29 luglio 2013

L'epilogo che ha scelto. David, la sua biografia e i miei dilemmi

“Ogni storia ha un inizio”, scrive il giornalista D.T. Max in apertura del suo Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, la prima biografia completa di David Foster Wallace che esce in Italia per Einaudi Stile Libero. Tutti, di solito, pensiamo alla fine della storia dello scrittore, quel garage dipinto di rosso dove, il 12 settembre 2008, ha deciso di farla finita. Max invece ha il merito, non da poco, di ragionare, pressoché totalmente, sugli episodi biografici e sulla storia dei libri di Wallace prima e soprattutto non necessariamente alla luce di quel suicidio che ha privato l’America e il mondo di uno scrittore tanto geniale quanto sofferto. Certo, restano alcune perplessità in qualche modo filosofiche (wittgensteiniane verrebbe da scrivere insieme al giovane DFW, e dunque intrinsecamente anche capziose), legate al fatto che si possa davvero dare l’dea dell’intera vita di una persona – per di più complessa come indubbiamente era Wallace – attraverso dei singoli episodi documentati. E tutto il resto? Verrebbe da chiedersi. Il resto è necessariamente silenzio? Forse la vita di una persona passa soprattutto attraverso questi “silenzi” e nel libro si trova un evidente esempio di quanto poco si possa catturare delle emozioni di un’altra vita quando Max riassume un periodo di ricovero dello scrittore in una struttura psichiatrica con queste sei parole: “Fu dimesso due settimane più tardi”. C’è grande misura e pudore in questa frase, e si tratta di pregi generali del libro, ma c’è anche una specie di buco nero biografico su un periodo che potrebbe avere avuto molta importanza per Wallace…

Fatte queste premesse metodologiche, resta una biografia che è in grado di trattare una materia molto pericolosa con cura e attenzione, che ha poche cadute di stile (e sarebbe facile, perché DFW era uno scrittore capace di suscitare grandi passioni) e che ragiona senza prese di posizione ideologiche sulla complessità dell’opera e della personalità dell’autore di Infinite Jest. Per il lettore appassionato di Wallace, Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, ha un valore ambivalente: da un lato è una miniera di citazioni e di materiale tratto soprattutto da fonti non edite, come le lettere a Jonathan Franzen e a Don DeLillo, in particolare quelle al monumentale autore di Underworld, cui DFW sembrava scrivere con altissima frequenza. Dall’altro lato è un percorso doloroso, perché Max tenta, per sua stessa ammissione, di essere il più neutro possibile, e quindi tende a non nascondere, a far emergere le contraddizioni e le incoerenze, a parlare di sofferenza quando di sofferenza si tratta. Ci sono gli elettroshock e gli psicofarmaci, i tentativi di sconfiggere le dipendenze e la drammatica consapevolezza che “la sua eccezionale intelligenza gli era d’impiccio. Nel processo di riabilitazione serviva modestia, non acume”. Ci sono però anche tanti momenti di serenità e di grandezza letteraria (“Wallace si presenta come un abitante di quel luogo che i minimalisti avevano solo saputo indicare”, notava un recensore de La ragazza dai capelli strani), dettagli minimi e furbe, ma perfino commoventi, strategie di scrittura, ricorsive come molte delle idee e delle situazioni wallaciane.

Particolarmente affascinante il fatto che, pur nel respiro limitato di una biografia dedicata alla vita di un uomo morto a 46 anni, si possano percepire molti cambiamenti di atteggiamento, di idee, di posizioni intellettuali, anche di finalità della scrittura. Il che è sintomo di una mente brillante (troppo?) e perennemente in cerca di nuovi stimoli, ma anche – e in questo agisce sottotraccia la capacità rara di D.T. Max di astenersi da ogni sfumatura di ideologia – di una fragilità costante, che si manifestava nell’ossessiva ricerca da parte di Wallace di nuove avventure sentimentali oppure nell’insoddisfazione verso le opere precedenti e nel terrore verso quelle ancora da scrivere. E in quest’ottica Il Re pallido, il romanzo incompiuto poi pubblicato postumo – che per molti lettori è un capolavoro, ma che per DFW fu un reale strazio creativo, è tra i motivi di frustrazione che potrebbero averlo spinto a salire su quella sedia in garage. Ma, come giustamente fa Max, questa è una scena che resta ai margini di una biografia che vuole essere la storia di un uomo e di uno scrittore che ha tentato di vivere e di scrivere, lasciando un segno profondo e quasi unico nella cultura contemporanea, non solo degli Stati Uniti.

