27 febbraio 2008

L'uomo che fotografava i vagabondi (e le star)

“La fotografia, per sua natura, è ‘veritiera’, ma Avedon insegna che una fotografia può mostrare o rivelare molto più di una verità superficiale”. Helle Crenzien, curatrice internazionale della mostra di Richard Avedon che sta facendo il giro del mondo e ora è arrivata a Milano, esprime in questa frase la sensazione di vertigine e spaesamento che coglie gli spettatori quando osservano i ritratti che il grande fotografo americano ha scattato tanto alle star che popolano l’immaginario collettivo (Marilyn Monroe o Bob Dylan) quanto ad anonimi camionisti o agricoltori incontrati sulle strade d’America. Guardando gli scatti di Avedon si ha la sensazione di cogliere qualcosa in più, anche quando il soggetto è una vera e propria icona, di entrare in uno spazio privato dove il mito svela la persona che gli sta dietro, dove le barriere sono cadute sotto la pressione di una fotografia che si è fatta arte. Il catalogo della mostra, “Richard Avedon Fotografie 1946-2004” edito da Contrasto, rappresenta una straordinaria opportunità di entrare in questo universo dello sguardo dove, nota lo scrittore inglese Geoff Dyer in uno dei numerosi saggi che corredano le immagini, “le pieghe dei volti delle persona hanno un’aria da durata geologica”.

Il libro ripercorre naturalmente anche l’attività di Avedon come fotografo di reportage – con le sue prime magiche immagini della Sicila nel 1946 – e come rivoluzionario interprete della fotografia di moda, nella quale ha introdotto il movimento e l’irriverenza con tanto stile da farne un marchio di fabbrica. Ma il cuore dell’opera sono i ritratti, magnetici e inusuali, forse perfino sgradevoli, ma sorprendentemente vicini al cogliere l’essenza dell’umano. Che, in ultima analisi, è una delle missioni fondamentali dell’arte, qualunque sia il suo mezzo d’espressione.

Charlie Chaplin che, prima di lasciare l’America nel 1952, gioca a fare il toro con le dita al posto delle corna, Katherine Hepburn che sembra imprecare stupita, il poeta Ezra Pound con gli occhi chiusi e il senso della disfatta addosso, Isak Dinesen – meglio nota con lo pseudonimo Karen Blixen – che, scrive ancora Dyer, “in uno dei suoi ritratti più famosi sembra la donna più bella del mondo, circa duemila anni fa”. Il gotha dell’arte, dello spettacolo, del potere (tra le “vittime” di Avedon ci sono Eisenhower, Bush padre e Kissinger) e della cultura sfila disarmato davanti all’obbiettivo del fotografo, che ne sfrutta gli attimi di spaesamento per far scattare l’otturatore. E così nasce lo straordinario ritratto di una Marilyn meravigliosamente distante dalla sua icona e sorprendentemente umana, come forse non si era mai vista prima né si vedrà dopo.

La forza della fotografia di Avedon però si manifesta se possibile ancor più nei ritratti della gente comune, i cui volti asimmetrici e le cui espressioni sono talmente fuori dal comune da farci chiedere se queste persone esistano davvero. Il vagabondo che ricorda Chet Baker, l’ex schiavo dai capelli bianchi, il camionista dal volto così affilato da sembrare una maschera, il lavoratore petrolifero che è in realtà un fauno direttamente fotografato in un altro universo: c’è qualcosa di magnetico e impossibile in queste immagini che ci parlano dell’umanità con un alfabeto nuovo. E collocano a buon diritto Avedon accanto a Kafka, a Picasso, a Hitchcock (per fare qualche nome a caso) e a tutti quei grandi artisti che ci hanno insegnato a decifrare il presente.

21 febbraio 2008

Kiefer e Mao

La prima impressione, entrando nella sorprendente struttura della Triennale Bovisa in una fredda sera di febbraio, è che ci si trovi davanti a una datata e un po’ stomachevole celebrazione postuma del maoismo. In realtà bastano pochi minuti, e uno sguardo meno approssimativo alle enormi tele che Anselm Kiefer ha dedicato a Mao e alla sua frase sui cento fiori per rendersi conto che siamo di fronte ad Arte con la A maiuscola, una cosa che non ha praticamente mai nulla a che vedere con la propaganda. E allora ecco che dai quadri di Kiefer emerge un Mao iconico ma immobile, immutabile nella sua posa da conducator cinese, imbrigliato nella rigidità della statua che prosciuga l’energia vitale e rende l’uomo solo uno strumento nelle mani di qualcun altro, o anche di se stesso.

Gli enormi girasoli che incombono su questo Mao eterno in una delle tele più d’impatto sono fiori mostruosi, che ricordano i Sogni di Kurosawa, virgulti dell’inquinamento nucleare. E il Presidente appare minacciato da queste propaggini infernali, che sembrano rivolgergli sguardi rancorosi, come un ‘Idra che si appresta a colpire il malcapitato naufrago... E’ vero, con la “Campagna dei cento fiori” Mao, ci dicono gli esegeti a lui più affezionati, voleva introdurre più democrazia e pluralismo. Ma i frutti di quel processo sono state altre repressioni, e, in ultima istanza, l’aberrazione della Rivoluzione culturale, scatenata dieci anni dopo i cento fiori. E nelle tele di Kiefer ecco che le rose diventano frecce che trafiggono il corpo di Mao, la cui espressione non può mutare, congelato com’è nel suo indicare la via, e lo rendono un San Sebastiano postmoderno, quasi vittima di un contrappasso dantesco. Come se i fiori, che in fondo a Kilgore sembrano rappresentare chiaramente le libertà e le vite soffocate dal totalitarismo (qualunque esso sia) che usa immagini suggestive per mascherare la morte, si prendessero finalmente la loro rivincita, ripagando il tiranno con la stessa moneta, seppur con una grazia innata che il potere non conosce.

