L’argomento, la vita di Eduard Limonov, scrittore
underground russo che in occidente veniva quasi sempre citato con accenti
deteriori, era di per sé già molto impegnativo. Ma quello che Emmanuel Carrère
- già biografo di un altro grande irregolare come Philip K. Dick - è riuscito a
fare nel suo Limonov, che esce in Italia per i tipi di Adelphi, è qualcosa
che va al di là della semplice cronaca di una vita controversa e per molti
versi straordinaria, per entrare in quella zona grigia che è il luogo
d’elezione della grande letteratura. Un luogo ambiguo, spesso battuto dal
vento, nel quale chi va in cerca di verità assertive finisce quasi sempre
deluso, ma dove si possono raggiungere – e citare, un po’ a caso, nomi come
quello di Dostoevskij oppure di Baudelaire – profondità che non si possono
definire altro che “umane”. Per questo, seppur arrivato tardi in libreria, Limonov si propone con forza come il possibile libro dell’anno di questo
2012, per quanto sia davvero difficile, e a volte pure inutile, stilare questo
tipo di classifiche. Ma la forza del lavoro e della scrittura di Carrère – la
cui potenza di autore trova modo di esprimersi al meglio dentro la biografia di
Limonov, ma anche nei dilemmi che questa figura suscita nello scrittore
francese – sembrano essere fatti apposta per aggiungere tutte le sfumature che
la nuda cronaca delle imprese, talvolta incredibili, talaltra ignominiose, di
un ribelle (quasi) irriducibile, da sola non può contenere. E quello che ne
nasce è un’opera che scavalca i generi, che parla a tutti e di tutti (anche se
nessuno di noi ha mai pensato consapevolmente di andare a sparare insieme alle
tigri di Arkan durante la guerra nella ex Jugoslavia) e che mostra una semplice
verità: guardando qualunque storia da vicino si sospetta sempre più
intensamente che non ci sia davvero nessuna verità definitiva.
Che Limonov abbia fatto il domestico in casa di un
miliardario liberale, o che abbia cercato avventure omosessuali nei parchi di
New York, o che abbia fondato il partito Nazionalbolscevico russo, o ancora si
sia portato a letto la figlia minorenne di una sua fan serba (e consenziente) è
importante, ma fino a un certo punto nell’economia del libro. Fin qui è il plot,
l’elemento pop se volete, ma quello che emerge davvero è una fotografia
complessiva dell’universo Russia, nel quale la figura di “buon selvaggio”
oppure di “utile idiota” (sia detto senza ironia) impersonata a volte da
Limonov è la cartina di tornasole per entrare in un mondo che, per noi
occidentali abituati alle letture dei media, è del tutto incomprensibile.
Limonov, il personaggio Limonov, ha ribaltato il banco, ha
aperto una breccia dalla quale, grazie alla lucidità e alla competenza di
Carrère, riusciamo a vedere come i grandi dissidenti siano, in fondo, molto
poco diversi dalla nomenklatura che li ha condannati e una figura come quella
di Gorbacev, icona assoluta in occidente, fosse in realtà detestato dai suoi
connazionali, che lo consideravano una vera e propria sciagura. I piani e i
giudizi, come si vede, si confondono ed è difficile per una persona come
Emmanuel Carrère scrivere che il partito nazbol in fondo non è quella
macchietta ideologica che saremmo tutti tentati di considerare. Ma lui lo fa, e
nella serietà – intellettualmente dolorosa in certi momenti – con qui evita di
liquidare lo stesso personaggio Limonov, c’è tutta la grandezza della buona
scrittura. Se a questo si aggiunge che nel libro sono molte le pagine
autobiografiche dello stesso Carrère, si capisce che il groviglio in cui ci
siamo buttati è ben più complesso di quanto poteva sembrare all’inizio. E la
frase di, udite udite, Vladimir Putin, posta in epigrafe del libro è forse la
più esatta – e incomprensibile – per capire di cosa stiamo parlando. “Chi vuole
restaurare il comunismo – ha detto il presidente – è senza cervello. Chi non lo
rimpiange è senza cuore”. Benvenuti nel labirinto.
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