Chiudendo il libro, e lo si chiude con un naturale moto di tristezza perché forse più di un lettore aveva segretamente sperato in un finale diverso, ci si convince di quello che proprio Franzen aveva già scritto, con uno sforzo di dolorosa ed empatica onestà, ossia che David Foster Wallace era una persona che è stata a lungo malata, e che non era in nessun modo quel “santo folle” che una certa pubblicistica facilona ha voluto dipingere partendo dalla sua bandana o dai suoi bermuda. Ma sotto la malattia c’era anche “un genio sensibile e sincero col freno a mano tirato” e pure uno scrittore che, accanto alle intuizioni straordinarie, sapeva lavorare di mestiere, talvolta inventando gli aneddoti più gustosi o saccheggiando la vita di chi gli capitava di incontrare. E giustamente in una famosa intervista Wallace aveva detto che il senso del suo scrivere stava fondamentalmente nel tentativo di spiegare che cosa volesse dire essere un “fottuto essere umano”. Forse lui ci è riuscito, forse no, ma questa biografia ci ricorda che lo stesso DFW era consapevole del fatto che “scrivere roba sulla vita vera è quasi impossibile, semplicemente perché è troppa”. Un’osservazione che, se alle parole “vita vera” si sostituiscono le parole “biografia di David Foster Wallace”, getta una luce ambigua e straniante anche sul libro che avete in mano. Forse l’ultima magia, qui lasciatemelo dire, metaletteraria dello scrittore nato a Ithaca (e ogni riferimento alla figura di Ulisse è in questo caso implicita, ma voluta).

Avevamo iniziato con la prima frase del libro, chiudiamo con l’ultima: “Non era questo l'epilogo che ci si augurava per lui, ma questo è l'epilogo che ha scelto. Prima di dire, questa volta con convinzione, che il resto è silenzio, anche D.T. Max, come un altro wallaciano di ferro come Sandro Veronesi, ricorda in un’intervista che “il suicidio non era l’unica maniera in cui le cose avrebbero potuto finire”. E in un’altra versione della storia Wallace potrebbe essere ancora vivo.


Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

15 luglio 2013

Roberto Bolaño dieci anni dopo, un ritratto per personaggi

“Mi piacerebbe essere uno scrittore fantastico, come Philip K. Dick, anche se man mano che il tempo passa e invecchio, Dick mi sembra sempre più realista”. Diceva così Roberto Bolaño, in un’intervista a Carmen Boullosa del 2002, e, forse sapendolo, forse solo intuendolo, in fondo tracciava un ritratto estremamente veritiero tanto di ciò che Dick ha rappresentato nel nostro immaginario collettivo, quanto di quello che stava per rappresentare lui, icona reticente (ma non troppo) di una letteratura capace di farsi fenomeno senza rinunciare alla propria enorme tensione verso qualcosa di diverso. Oggi, a 10 anni dalla scomparsa dello scrittore cileno, la sua fama si consolida e si amplia, restituendoci la potente ironia della storia – mai sottovalutarla! – che ha fatto di un poeta convertitosi al romanzo dopo essersi scoperto malato per “fare soldi” per la propria famiglia, uno dei maggiori interpreti della letteratura globale contemporanea. Perché il fenomeno Bolaño è esploso sul serio fuori dall’ambito linguistico spagnolo ed è stato consacrato, cosa estremamente rara, proprio negli Stati Uniti, tendenzialmente (e anche con molte ragioni, sia chiaro) autoreferenziali e diffidenti verso scrittori di lingua non inglese (Borges e Calvino sono forse gli altri esempi più importanti, giusto per capire di cosa si sta parlando).


