Gli hipster arrivano suddivisi in piccole squadre, ognuna
specializzata in un diverso tipo di distacco, ognuna con un suo identificabile
leader carismatico. I sorrisi sono equilibratamente alternati ai bronci, le
barbe rigogliose con puntiglio, e ostentano anche un moderato
autocompiacimento. Sono tanti, non finiscono di fluire, eppure restano
ordinati, quasi fossero incapaci di togliersi di dosso del tutto la forfora del
rassicurante conformismo. Visti accanto agli addetti alla security[1] sembrano
piccoli e poco significativi, quei tratti di originalità, che presi da soli o
nel contesto del loro gruppo endogamico, appaiono così evidenti, accanto a
questi cortesi buttafuori sembrano sbiadire, come una macchina fotografica che
perde la messa a fuoco, che dal volto del ritratto scivola inesorabile sul
monumento alle sue spalle.
Eppure il movimento collettivo li riscatta, il loro essere,
pur nelle chiare differenze, un gruppo unico, un gruppo riconoscibile, il modo
in cui si avvicinano determinati all'ingresso nella sala principale
dell'Hangar Bicocca, ondeggiando lievemente a ogni passo avanti della folla, profuma di
Quarto Stato - ovviamente updated -
di destino manifesto, di rivolta di massa[2].
Una massa che, però, assume ben presto le fattezze di una folla di devoti, in giudizioso pellegrinaggio alla Pietra mistica dell'arte contemporanea milanese, nel momento in cui si svelano i Palazzi celesti di Kiefer, che dall'alto della loro irraggiungibile perfezione osservano senza sentimenti percepibili - come è giusto che sia - il frenetico affannarsi degli umani intorno al totem necessario e ricorsivo, tanto evidente da sembrare astratto. E gli hipster, all'ombra delle torri, sembrano dimenticare la carica eversiva di cui, collettivamente, parevano essere latori quasi tracotanti, per votarsi a un culto cocciuto e sotterraneo, un'eresia che la Storia giudicherà infine essere stata minoritaria, ma non per questo - anzi probabilmente proprio in virtù di questo - meno totalizzante e assoluta.
Una massa che, però, assume ben presto le fattezze di una folla di devoti, in giudizioso pellegrinaggio alla Pietra mistica dell'arte contemporanea milanese, nel momento in cui si svelano i Palazzi celesti di Kiefer, che dall'alto della loro irraggiungibile perfezione osservano senza sentimenti percepibili - come è giusto che sia - il frenetico affannarsi degli umani intorno al totem necessario e ricorsivo, tanto evidente da sembrare astratto. E gli hipster, all'ombra delle torri, sembrano dimenticare la carica eversiva di cui, collettivamente, parevano essere latori quasi tracotanti, per votarsi a un culto cocciuto e sotterraneo, un'eresia che la Storia giudicherà infine essere stata minoritaria, ma non per questo - anzi probabilmente proprio in virtù di questo - meno totalizzante e assoluta.
Non posso non pensare che in ogni forma di adesione c'è una
componente di sottomissione e ho la sensazione - mi rendo conto del fondo
reazionario che si addensa nel bicchiere del mio cervello - che ogni vestito,
di questi ragazzi, sia un piccolo tiranno, un dittatore anonimo nel Paese latinoamericano
e fragile che è il loro cuore, un autocrate di mezza tacca che nel giro di
pochi anni verrà detronizzato, e lui lo sa, quindi oggi si lascia andare a
eccessi di potere di ogni tipo e degradazione. E quando mi rendo conto che la
potenzialità di rivolta che gli hipster dell'Hangar esibivano entrando ordinati
nella grande sala in realtà era soltanto l'ennesimo viatico verso una forma di
religione, subito consacrata dai suoni meravigliosamente algidi del rumore
selettivo di Alva Noto[3],
glaciale e pressoché immobile alla console come solo un alieno (o un santo,
direbbe qualcuno) potrebbe essere, che esplodono senza preavviso allo scoccare
delle 22, quando me ne rendo conto, ed è come un conato di consapevolezza
acida, decido di buttarmici in mezzo, di fare outing morale e di dimenticare
ogni implicazione. Decido di ascoltare questa musica elettronicamente untuosa,
decido di guardare le elucubrazioni matematico-pop sulla parete riflettente,
decido di essere qualcosa al posto del nulla, qualcuno al posto di uno specchio
e un taccuino. E a quel punto, inevitabilmente, vengo travolto.
Leonardo Merlini
Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine
[1] Anch'essi incapaci di sottrarsi al luogo comune sulla propria estetica,
in questo caso corposa, eppure al tempo stesso diversi da molti dei loro
omologhi, meno aggressivi, disorientanti per il mio scontato radar sociale come
quei mulatti che hanno la pelle scura sopra tratti somatici evidentemente
caucasici.
[2] E a quel punto la mia immaginazione non può non
vedere, affascinata, invidiosa e terrorizzata, i libretti rossi, gli slogan, la
promiscuità sessuale - o meglio la sua promessa, per quelli come me - le
assemblee, le fiaccole e i tamburi, le votazioni, le maggioranze e, in fondo, la
foresta vietnamita di Kurtz o Ivan Ilic e la sua lunga notte di paura.
[3] Al secolo l’artista Carsten Nicolai, freddo e
coerente, vestito esattamente come dovrebbe essere vestito un artista tedesco
del dopo Beuys, con una seria consapevolezza del proprio ruolo e della propria
provenienza dal cuore del Paese più importante d’Europa. Intervistarlo era
stato al tempo stesso intenso e straniante.
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