Caro Philip
Roth,
ho letto con
passione la sua intervista con il New York Times, trovando ben più
interessanti le parti sulla sua vita dopo la scrittura, piuttosto che i giudizi
politici su Trump che hanno fatto titolo, ammirando comunque la precisione del
paragone con il reale Charles Lindbergh divenuto presidente, a differenza del
biondo magnate, solo nella storia letteraria. Ma più di ogni altra frase (e
comunque quella sullo stupore di arrivare a sera ogni giorno è una specie di
romanzo in poche parole che da sola vale il viaggio), devo confessarglielo,
sono rimasto totalmente folgorato dalla fotografia che le ha scattato Philip
Montgomery: un uomo anziano, ritratto quasi di spalle, con i capelli ancora
lunghi, ma chiaramente provvisori, la schiena incurvata, la parete spoglia e,
fuori dalla finestra, verso la quale però lei non guarda - non so se per
stanchezza, pudore o malinconia - quella New York perfetta, inarrivabile e
splendente come solo la pubblicistica interiore ci sa mostrare. Mi sono
commosso, vuoi per la mia senilità incipiente, vuoi perché la fotografia fissa
con precisione incurante uno dei luoghi cardine della sua letteratura, e della
vita di tutti. Lei Roth, qui nei panni chissà quanto stravaganti dell’ex scrittore, è
colto - come sempre accade con le buone immagini, perdoni la banalità del
commento - esattamente sul punto non so se di varcare, ma certo di percepire una soglia,
un passo apparentemente semplice e in realtà così definitivo, come ci apparirà
quando, guardandoci indietro, ce ne ricorderemo.
(“Si presentarono i miei cinquant’anni -
cantava il Buffalo Bill di Francesco De Gregori - e
un contratto col circo”).
La mia, di
soglia, questa notte è lavorativa. Sono un giornalista che potrebbe vedere
chiuso il suo giornale e perdere, in un sol colpo e per motivi che sono in gran
parte bislacchi e in piccola parte fraudolenti - o così a me appaiono - il suo
lavoro e un bel pezzo del suo mondo. Nel giro di pochi giorni, ma dopo una
attesa che dura da troppo tempo, dopo uno stillicidio di ansia e di piccole
vergogne, oltre che di continue sconfitte apparentemente trascurabili, alle
quali ho però deciso di non voler più concedere la mia tristezza. Per questo le
sto scrivendo, perché nessuno, alla fine, potrà battermi se io posso scrivere una lettera
a Philip Roth, o meglio, mi batteranno lo stesso, ma io avrò la mia missiva, la
mia soglia personale a cui guardare, come lei che, in quella foto, lo confessi,
stava di sicuro scrutando uno specchio di Borges sul pavimento della casa della
Grande Vecchiaia. Lo so, il mondo e i suoi accidenti non ci appartengono mai
fino in fondo, però talvolta li riusciamo a distinguere e lei pure è riuscito a
raccontarli. Non sto a dirle che cosa sia esploso nella mia testa di inesperto
bibliotecario quando lessi per la prima volta, quasi clandestinamente durante
le ore di lavoro, lI Teatro di Sabbath, o ancora il totale delirio che mi contagiò nelle settimane, poco
tempo dopo, dedicate a Operazione
Shylock. Non sto a dirglielo perché
comunque, per quanto momenti straordinari, non sono o non vogliono essere il
cuore di questa lettera. Il punto è la domanda che la soglia mi ha fatto sorgere:
ma per un condannato a morte il rinvio della sentenza è un giorno in più oppure
un allungarsi dell’agonia? Io so che lei, Philip, la risposta la conosce, ma so
altrettanto bene che, per fortuna, non me la dirà. Ma , per favore,
resti ancora un momento fermo come nella fotografia, a ricordarmi che, in ogni
caso, tutto è sempre possibile.
