Lui è in carcere e attende la condanna a morte, alla quale vorrebbe sfuggire, senza successo, tentando il suicidio. Lei fa sculture, ha un marito e una figlia con cui vive in una casa arredata con grazia. Lei si innamora di lui, lo va a trovare in carcere, gli racconta di quando, da bambina, è “morta per cinque minuti” dopo un gioco di apnea subacquea spintosi un po’ più in là. Poi decora le pareti della stanza dei colloqui e, complice il misterioso direttore del carcere, inventa per lui uno specialissimo karaoke delle stagioni e, in un amplesso che ha più di un punto in comune con la morte, ama il prigioniero sotto l’occhio incessante della telecamera. Dopo di che tornerà alla vita di prima. “Soffio” è il nuovo film di Kim Ki-duk, e la storia è un condensato della poetica dell’autore coreano, sempre più a proprio agio tra i grandi del cinema di oggi. Un film che ipnotizza, sorprende, lascia le solite domande a cui è difficile dare una risposta e, come in tanti altri lavori di Kim, ci ricorda che l’amore è un’impresa complessa e indecifrabile, che trova una sua dimensione assoluta quando danza con l’altro arcano inconoscibile, la morte.
“Soffio” affonda la sua forza nel contrasto tra l’ambiente gelido della scenografia (l’inverno coreano, le nude pareti delle prigioni che tanto spesso ricorrono nei film di Kim Ki-duk, senza che per questo il loro ancestrale mistero ci sia chiarito) e la devastante passione che incendia gli amanti impossibili. E si arricchisce di una riflessione (è proprio il caso di dirlo) metacinematografica quando veniamo a sapere che il volto che si specchia nel monitor del misterioso direttore del carcere che tutto scruta con le sue telecamere è proprio quello del regista, assurto qui a onnipotente gestore del destino degli amanti, forse con il segreto scopo di regalare al condannato un ultimo bruciante assaggio della vita e alla donna quella indicibile emozione che le consentirà, appagata un po’ come lo fu Ulisse del mistero del mondo, di ritornare alla sua Itaca domestica. Oppure solo di ricordarci una volta di più, l’essenza ambigua e ricca di fascino della settima arte.
Su tutto domina la passione, che nel film è coltivata anche da altri personaggi, come il compagno di cella del protagonista o l’amante del marito della donna, che lui, una volta scoperto il segreto della moglie, deciderà di lasciare. La coppia sembra ritrovare una sua normalità (ma che cos’è la normalità ci viene da chiederci ogni volta che guardiamo un film di Kim Ki-duk o la fila del sabato pomeriggio in un supermercato) mentre per il condannato non c’è alternativa alla morte, che pure sembra venire da un eccesso di amore possessivo (altro “fondamentale” del cinema di Kim). E la domanda nasce spontanea: solo la rinuncia o la morte sono le alternative alla passione che “entra nelle nostre stanze e le brucia”? A giudicare dalla sinossi del film verrebbe da dire di sì, ma c’è una terza via che il regista percorre sicuro ed è quella dell’arte di guardare e di raccontare questa passione, il cui brillante ardore scalda e illumina un po’ anche noi.
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