23 agosto 2016

Honeymoon

Un racconto tropicale

Naturalmente, pioveva. Quando apriva le tende, ancora non del tutto consapevole di essersi svegliato, già sapeva quello che avrebbe visto. Il cielo di un indefinibile colore giallastro, le palme grigioverdi e le gocce che rimbalzavano sulle beole del camminatoio o che colpivano la piscina, deserta. Il rumore della pioggia arrivava prima, quando lui ancora dormiva, accampato sul lato estremo del letto matrimoniale, con una mano maldestramente appoggiata al comodino di finto teak. Il rumore era suadente, incisivo, talvolta perentorio. Arrivava puntuale, a metà della notte, nonostante la sera prima il cielo avesse offerto la solita, nitida stellata australe. Stelle diverse - pensava l'uomo sorseggiando un drink a base di Martini rosso - stelle sbagliate. Guardava il barman latino e le due ragazze che lo affiancavano, con nessuna funzione precisa se non quella di mostrare tutta la loro presenza erotica, tanto evidente quanto irraggiungibile. Guardava l'orlo dei propri pantaloni, pensava al modo in cui avrebbero dovuto cadere sulle scarpe e al fatto che tutto questo non succedeva mai, sentiva il sale sulla barba e la musica rap suonata da un dj invisibile, capace di dare forma sonora a qualcosa che era mainstream, ma che, sul momento, non lo sembrava. I corpi si muovevano, il gruppo in pista aumentava, e con esso il volume della musica. Come se la stessa struttura volesse esasperare le situazioni, lasciando la promessa di qualcosa che non aveva un nome preciso, ma evocava parole proibite. Poi, all'improvviso, la musica smetteva, di colpo. I corpi si allontanavano in fretta, il desiderio - che fino a poco fa lui aveva percepito come selvaggio - scompariva senza lasciare traccia, se non quella di un bicchiere di rum e cola rovesciato che in pochi istanti un addetto dalla pelle più scura rispetto a quella del dj e del barman avrebbe diligentemente rimosso. Le prime volte questo momento di rottura lasciava l'uomo sotto choc, incapace di capire il perché di una rinuncia tanto radicale. Un turbamento che gli aveva impedito di realizzare, almeno per due giorni, che in realtà la discoteca si trasferiva a una certa ora in uno spazio chiuso e insonorizzato, dove successivamente gli stessi corpi riprendevano il loro rituale, del quale, comunque, lui non era mai riuscito a vedere la fine. Aspettava in silenzio che anche il bar chiudesse, poi camminava sul bordo della piscina, sentendo l'odore del disinfettante al cloro che era stato spruzzato dopo il tramonto mischiarsi al vento dolciastro dell'umidità che saliva dalla spiaggia. La prima sera, mentre vagava assaporando il jet lag quasi come una epistassi inattesa, aveva guardato le spalle nude di una turista con i capelli corti, pensando che avrebbe potuto baciarle, nella zona alla sinistra del collo e lei, con naturalezza, avrebbe alzato la mano destra posandogliela sulla guancia, per trattenerlo ancora un attimo. Non lo aveva fatto, ovviamente. E la turista si era allontanata sulle sue ballerine molto scollate.
Poi qualcuno aveva alzato la voce in lontananza, le luci delle stanze si erano abbassate, due zanzare erano morte bruciate con l'inconfondibile crepitio.
La notte, nel resort, non faceva prigionieri.