Il potere, appunto. Altro arcano che la mostra della Triennale porta all’attenzione delle nostre coscienze. Il suo essere così marmorizzato lo rende spaventoso e incomprensibile, distante dal mondo che le tele lasciano intuire alle spalle di Mao, sempre alla ricerca di un primo piano sulla scena della storia, a qualunque prezzo. Ma i fiori che bucano la tela e qui numeri che Kiefer applica sui quadri e che ricordano tanto le famigerate cifre che identificano gli internati (anch’essi eterni, come le dittature che li producono), ci fanno capire una grande verità, almeno secondo Kilgore. Delle statue dei tiranni non abbiamo più bisogno, ma finché che ne saranno avremo bisogno di una grande arte che ci aiuti a guardarle anche con altri occhi.

20 febbraio 2008

Il dentifricio

Oggi è finito il dentifricio
Che avevamo comprato insieme all’aeroporto in Qatar
Lungo tubetto verde fosforescente con scritte arabe
E americane

Esanime sul lavandino, senza più tracotanza
Ridotto all’ombra di ciò che era stato
Una fitta di dolore mi ha lacerato il petto

Ho ripensato a te, nel letto, un istante prima della sveglia

Il lato oscuro dell'economia

Un mondo governato da forze oscure, nel quale la democrazia genera schiavitù e impoverimento e il consumismo assurge a unico valore. Loretta Napoleoni, economista ed esperta internazionale di terrorismo, traccia un quadro fosco dell’attuale situazione globale in un importante saggio, Economia canaglia edito da Il Saggiatore, che solleva il velo su una realtà fatta di schiavitù, sfruttamento e violenza nel quale la politica è stata accantonata per lasciare spazio a una fase di transizione selvaggia che stiamo ancora attraversando.

Un’operazione, quella portata avanti da Napoleoni, che ricorda il film Matrix, nel quale il protagonista scopre che la realtà nella quale ha sempre vissuto è un falso, e tutta l’umanità è solo un ingranaggio nelle mani di esseri alieni mostruosi. Lo stesso, secondo Loretta Napoleoni, accade a noi: l’economia canaglia ci vende bugie, la democrazia produce schiavitù, l’oro dei nostri gioielli gronda del sangue dei bambini congolesi. Uno scenario da incubo, pauroso come l’immagine del demone alato che campeggia efficace sulla copertina del libro, che forse sarebbe più facile fingere di ignorare. “Ma io credo che adesso ci si voglia svegliare – ci ha detto Napoleoni in un incontro a Milano – è un buon momento per svegliarsi, non cambieremo il mondo, ma possiamo almeno cominciare a proteggerci”.

“L’economia canaglia – scrive Napoleoni nell’introduzione del libro - è un fenomeno ricorrente nella storia, spesso legato a grandi e improvvise trasformazioni delle società. E’ proprio nel corso di questi mutamenti radicali che i politici tendono a perdere il controllo dell’economia. E quest’ultima diventa una sorta di entità autonoma, di strumento banditesco nelle mani di attori nuovi e spregiudicati”. Mutamenti, nel nostro caso specifico, che hanno preso avvio con la caduta del muro di Berlino e con l’ondata di lavoratori a basso costo che si è riversata in Occidente. Da quel momento, rotti i freni politici, l’economia canaglia ha preso il sopravvento e governerà la fase di transizione fino a quando si riuscirà, secondo l’economista, a stabilire un nuovo contratto sociale. “E’ difficile dire quali saranno i termini di questo contratto – ha spiegato Loretta Napoleoni a Kilgore – ma io credo che ci sarà una maggiore distanza tra politica ed economia rispetto allo Stato-nazione. In particolare credo che lo Stato manterrà il controllo sulla politica estera e monetaria, ma non ci sarà più la redistribuzione territoriale del reddito”. Un nuovo contratto sociale che, secondo l’analisi di Napoleoni, sarà siglato lontano dall’Occidente, ormai in decadenza, e avrà il volto della Cina (“l’unico Paese completamente diverso da noi” secondo l’economista destinato proprio per questo a prevalere anche sul modello indiano) e della finanza islamica, fenomeno che si imporrà all’interno del “tribalismo economico”, proprio per il suo richiamo a dei valori etici che l’economia canaglia ha abbandonato.

“La Sharia – ci ha detto Loretta Napoleoni – è una legislazione altamente etica, è ovvio che le sue degenerazioni nel talebanismo sono negative, ma non c’è nulla nella Sharia che stabilisca, per esempio, l’inferiorità delle donne”. E delle regole etiche insite nella legge islamica secondo Napoleoni abbiamo bisogno: per esempio perché impedisce di praticare l’usura o sfruttare la prostituzione, che invece sono due delle degenerazioni più comuni e devastanti dell’economia canaglia. Quello che è certo è che leggendo le pagine di Loretta Napoleoni si ha una fortissima percezione della decadenza dell’Occidente, che sembra essere irreversibile.