Un decennio dopo quel triste mese luglio del 2003 nel quale Bolaño si è spento a soli 50 anni mentre attendeva un trapianto di fegato mai arrivato, uno dei possibili modi per ricordare lo scrittore è quello di farlo attraverso l’unica cosa che conta veramente in quel mestiere, ossia le opere. In particolare attraverso i suoi personaggi, sospesi tra una inestricabile proiezione della sua personalità e del suo mondo e il genio letterario che li ha resi in molti casi indimenticabili in quanto “artefatti” culturali. Partiamo dal più noto alterego di Bolaño, ossia quell’Arturo Belano che, insieme all’inarrivabile Ulises Lima (imago letteraria del poeta Mario Santiago Papasquiaro), è protagonista de I detective selvaggi (sempre che questa parola mantenga un suo senso all’interno di un uber-romanzo che ha più o meno fatto allegramente a pezzi l’idea di narrazione tradizionale, per di più con una falsa veste “gialla” che rende il tutto ancora più straniante e meraviglioso). Belano e Lima che scappano con una prostituta inseguita dal suo magnaccia e nel deserto di Sonora vanno in cerca di una poetessa segreta, Belano che diventa custode di un campeggio nel Sud della Francia, Lima che si perde durante un viaggio per scrittori in Nicaragua, e insieme, questi poeti realvisceralisti e spacciatori, che forgiano un modo di essere unico sulla scena della letteratura del presente (e ha ragione Nicola Lagioia quando scrive che Bolaño, benché abbia vissuto solo poco più di tre anni del XXI secolo, è il primo scrittore del terzo millennio, perché i suoi libri e i suoi personaggi nascono già nel futuro, un po’ come accadeva con l’altrettanto compianto Dick…)

Lontano, lontanissimo dall’autobiografia, ecco lo scrittore fantasma Benno von Arcimboldi, la primula rossa dell’enigmatico e monumentale (e imprescindibile) 2666, la seconda opera-mondo, per dirla con Franco Moretti, di cui Bolaño non ha mai visto la pubblicazione. Un labirinto in cinque parti che ruota intorno alla ricerca, quasi degna delle storie medievali sul Santo Graal, di questo scrittore scomparso, in una trama delirante fatta di letteratura, omicidi, orrore, meraviglia, mistero… Intorno alla luce oscura che Arcimboldi, o chi per lui, emana, si muovono altri personaggi memorabili, come il giovane poliziotto Lalo Cura (leggetelo pure come La Locura, ossia la pazzia) o il professor Amalfitano, i critici che decidono di mollare l’Europa per fare una salto nel buio nella terra dei femminicidi o Oscar Fate, il giornalista afroamericano che, pure lui, in Messico finisce giustamente (il Fato, non a caso) per perdersi e scomparire, in un modo che potremmo definire dolce, ma come può esserlo un liquore molto zuccherato, sebbene tremendamente alcolico.