 La pioggia tropicale. Qualcosa a metà tra una bugia condivisa e un monito moralistico. Apriva la finestra e usciva sul piccolo balcone, due sedie di metallo con cuscini colorati e un tavolino tondo. Da lì, seduto con indosso un paio di boxer grigi e senza mai trovare una posizione che avrebbe definito comoda, faceva i conti con il temporale, un fenomeno meteorologico che qui prendeva una connotazione più chiara, cronologica. Le attività normali del luogo di vacanza venivano sospese, rinviate, modificate. La pioggia aveva la forza di scardinare lo stereotipo e di costringerlo a pensare se stesso e il suo essere in quel luogo. Era questo - si diceva - che spaventava i turisti, il cambiamento che il temporale portava con sé. Le coppie adulte, come la sua, si fermavano sui balconi privati, la donna con un libro in mano, l'uomo con un asciugamano intorno ai fianchi e lo sguardo sfuggente, e tutto quello che potevano sentire era la reciproca distanza, l'assurdità non tanto di quel viaggio ai Tropici fuori stagione, ma di tutto il resto, quello che c'era oltre la vacanza organizzata. Lui poteva sentirli i discorsi, vedeva gli sguardi imbarazzati dall'obbligo di quella intimità inconsueta, percepiva la quieta disperazione in ogni stanza luxury superior, una disperazione riempita di bicchieri con ombrellini colorati, pareo, sempre più di rado biancheria intima accattivante.
Quando lei si svegliava lo faceva senza rumori, aveva la capacità di muoversi nelle stanze furtiva ed estranea. Le pieghe delle lenzuola su un fianco, un paio di mutande di cotone con gli elastici allentati, i capelli sciolti. Lui non sapeva cosa pensasse della pioggia, ma la vedeva arrivare sul balcone in silenzio e, senza guardarlo, occupare l'altra sedia.
La piscina è disabitata, diceva lei.
Lo è da sempre, rispondeva lui.
Non ti chiedi perché.
Forse è solo uno status symbol.
Il loro matrimonio. Nessuno dei due ricordava come fosse successo. Semplicemente era successo, molto tempo prima. Niente drammi, due persone. La distanza incolmabile che la società pretende di poter colmare. I figli, le case, dei voli in aereo, dei funerali. Ogni mattina la sensazione di non avere nessuna idea della persona che dormiva lì accanto, in letti che per un certo numero di anni erano andati sempre crescendo di dimensione.
Pensavo di avere un'avventura, diceva lei mentre l'intensità della pioggia aumentava.
Che cos'è un'avventura, diceva lui.
Un'avventura è un'avventura.
Forse allora anche un'avventura non è niente.
Sì, rispondeva lei senza esitazione. Vado a fare colazione.
D'accordo, diceva lui, senza muoversi. Poi, quando lei era uscita dalla stanza, prendeva una camicia a maniche corte, la indossava prestando una attenzione eccessiva ad allacciarsi i bottoni e stava fermo, in piedi, anche per svariati minuti a fissare la piscina. E finalmente, a un certo punto, sotto gli scrosci di pioggia, aveva visto un turista biondo tuffarsi e scomparire sotto il livello dell'acqua.
Prima di andare al ristorante aveva pensato che quell'uomo, verso il quale sentiva un debole ma chiaro astio, non sarebbe mai più uscito dalla piscina. Poi aveva chiuso la porta e si era immediatamente dimenticato del nuotatore solitario.

Il rum cominciava presto la mattina. Inizialmente con una certa ritrosia, solo per colorare la prima Coca-Cola, poi, inesorabilmente, la dose cresceva, fino a tiranneggiare l'ora del pranzo. Gli occhi rossi dei camerieri, gli sguardi taglienti del giovanissimo barista, la carne bianca che sfuggiva al blando controllo dei costumi mélange. Il rum stemperava tutto questo, almeno nella prima fase. Poi, e lui lo sapeva, aveva l'effetto opposto, diventava una lente d'ingrandimento, crudele e nitida. E per tollerare quanto finiva con il vedere, l'unica soluzione era bere ancora di più.
Lei era scomparsa nell'enorme ristorante. Lui non la cercava. Mangiava uova strapazzate salate e sentiva l'alcol espandersi dentro di sé a ogni boccone. Le palme ondeggiavano sotto i colpi del vento, le lenzuola candide dei gazebo sfuggivano via. Ogni cosa era illuminata dalla maestosità del temporale.
Stanotte andiamo, diceva a quel punto il cameriere capo, un creolo addetto alla zona est del ristorante. Lui ci aveva parlato alcune volte nei giorni precedenti. Mai nessuna confidenza - aveva paura delle confidenze altrui - solo qualche frase maschile appena poco oltre la circostanza.
Stanotte andiamo, replicava interrogativo.
C'è il poker, una bodega, donne, diceva ancora il cameriere, hanno girato un film.
Lui pensava a scene da Humphrey Bogart, pavimenti di fango, persone in divisa. Pensava all'impossibilità costante di dare un nome alle situazioni. Che cosa stava succedendo. Che cosa voleva dire quella pausa nel cadere della pioggia, perché il maitre indossava dei sandali in sala da pranzo. Hanno girato un film.
Quale film, chiedeva.
Un film messicano, rispondeva il cameriere. Attori famosi.
Che genere di film.
Attori famosi.
Che locale, chiedeva lui.
Honeymoon, stanotte. Abbiamo un'auto sicura.
Lui aveva bevuto un altro bicchiere. Ricordava il giorno in cui suo padre lo aveva portato per la prima volta con sé a un torneo di biliardo. Le tende pesanti, l'abbigliamento del pubblico, giacche marrone chiaro, pantaloni di gabardine, cravatte troppo corte, le luci verdi graffiate, molto fumo. L'odore di tutti quei dopobarba si sommava, a lui era sembrato di mangiare un osceno dolciume di gelatina scura, e la mano del padre che non lo lasciava, lo guidava dentro la notte rassicurandolo che tutto, nonostante le apparenze, sarebbe andato per il meglio.
Il cameriere non assomigliava a suo padre. 

