!) o ancora a pensare che anche il lavoro di uno scultore armeno da Leone
d'oro sia stato concepito, in fondo, solo perché tu (io, noi, voi, mettete il
pronome che più vi piace) lo potessi incrociare un giorno, magari per
caso.
Un presente in cui non siamo mai stati. E dunque adesso
vi devo parlare di Camille Henrot, e soprattutto del suo resoconto infinito del
presente finale (che nasce dalla semplice somma delle molteplici tassonomie del
passato e anche, perché no, del futuro).
Giorno Due
Prima però, ancora un po' di contesto (perché
il contesto conta, per esempio ora sono le 0.27 di un venerdì d'estate e io sto
scrivendo in un circolo Arci, mentre la signora del bar fa le pulizie intorno
al mio tavolo e su quello accanto - ce ne sono solo due - le sedie sono già
ammonticchiate per la notte, e l'aria è carica di odore di marijuana). Per
arrivare alla Henrot e al suo Grosse
Fatigue - opera-mondo sotto forma di un video di 13 minuti - mi rendo conto
di avere camminato molto - quasi sempre da solo, talvolta con le cuffie alle
orecchie - attraverso diverse città. Ho camminato per raggiungere certi luoghi
(un ponte pedonale sul Meno a Francoforte; la stazione di Rotterdam di notte;
un appartamento caldissimo a due passi dalla cattedrale di Westminster; una rotonda
strada le a Mantova; una casa d'aste
a Torino; un locale malfamato e immaginario da qualche parte nella foresta
dominicana; un negozio di giocattoli a Brooklyn... È un elenco che mi serve
come promemoria, più che come strumento di vanto), ma soprattutto per guardare
le persone (le coppie! Le coppie sono il Mistero
Penultimo[4] per il camminatore
solitario) e, in qualche modo, rubare loro un frammento di storia (avevo
scritto anima, ma poi mi sono reso conto che era davvero troppo per questo
pezzo), da ricomporre in seguito con tutti gli altri per (non) completare (mai)
il puzzle dell'intera città. E, città dopo città, chilometro dopo chilometro,
arrivare all'assurdo e invisibile (perché tutto resta ben chiuso nella mia
testa) catalogo del mondo da me conosciuto. Ecco, la parola catalogo è il primo
punto di contatto tra me e la
Henrot. Il secondo è la città che più mancava nel momento
autoreferenziale dell'elenco precedente: Venezia.
Come una specie di Ungaretti d'acqua salata -
il poeta ermetico era un nuotatore fluviale[5]
e d'acqua dolce - ogni mare in cui mi bagno me ne rimanda altri. Tutti però poi
alla fine mi riportano alla Laguna, al vento nei capelli quando mi sporgo dal
vaporetto numero 2 nei pressi del Tronchetto, ai moncherini di galleggianti
mentre si allestisce il ponte temporaneo per la festa del Redentore, alle
nuvole basse sull'orizzonte verso Cavallino Treporti. Curiosamente, ma forse
no, la somma dei miei bagni fa da affluente all'immagine di un mare in cui mai
sono entrato, e soprattutto alla luce odorosa di Venezia, alla sua tristezza
turistica, al suo vero Prozac (per me
paziente): la Biennale, una droga della felicità la cui ricetta si rinnova da
sola, una promessa che non ha bisogno di contenuti (e io, sul serio, non riesco
a pensare a niente di più importante di un concetto che basta a se stesso al di
là del suo contenuto, perdonatemi, ma il Kant della Ragion Pura per me resta il top). Da qui, nel 2013, complice
l'iperattivismo magnetico e molto esposto di Massimiliano Gioni, è partita
l'avventura pubblica di Grosse Fatigue,
due anni dopo la mappatura del tempo immobile fatta, sempre a Venezia, da The Clock di Christian Marclay, un altro
di quei lavori che, volendolo[6],
potrebbero rispondere da soli alla domanda di fondo sull'arte contemporanea. E
dunque adesso il contesto più o meno lo abbiamo. Ora tocca fare sul serio,
senza mai dimenticare quello che scriveva Beckett nel suo più bel racconto:
"Naturalmente tutto questo è immaginazione, perché io non c'ero"[7].
Il presente in cui non siamo mai stati.
(Alle 1.09 esco dal circolo Arci con un nuova
lattina di Coca Cola in mano. La bevo per le vie deserte della cittadina mentre
ascolto e ballo una canzone di Jovanotti. La finisco esattamente davanti al
cassonetto per la "raccolta mista" di plastica e lattine. Tutti i passi che ho compiuto nella mia vita
- scriveva - Alberto Garutti - mi hanno portato
qui ora. Proprio così).