E ancora quell’altra personificazione del male che è Carlos Wieder, il poeta-aviatore-killer seriale di Stella distante, o gli incredibili scrittori immaginari de La letteratura nazista in America, come la dinastia dei Mendiluce (la cui epopea tragica e marginale è degna di una famiglia reale decaduta ed esiliata) o quel Willy Schurhoz, che nelle sue opere stranianti tracciava nel deserto delle mappe esatte dei campi di concentramento di Hitler. E poi le donne, che pure loro in un certo modo sono (e ovviamente al tempo stesso non sono) Bolaño, come Auxilio Lacoutre, la protagonista di Amuleto, che vive la violenta irruzione della polizia nell’università di Città del Messico del 1968 nascosta in un gabinetto. E per questo si salva, e per questo vivrà un complesso di colpa che la porterà a diventare protettrice di poeti di sinistra (e forse il senso di colpa – e di sollievo, il che rende ancora più acuto il primo – di Auxilio è paragonabile a quello di Bolaño, che ha sì vissuto sulla propria pelle il golpe di Pinochet, ma dal cui incubo si è, almeno nella pratica, liberato dopo pochi giorni per strane e fortunate circostanze che gli hanno risparmiato gli orrori toccati a tanti suoi amici militanti). Ancora: le sorelle Maria e Angelica Font, le poetesse adolescenti dei Detective, che poi forse si trovano anche in Stella distante sotto il nome di sorelle Garmendia, vittime dei crimini inenarrabili di Wieder. E sempre nei Detective ecco la prostituta innamorata, Lupe, che fugge con Belano e Lima e intreccia una relazione sorprendentemente felice, nell’assurdità della situazione e nella breve durata, con Juan Garcia Madero, la più cospicua delle innumerevoli voci narranti di quel romanzo monumentale.

Il catalogo, ovviamente, non è questo, o madamina. Al massimo è una sua proiezione lacunosa, un’idea da caverna di Platone, nel quale abbiamo solo definito il contorno di quelle strane ombre che vediamo sul muro. Perché, se non bastasse, i personaggi di Bolaño si scambiano anche di libro, tornano, tramano, intrecciano le loro vicende tra un romanzo e l’altro, segretamente, con una grazia folle e rizomatica che lo scrittore cileno padroneggiava con una sicurezza che in parte possiamo attribuire anche alla sua inconsapevolezza. Ma sulla pagina ogni cosa risplende al punto giusto e questi segreti chissà che non siano l’ultimo tentativo dello scrittore di non morire mai. In qualche modo è possibile che Roberto Bolaño continui a farcela, anche 10 anni dopo.

Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

07 luglio 2013

DFW, questo non è un anniversario

Lo scrittore, la Liguria e (quasi) cinque anni passati 
Ovvero io, Hemingway, Cobain e Franzen

Quando il mondo apprese che David Foster Wallace era morto, il 12 settembre 2008, ero al lavoro in redazione. Nel mio ricordo, come già era successo qualche anno prima con Richard Avedon, sono certo di avere dato io la notizia per la mia agenzia, ma andando a cercare le prove di un lancio sul suicidio dello scrittore di Infinite Jest devo ammettere di non averne trovate e, di fronte a una giuria composta non solo da me stesso, sono abbastanza sicuro che verrei accusato di millantato credito. Quel take non esiste e quindi – la ferrea logica deduttiva – non è mai esistito, dato che il sistema editoriale non prevede la possibilità di cancellazioni. E dunque DFW se ne è andato anche senza la mia superflua nota di cronaca sul suo gesto, che sarebbe stata certamente sciapa e banale, incapace di contenere tutta la dignità e il dolore che sarebbero stati necessari. Così oggi, quasi cinque anni dopo, con un imprevedibile sussulto d’orgoglio professionale, mi batto per non ricadere nel solito, puntuale, pezzo commemorativo: cinque anni di Foster Wallace, dieci di Bolaño, come se la matematica cronologica delle scomparse letterarie di peso fosse quantomeno responsabile di favoreggiamento verso la diffusissima (ma questo non scusa me) tendenza a una ricorrenzialità che sembra pure avere qualcosa di necrofilo.

Per cui, ricominciamo.