Dove vai. Gli stava dicendo lei, senza particolare attenzione.
C'è un locale di poker, rispondeva, un'auto sicura.
Un'auto sicura.
In altre occasioni avrei pensato che potevamo fare l'amore, diceva lui.
Forse avrai un'avventura, diceva lei. Su un'auto sicura.
Un'avventura non è niente.

Il cielo era rimasto nascosto, mentre uscivano dal resort salutando le guardie armate di fucili a canne mozze con un cenno della mano del cameriere. Le strade erano uguali a tutte le strade del terzo mondo. Cani, galline, pochi gatti, spazzatura, veicoli a motore non omologati, insegne sgargianti, tralicci del l'elettricità sovraccarichi, manifesti elettorali. Il cameriere guidava con aggressività, quasi con rabbia, pensava lui, spegnendo il motore nelle lunghe discese tra una collina e l'altra. Poco prima di entrare nella cittadina una mucca gli aveva sbarrato la strada per qualche minuto, trascorsi in un silenzio denso e inutile.
Per entrare all'Honeymoon occorreva passare una sorta di controllo, da parte di un anziano calvo e di una ragazza sciatta che avrebbe potuto essere la nipote. Il cameriere aveva parlato brevemente con loro, quindi aveva ottenuto il via libera. Lui aveva lasciato 20 dollari, senza capire se fosse una tariffa d'ingresso per loro due o solo un gesto di cortesia verso i suoi ospiti. La ragazza lo aveva guardato e poi aveva sputato per terra, ma senza dare segni di disprezzo o fastidio. È solo uno sputo aveva pensato lui, niente altro. Il cameriere aveva smesso di parlargli da tempo, e non aveva detto nulla anche quando aveva indicato un tavolo in uno degli angoli della sala. Poi si era allontanato, seguito da due donne e da un cane. Lui rimaneva al tavolo, unico avventore, un ragazzo gli portava un bicchiere di rum, e quando lui pronunciava la parola poker questi alzava le spalle e se ne andava senza dire nulla. Al banco sedevano piccoli gruppi di uomini, intorno ai quali si muovevano svogliate le prostitute, che si tenevano però a distanza dal tavolo. Voleva telefonare a sua moglie, ma non avrebbe saputo come giustificare la chiamata. Allora faceva un altro cenno al ragazzo del rum. 
Gli spari arrivavano poco dopo, secchi, poderosi, inequivocabili. 
Difficile dire se dal retro del locale o dalla strada. La reazione nel bar era indecisa, due uomini estraevano quelle che a lui sembravano armi, ma non sapeva dire di che tipo quindi uscivano. Le prostitute andavano tutte in una stanza che pensava fosse il vero e proprio postribolo, il ragazzo rimaneva al suo posto al banco e del cameriere non c'era traccia. Lui è morto, pensava. È lui la vittima. Si era alzato, lasciando altri 20 dollari sul tavolo. Nessuno lo guardava, nessuno sparava più. La notte era immutata, e stava cominciando a piovere. Forse gli spari me li sono solo immaginati, si diceva, ma poi erano comparsi i due uomini che pensava fossero armati. Lo guardavano, ma sembrava che non lo vedessero. Niente poker, mugghiava il più basso dei due. Niente poker, ripeteva. 
A quel punto compariva il cameriere. Non sei morto, gli diceva lui. È un'auto sicura, era la risposta.

Leonardo Merlini

© Kilgore Magazine

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