Un incrocio tra un’indagine sociologica sul malessere profondo di un Paese senza più parametri di riferimento e un pamphlet scritto da un Voltaire che scopre inattese inclinazioni per lo splatter. “Italian fiction”, romanzo del ventisettenne genovese Michele Vaccari, è un oggetto letterario che piomba sul palcoscenico italiano con la furia di un ciclone rabbioso e lascia il lettore scioccato e stupito di fronte all’evidenza di una scrittura ricercata fino all’eccesso e di una storia in cui tutti i personaggi sono mostri quotidiani che sorpassano senza farsi troppe domande le proprie linee d’ombra. Edito da Isbn, casa editrice che mostra un occhio particolarmente attento alle nuove tendenze letterarie, il libro di Vaccari fa a pezzi con leggerezza l’intera tradizione del romanzo classico, lasciando sul terreno vittime illustri come la coerenza narrativa, la verosimiglianza e pure le unità di luogo e tempo care al teatro. E ogni tanto il gioco è così spinto che pare che, insieme all’acqua sporca, Vaccari butti via anche il bambino. Ma in realtà l’operazione è lucida e l’effetto è quello di una rivelazione su come raccontare il presente italiano – esploso e folle - in maniera così vivida da mozzare il fiato.
La storia è, per modo di dire, quella di una fuga d’amore tra un hardcore warrior, Guido, che passa le notti in discoteca imbottito di pasticche e si rilassa facendo a pezzi le automobili altrui, ed Elena, “forse la migliore cosplay d’Italia”. Dove per cosplay si intendono ragazze che impersonano le dive dei fumetti ad uso di fanatici appassionati delle eroine di carta. Lui violento e “fascio”, lei gelida e interessata solo ai propri capelli, si scontrano per caso per le vie di Vigasio, allucinante paesino della provincia veronese, e da quel momento inizia il loro viaggio improbabile – tanto in termini di realismo quanto di tempi narrativi – verso la Scandinavia, per partecipare a un rave party che durerà fino alla fine dei tempi. Intorno a loro il mondo crolla, devastato dall’esplosione della follia della gente comune che, per i più futili motivi, sceglie la via assoluta e grottesca della violenza. In fondo al viaggio di Guido ed Elena c’è la città-utopia di Appearence, dove tutto ciò che conta, appunto, è apparire, in una sublimazione al vetriolo dell’etica da reality-show che si stende, sembra dirci Vaccari, come una maledizione sulla nostre società evolute.
“La realtà non esiste mai e, quando esiste, tutti preferiscono nasconderla” dice a un certo punto il padre di Guido, anche lui in fuga dall’orrore quotidiano addirittura nei panni di Mal dei Primitives. E, come in un “Candide” immerso nell’acido lisergico, “Italian fiction” ci racconta questo mondo impazzito e fittizio con un abuso di metafore e citazioni pop che danno la cifra stilistica della voce di Vaccari, ridondante come si addice a un vero moralista. Alla fine, al termine di un viaggio da incubo che fa pensare anche all’ultimo Céline, si intravede forse una via d’uscita dalla follia dell’apparenza a tutti i costi nella “sedizione” a cui Guido dice di voler dare inizio. In realtà il romanzo è tutto tranne che consolatorio e la visione del mondo che ne deriva è desolante come poche altre. Ma è anche uno sguardo sul presente che entra in zone oscure, di cui si tende a non parlare, del malessere profondo di un Italia che finora non avevamo mai potuto guardare in questo modo.
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