10 novembre 2007

Dyer, un Borges per la fotografia

"In fotografia non esiste un 'nel frattempo'. C'era solo quell'istante e adesso c'è quest'altro istante e nel mezzo non c'è niente. La fotografia, in un certo senso, è la negazione della cronologia". E' una lettura affascinante quella che lo scrittore inglese Geoff Dyer fa della fotografia in un saggio, misterioso e inusuale, edito da Einaudi nella storica collana Saggi. "L'infinito istante" è, nella modesta opinione di Kilgore, uno dei migliori libri sulla fotografia degli ultimi anni e trasmette al lettore la sensazione di trovarsi a rovistare in un mucchio di immagini. Scegliendo di volta in volta le gli scatti che più lo colpiscono, Dyer crea un percorso per associazioni che attraversa la storia dell'arte fotografica, soffermandosi spesso sugli uomini e le donne che stavano dietro l'obiettivo, oltre che naturalmente, su persone, cose e luoghi che ci stavano davanti. Il tutto con la convinzione che ogni passaggio da un'immagine - o anche da una tematica - all'altra potrebbe essere opinato. In fondo, in fotografia e nella vita, la massima di Cartier-Bresson può sempre essere valida: "Esistono solo le coincidenze".

E, di coincidenza in coincidenza, il libro di Geoff Dyer, già noto al grande pubblico per aver raccontato le vite dei grandi del jazz, costruisce una trama affascinante, che fa luce sulle dinamiche che presiedono allo sguardo di un fotografo, tenendo presente una considerazione fondamentale: "A me interessa - scrive Dyer - solo quel che succede all'interno dell'inquadratura: non ciò che accade in realtà, ma ciò che le foto mi inducono a credere che accade". E nelle fotografie il tempo non esiste: il ragazzo ritratto nel 1913 su una panchina di Budapest dal fratello André Kertész su quella panchina in triste contemplazione resterà per sempre, così come l'uomo con un cappello sgualcito che volge le spalle alla folla in una delle più famose foto di Dorothea Lange ("White Angel Bread Line" del 1933) è destinato per sempre a rappresentare "la verità langeiana di stoica rassegnazione". Salvo poi, scrive Dyer in uno dei passi più affascinanti e visionari del suo libro, tornare - e stiamo parlando dell'uomo fotografato da Lange - in un'immagine del 1952 scattata da Roy DeCarava. Lo stesso uomo? No, perché questa volta il soggetto è un afroamericano. , nell'occhio di chi guarda: "E' come - scrive Dyer - se il cappello e l'uomo, e tutto ciò che simboleggiano, riemergessero di nuovo alla luce del giorno, ritornassero in superficie". Il tempo nelle fotografie non esiste, ma quell'uomo, vent'anni dopo, sembra davvero incarnare la storia di un Paese che ha vissuto la tragedia della Depressione e della guerra e ora ritorna alla vita.

Ispirato, seppure in maniera necessariamente eccentrica, ai cataloghi di Borges, "L'infinito istante" è la riflessione di uno scrittore che non fotografa, ma guarda. E sulle orme di un vate cieco come l'argentino, ma anche come Omero, inizia il suo percorso proprio dalle fotografie che ritraggono persone non vedenti, salvo poi mostrare come a essere "trattato come un cieco", era anche l'anziano fotografo Kertész, che "tutti pensavano fosse morto da trent'anni".

Corredato da 93 immagini in bianco e nero e dodici tavole a colori, il saggio di Dyer è un omaggio alla fotografia, ai suoi interpreti, alle loro vite a volte eccessive (Edward Weston), a volte maniacali (Alfred Stieglitz), a volte destinate, anzi predestinate, a finire con un suicidio (Diane Arbus). Un viaggio che si conclude con una domanda, forse "la" domanda, scritta al collo di un uomo a New York l'11 settembre 2001: "After Death What?".

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