“Ho appena trascorso due giornate indimenticabili delle
quali non sapremo mai nulla, siamo troppo distanti, o troppo a ridosso, non so
più”. Poche frasi, con tale evidenza e brevità, hanno reso in modo più efficace
l’assenza, quel concetto sfuggente eppur devastante, che ha fatto da stella
polare alla grande letteratura novecentesca, da Kafka a Primo Levi a W.G.
Sebald, passando per il più mitteleuropeo dei contemporanei italiani, Claudio
Magris. Al centro di questo campo (e la parola non è casuale, nel suo tragico
oscillare tra Adorno e Roberto Bolaño), si colloca, singolo nella sua
grandezza, Samuel Beckett, probabilmente concentrato a scrutare un paesaggio
che ha sì raggiunto un livello preoccupante di aridità, ma che è ancora
popolato di coscienze, dire corpi potrebbe essere fuorviante, che vanno in
cerca della perdurante umanità che, comunque, alberga dentro di loro. Questo
campo, che potremmo immaginare anche come un camposanto (“Vorrei che il mio
amore morisse / che sul cimitero piovesse…” scrive Beckett in una memorabile
poesia in francese) diventa talmente grande, o talmente piccolo, da arrivare in
entrambi i casi ai confini del tutto-niente. E Beckett lo sa benissimo che
“niente è più reale del niente”. Percui questo deserto, questo infinito
universo concentrazionario senza carcerieri, diventa una mappa, probabilmente
l’unica davvero possibile, di quell’idea antinomica che Kant chiamava il mondo.
Samuel Beckett, dunque, è in qualche modo un creatore
dell’unica realtà possibile che, nella sua stagione più grande, ha agito per
drammatica sottrazione, puntando al midollo pulsante e talvolta scabroso dell’umanità.
Un processo che, per quanto sia un riferimento arbitrario, è probabilmente
cominciato con Malone muore, il romanzo in francese del 1951 che segna una
cesura nella forma della narrazione di Beckett – che diviene “mobile” e segna
la morte del personaggio in senso tradizionale – e apre la strada ai successivi
capolavori teatrali come Aspettando Godot, Finale di partita e Giorni
felici. La disgregazione delle personalità e dei corpi prende piede con il morente
eterno Malone, prigioniero in un letto in una stanza che governa con il suo
bastone, ma che assume, di volta in volta, dimensioni dal soffocante
all’infinito. E anche la narrazione di storie, il passatempo con cui Malone
inganna l’attesa (un altro dei temi cardine di Beckett, illuminato da una
profonda luce biblica) dell’unico evento inevitabile (ma che il romanzo mostra
avere anche un certo grado di evitabilità), si rivela un gioco che cambia
mentre ci stai giocando, con il personaggio Saposcat, che diventa Macmann e che
non approda a nulla. Quindi molto probabilmente proprio dove Samuel Beckett
voleva arrivare.
La quarta di copertina della bella edizione della collana
Letture Einaudi riporta una frase di Antonio Moresco che parla di “un libro che
cominciava dove gli altri finivano”. A ben guardare si potrebbe spingersi anche
oltre Moresco, definendo Malone muore un libro – ma, come nota Gabriele
Frasca nella ricca prefazione, anche la definizione di libro è a sua volta
messa in discussione – che esisteva dove gli altri non erano ancora stati
creati. Alla fine, probabilmente, verrà la morte, ma Beckett ci insegna che non
avrà occhi. O meglio, avrà i nostri stessi occhi. Senza sorprese, senza
compagnia, senza consolazione.
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