Sono in treno in Liguria, dal lato sinistro il mare ha un non colore che fa pensare al mal di denti. Dal lato destro nuvole gravide incombono sulle montagne, sui condominii anni Sessanta e sulle persone, sempre numerose[1], che attendono ai passaggi a livello. Lo scompartimento, una tortura tutta italiana, simile all’idea del servizio militare per i maschi della mia generazione, quelli cresciuti quando ancora la leva era obbligatoria e il nonnismo faceva sorridere tutti quelli cui non sarebbe mai toccato, mi impone di stare seduto come un ebete di fronte a un signore molto hemingwayano: oltre alla barba canuta d’ordinanza, per lui capello rigoglioso, cordiale – ma anche spaventosa – distanza tra i due incisivi, camicia a larghe righe verticali azzurre e pantaloni rossi su scarpe stringate marrone chiaro, portate, come si fa a Key West o nel mondo hipster, rigorosamente senza calze. Parla di politica con un’altra occupante l’angusto salottino mobile con toni che mi spingono a chiudere gli occhi per non rischiare di essere coinvolto ma che, a essere onesti, avrebbero potuto essere anche ben peggiori[2]. Me lo immagino a torso nudo, con quella sicurezza tutta maschile del saper fare lavori rudi, consapevole della loro componente anche violenta, ma, al tempo stesso, tormentato e inquieto nel momento del riposo dopo la fatica. Alto e corpulento come l’Ernest originale, il mio compagno di viaggio, provo a ipotizzare, non parteciperebbe mai a quelle tristissime gare di sosia del romanziere che vanno in scena ogni anno da qualche parte nei Caraibi, ma probabilmente, nel segreto della sua stanza da bagno, qualche volta il pensiero che le avrebbe potute dignitosamente vincere lo sfiora, come un’eco di un profumo che ogni tanto si presenta inatteso alla memoria olfattiva. “Et alors monsieur Hemingway, ça va bien?[3]



Da qui, dai Marlin all’alba e dalle bevute parigine o spagnole, dalle ragazze con le maglie a righe orizzontali[4] ai posti alla sombra alla corrida, dalla fuga dall’America all’essere così tanto americano da diventare il prototipo dello Scrittore Americano, da qui inizia tutto. Compreso il sapore metallico e unto della canna di fucile in bocca in una domenica mattina che era, ne sono certo, troppo radiosa. Sarebbe facile aggrapparsi a questo punto di contatto, al male di vivere che è del Novecento e nasce, come tutte le cose più spaventose di quel secolo, dalla Prima guerra mondiale e arriva fino a un garage americano. Ma quel garage non è quello scelto da David Foster Wallace per lasciare in bella vista le tremila pagine di quello che, finora, è diventato Il Re Pallido. No, il garage che chiude il secolo scorso, e il circolo innescato dall’autore di Fiesta, è quello in cui a spararsi è Kurt Cobain. L’America sporca delle periferie dello Stato di Washington – e mai finirò di ringraziare Tommaso Pincio per il suo romanzo amorevolmente cobainiano[5] – è il punto di (non) ritorno per gli emigree dei Roaring Twenties, è l’ultima pagina del sogno più intenso e sfuggente che la poderosa cultura pop degli Stati Uniti, in questo mostrando tutto il suo coraggio, è stata capace di coltivare, fare assurgere a mito universale, e quindi demolire con le sue stesse mani. Andy Warhol, altro complementare della figura del mitico Ernest – tanto per ricordarci sempre di non credere mai all’apparenza delle opposizioni radicali – ha scelto la via in un certo senso ascetica dell’autoimmolazione mediatica, uccidendosi attraverso la propria immagine e vendendo, in qualche modo, tutti i fotogrammi di questo suicidio artistico e meraviglioso a noi, popolo boccalone e affamato di dettagli pruriginosi. Cobain, e lo scrivo con tutta la dovuta pietà, come era per molti versi necessario che accadesse – perché solo così il cerchio si sarebbe davvero chiuso, perché la Fama vuole il sangue e non si accontenta della sua versione concettuale o postmoderna – Cobain si è assunto il peso personale e collettivo di premere quel grilletto (quel cazzo di grilletto sarebbe bello poter scrivere, se solo fossimo in un film di Tarantino e non nella grigia e devastante Seattle del 1994, e così avremmo pure una giustificazione estetica per i frammenti di ossa e cervello sparsi con una logica insondabile dall’esplosione del proiettile). Fine della storia, o almeno di un capitolo, forse il più importante finora, ma non certo l’unico.