Benché
animato da una voglia di scrivere che da puerile è diventata negli anni
qualcosa di più complesso, devo dirle che su di lei, Roth, ho a lungo rinviato
il pezzo “importante” (almeno per me), ho girato intorno all’argomento, con
qualche recensione controllata e poco appassionante o brevi accenni, magari buoni
o persino buonissimi in qualche raro caso, ma dentro ad altre storie, mai
soltanto sue. Eppure la relazione era così forte, così importante per me, da
usarla come stilnovistico “uomo schermo” per parlare della mia New York in
una specie di saggio dove ho provato a raccontare - fallendo naturalmente -
quello che non si poteva raccontare, come per esempio la completa esperienza
di attraversare di notte su un taxi il Manhattan Bridge (ogni volta che
passiamo sul Manhattan Bridge - dice più o meno Ben Lerner nel suo stupefacente
romanzo Nel mondo a venire - ricordiamo di avere attraversato il ponte di Brooklyn), oppure
la temperatura assurda di un tè assaggiato con imprudenza e conseguente choc la
mattina troppo presto in un bar di Carrol Gardens. Tanto che - dato che
comunque si doveva fallire, allora perché non farlo alla grande - quando
il mio racconto-diario è arrivato alla domenica nella quale sono realmente
salito sul ponte di Brooklyn, non ho resistito e ci ho messo pure un incontro
con Mickey Sabbath, “furtivamente osceno, con indosso una giacca a vento troppo
larga, sbiadita, e in tasca ancora il ricordo delle mutandine dell’ultima
conquista immaginaria”. Poi, aggiungevo, “sono certo di averlo sentito
bisbigliare un commento ammirato sulle tette di una manifestante afroamericana
particolarmente infervorata (il contesto era corteo di gruppi religiosi sul
Ponte, ndr). E lei, perfettamente a proprio agio, le ha scosse con più
entusiasmo, mentre intonava il ritornello di un Inno al Signore, guardando
Sabbath dritto negli occhi”.
Capisce
Philip, capisce che io, oggi che non ho idea di cosa succederà domani, oggi che
penso che dovrei provare maggiore gratitudine, magari alcolica ma vera, nei
confronti del tempo che ho vissuto finora, io dovevo scrivere a lei, non potevo fare diversamente,
altrimenti sarebbe stato l’ennesimo spreco di un ricordo che invece adesso
posso tenermi. E se lei baciava Jackie Kennedy in ascensore io, per lo meno, le
ho rubato un paio di personaggi per qualche minuto (il secondo si chiama Franz
Kafka, e, dai, lo ammetta, per rubare un personaggio con un nome tanto assurdo
ci vuole un briciolo di fegato… in realtà ho rubato anche lei come personaggio,
nello stesso racconto - peraltro dedicato a Nathan Zuckerman - ma senza mai
chiamarla per nome, chissà se si tratta di un’attenuante o di un’aggravante).
Non sarà
molto, ma è già qualcosa.
Santo cielo,
adesso però questa lettera proprio non sta più in piedi.
Ce l’abbiamo
fatta allora?
Caro Philip
Roth,
il tempo
stringe. Il mio, per chiudere questo pezzo, il suo per non doverne sprecare mai
per leggerlo. Continuo a non sapere se il condannato stia godendo il giorno in
più o se continui a torturarsi nell’attesa. Io ho deciso che le ore servite per
scriverle questa missiva sono ore valide, ore buone, ore che avrebbero dato
soddisfazione - non come esito, per l’amore del cielo, ma come applicazione -
al buon vecchio Hemingway e anche, spero, a un amico che scrive meglio di me e
che in un qualche modo sa tutto, anche se finge il contrario. Cosa succederà
poi io non lo so, credo che non lo sappia nemmeno lei, Philip. E’ un buon punto
di partenza per scriverle una lettera magari, tanto poi nessuno ci crederebbe,
men che meno Roth. O no?
(Vi ho voluto bene, adesso vado)
(Arrivederci, amore, ciao. Le nubi sono già
più in là).
Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine 2018
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