Giorno Tre
C'ero quando lo hanno acceso[8] e c'ero quando lo
hanno spento[9].
Nell'intervallo ΔT tra questi due
momenti capitali ci sono stato molte altre volte, davanti allo schermo che
proiettava Grosse Fatigue, ma non
alla Biennale (perché le cose succedono in un solo modo, e al posto giusto
arrivo quasi sempre in ritardo... però, almeno questa volta, sono arrivato),
bensì in una sala di rara bruttezza (ma di questo mi sono accorto solo dopo che
l'opera della Henrot se ne era andata, lasciandomi orfano e sull'orlo di una
crisi di panico la prima volta che ci sono ritornato, peraltro mettendoci
parecchio tempo per riconoscere che quella era la stanza) di Palazzo Reale a Milano, e la mostra era la enciclopedica Grande Madre , sempre
di Gioni e con più di un punto di contatto con il suo exploit veneziano di due anni prima. Mi sono seduto più di venti
volte davanti al monitor oversize,
nella maggior parte dei casi sul piccolo divano ufficialmente predisposto, ma
anche per terra, e almeno in due occasioni ho guardato l'opera da dietro, con
le immagini al contrario (non sto a raccontarvi le espressioni dei custodi di
Palazzo Reale quando mi vedevano arrivare). Ma nonostante tutto questo, adesso,
inchiodato davanti a questa tastiera virtuale seduto su una panchina alla luce
bianchissima di un lampione strada le,
non riesco ad avere alcuna immagine precisa di quanto ho visto e disperatamente
amato.
Mi spiego, ricordo i momenti del video, le sue
scene più intense (a mio parere), alcune parti musicali, le sensazioni che si
innescavano in me e intorno a me. Ma non ricordo che cosa vedevo e capisco di non ricordarlo perché, in fondo, non
c'era niente di più del Tutto, in quei 13 vertiginosi minuti, niente che si
potesse davvero ricordare senza restarne fisicamente sopraffatti (e mi dico,
consapevolmente ridondante, che questa è l'arte). Grosse Fatigue, ripensata oggi, da lontanissimo, mi appare, oltre
che il prodigioso tentativo di catalogare la catalogazione (il video, molto
semplificando, tratta della storia del mondo attraverso reperti e materiali
conservati allo Smithsonian di Washington D.C., una enciclopedia visiva per
finestre da sistema operativo - tutto avviene sul desktop di un computer - che
diventa narrazione plurale e onnicomprensiva, con voce fuori campo e parti
cantate), soprattutto una stupefacente macchina del desiderio, in molti sensi
diversi, tra i quali la brama di evoluzione, il meccanismo erotico che ne è
alla base, o la soverchiante ossessione per l'ordinamento della conoscenza
("Siamo stati per secoli martellati dalla conoscenza", mi ha detto
mesi dopo in Fondazione Prada
l'artista angolano Nàstio Mosquito, parlando del proprio lavoro), ma anche il
desiderio - e siamo ancora lì - che il presidente della Biennale Paolo Baratta
intende ufficialmente riattivare attraverso le ultime mostre veneziane
(Biennali "per tornare a desiderare", ha detto più volte, sia per
quelle di architettura sia per quelle d'arte), un desiderio come meccanismo,
per l'appunto, più che come oggetto definito. Da qui la sensazione di nebbia
che resta nei miei ricordi su Grosse
Fatigue, da qui la magia di Camille Henrot, che nelle fotografie a me appare
meravigliosamente algida e distante, come è assolutamente giusto che sia. Il
desiderio sta nell'opera, nel mondo che descrive, nel modo - del tutto parziale
e così universale - in cui lo descrive.
Da qui l'intuizione di un presente che
è fatto solo dalla somma di passati (e possibilità future) che ci appartengono
biologicamente, ma dei quali non sappiamo nulla. Così, in quella sala della
sede espositiva più prestigiosamente paludata di Milano, mi sono ritrovato in
quel momento attuale nel quale io non c'ero. Bevendo con foga la strana essenza
del mio essere contemporaneo.
Al centro del meccanismo che fa muovere la
macchina della Henrot, straordinariamente complessa se la osservate
attentamente, con centinaia di livelli narrativi in parallelo, che si sviluppano
indipendentemente dall'attenzione o dalla (im)possibilità della stessa da parte
dello spettatore, ci sono i corpi, ma soprattutto gli oggetti.
