La prima impressione, entrando nella sorprendente struttura della Triennale Bovisa in una fredda sera di febbraio, è che ci si trovi davanti a una datata e un po’ stomachevole celebrazione postuma del maoismo. In realtà bastano pochi minuti, e uno sguardo meno approssimativo alle enormi tele che Anselm Kiefer ha dedicato a Mao e alla sua frase sui cento fiori per rendersi conto che siamo di fronte ad Arte con la A maiuscola, una cosa che non ha praticamente mai nulla a che vedere con la propaganda. E allora ecco che dai quadri di Kiefer emerge un Mao iconico ma immobile, immutabile nella sua posa da conducator cinese, imbrigliato nella rigidità della statua che prosciuga l’energia vitale e rende l’uomo solo uno strumento nelle mani di qualcun altro, o anche di se stesso.
Gli enormi girasoli che incombono su questo Mao eterno in una delle tele più d’impatto sono fiori mostruosi, che ricordano i Sogni di Kurosawa, virgulti dell’inquinamento nucleare. E il Presidente appare minacciato da queste propaggini infernali, che sembrano rivolgergli sguardi rancorosi, come un ‘Idra che si appresta a colpire il malcapitato naufrago... E’ vero, con la “Campagna dei cento fiori” Mao, ci dicono gli esegeti a lui più affezionati, voleva introdurre più democrazia e pluralismo. Ma i frutti di quel processo sono state altre repressioni, e, in ultima istanza, l’aberrazione della Rivoluzione culturale, scatenata dieci anni dopo i cento fiori. E nelle tele di Kiefer ecco che le rose diventano frecce che trafiggono il corpo di Mao, la cui espressione non può mutare, congelato com’è nel suo indicare la via, e lo rendono un San Sebastiano postmoderno, quasi vittima di un contrappasso dantesco. Come se i fiori, che in fondo a Kilgore sembrano rappresentare chiaramente le libertà e le vite soffocate dal totalitarismo (qualunque esso sia) che usa immagini suggestive per mascherare la morte, si prendessero finalmente la loro rivincita, ripagando il tiranno con la stessa moneta, seppur con una grazia innata che il potere non conosce.
Il potere, appunto. Altro arcano che la mostra della Triennale porta all’attenzione delle nostre coscienze. Il suo essere così marmorizzato lo rende spaventoso e incomprensibile, distante dal mondo che le tele lasciano intuire alle spalle di Mao, sempre alla ricerca di un primo piano sulla scena della storia, a qualunque prezzo. Ma i fiori che bucano la tela e qui numeri che Kiefer applica sui quadri e che ricordano tanto le famigerate cifre che identificano gli internati (anch’essi eterni, come le dittature che li producono), ci fanno capire una grande verità, almeno secondo Kilgore. Delle statue dei tiranni non abbiamo più bisogno, ma finché che ne saranno avremo bisogno di una grande arte che ci aiuti a guardarle anche con altri occhi.
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