Giorno Quattro
Sono tornato a Milano, accolto da un
nubifragio estivo che mi ha inzuppato la giacca e abbattuto il ciuffo. Guardo
la città da una finestra al quinto piano e la luce ritaglia le sagome di
palazzi, campanili, ripetitori e gru. Non so se sia il presente, quello che
respiro adesso, temo che continui al massimo ad assomigliargli soltanto un po’,
talvolta più, talvolta meno, in base ai momenti e alle ombre. Quello che mi
sembra indubitabile (aggettivo troppo scivoloso, mi rendo conto, soprattutto
per uno che dichiara di condividere la frase di Höller "Il dubbio deve
essere recepito come bellezza"[12]), mentre scruto la
città, nitida e irraggiungibile, è che questa contemporaneità è aperta[13] e che non serve
nemmeno chiedere permesso, basta avere il fegato (mica tanto, ma mi rendo conto
che il concetto di soglia psicologica è sempre complesso) di entrarci,
senza neppure dover firmare la liberatoria, come capita al Museo del Novecento
per poter camminare nel magnifico Corridoio
elastico di Gianni Colombo
(se vi manca, andateci adesso!).
I lavori di Camille Henrot, ma potrei citare
anche le scritte luminose di Jenny Holzer oppure le strutture semi biologiche
di Ernesto Neto, o ancora un film come The
Crowd di Philippe Parreno e perfino le animazioni disturbanti di Nathalie
Djurberg, sono nostri, non c'è nessuna élite di fronte all'atto di radicale
libertà che è sempre connesso alla scelta di stare accanto a un'opera d'arte.
Questa roba siamo (anche, d'accordo) noi. Maurizio Cattelan è così grande - e
lo è sul serio - perché in fondo non esiste[14], esattamente come
questo inafferrabile presente di Agamben per ciascuno di noi.
La vita è altrove, scriveva Kundera, ma ogni
tanto succede pure che passi di qui.
Magari basta tenere gli occhi aperti.
Leonardo Merlini
Kilgore Magazine, 2016
[1] Il problema è nostro. Fare i conti
con l’idea stessa di mainstream – non
per piegarsi, ma per confrontarsi – è una di quelle operazioni che sarebbe
assai salutare prendere in considerazione. Noi supposti intellettuali (o
sedicenti tali).
[2] Poco dopo lo stesso Gates, il cui
fisico possente è fatto apposta per abbracciare persone, neanche avesse al
collo il celebre (e comunque un po’ inquietante, lo so) cartello “Hugs for
Free”, ha detto anche, parlando del pavimento di una palestra che ha ricostruito
dopo la chiusura dell’impianto, che l’arte dovrebbe farci sentire come quando l’allenatore
ti dava una pacca sulla spalla dicendoti una cosa tipo “ben fatto, ragazzo”.
Forse non mi è mai capitato, ma è tutto così incredibilmente perfetto.
[3] Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo e altri scritti.
[4] Il Mistero Ultimo, ovviamente, è il camminatore solitario stesso che
si chiede incessantemente: “E l’amore?”.
[5] Giuseppe Ungaretti, I fiumi. “Stamani mi sono disteso / in
un’urna d’acqua / e come una reliquia / ho riposato”.
[6] Ma credo che alla fine non lo
vogliano.
[7] Samuel Beckett, Primo amore.
[8] Il 25 agosto del 2015, una data
impossibile a ben guardare. Ma eravamo comunque tutti lì.
[9] Era il 15 novembre, due settimane
prima si era chiusa Expo, il mio migliore amico era partito per l’Olanda, la
redazione aveva traslocato in un quartiere nuovo, lontano dai bar e da cinque
anni di vita di relazione: insomma, il mio senso di perdita e spaesamento era a
livelli quasi insostenibili. (La fine di
qualcosa, scriveva Hemingway).
[10] True
Value – Scommettere sull’impossibile. Theaster Gates in conversazione con
Elvira Dyangani Ose. Fond. Prada
[11] In realtà però questa assenza di
disagio a pensarci bene mi mette a disagio.
[12] Intervista con Ginevra Bria, Flash
Art 328
[13] Come era sempre rimasta aperta la
porta della Giustizia in un celebre racconto di Kafka, solo che l’uomo che
attendeva fuori il proprio turno non lo sapeva ed è rimasto in attesa per tutta
la vita.
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