Il garage di David, quindi. Lontano, lontanissimo da Hem e Kurt, almeno quanto lontani da noi sono certi suoi racconti: penso ad alcune Brevi interviste, o a Julie di Piccoli animali senza espressione[6], o ancora a quasi tutto quel libro inestricabile che è Oblio. Se la morte di Cobain ha chiuso, con un certo anticipo in effetti – ma dipende dai punti di vista, storicamente per gente come Hobsbawm il 900 era quel punto già chiuso da circa cinque anni[7] – il XX secolo della cultura americana[8], quella di DFW ha conclamato il XXI, iniziato nel 1996 con Infinite Jest, proseguito poco dopo con Underworld di Don DeLillo e con tutte le opere che, da lì in avanti, non hanno più potuto fare a meno di guardare a questi riferimenti, per i quali Hemingway – e tutto ciò che la sua figura prominente aveva significato – e anche i Nirvana erano ormai diventati storia con cui fare i conti, più che un’impellenza tipica del presente. Poche ore prima dallo sconvolgimento dell’11 settembre Jonathan Franzen ha piazzato le sue memorabili Correzioni, e a quel punto, aiutati pure dal clangore spaventoso delle Torri che crollavano, nessuno più ha potuto pensare di essere ancora nel secolo di Scott Fitzgerald, di Charlie Chaplin, di John Coltrane e Susan Sontag o dell’Arcobaleno della Gravità. Ma i migliori scrittori, e DFW ne era una sorta di giovane capofila, lo sapevano già. E Il Re Pallido, romanzo che forse ancora dobbiamo assimilare a dovere, per coglierne la disperante grandezza, arrivato a funerali da tempo celebrati, resta come un monolite nero a levitare sopra di noi, oggetto monstre che, se solo lo capissimo, potrebbe indicarci una via verso la letteratura del futuro. Ma gli Oracoli, si sa, sono storicamente muti, e il fantasma di David chissà che non vaghi in uno di quei pazzeschi corridoi spaziotemporali che hanno portato l’astronauta di Kubrick fino alla fine del suo viaggio, che, naturalmente, ne era anche l’inizio[9].




Non ho mai incontrato David Foster Wallace di persona, né l’ho visto da lontano firmare autografi in qualche libreria e neppure l’ho incrociato, da ragazzi, su un qualche campo da tennis mentre passava sudando a dismisura da un rivale all’altro, in attesa di un tornado[10]. Ho però parlato con persone che gli sono state tanto vicine da essersi scambiati con lui fax e bandane[11], da aver avuto il coraggio di tradurre e pubblicare per primi in Italia Infinite Jest (e a Sandro Veronesi venivano ancora gli occhi lucidi a parlarmi di lui, e non eravamo in pubblico, bensì nascosti in una specie di retrobottega per un’intervista che avrebbe potuto legittimamente apparirgli marginale, mentre DeLillo in persona e aura aveva appena lasciato la sala dopo avergli dedicato una copia de L’uomo che cade) e anche con qualche collega scrittore americano come il timido, cauto e torrenziale Rick Moody o Eli Gottlieb, che a un’idea di DFW ha dedicato anche un romanzo segreto e molto particolare[12]. Tutti questi incontri sono stati interessanti, coinvolgenti, tutto quello che di buono potete immaginare (avrei voluto parlarne anche con Bret Easton Ellis, che su Twitter sbandiera giudizi parecchio sprezzanti su Wallace, ma il mitico autore di Meno di zero di persona si è rivelato una vera catastrofe e me ne sono andato ben prima della fine dell’appuntamento milanese cui ero stato invitato, a riprova del fatto che il salubre motto sull’importanza della bibliografia e l’inutilità della biografia mantiene sempre qualcosa di pervicacemente vero), e giornalisticamente erano perfetti per “fare pezzo”. Ma oggi non è di questo che voglio parlare, e quindi non resta che una cosa, l’unica davvero essenziale. Quello che DFW ha scritto è la sola scialuppa, vasta a onor del vero, a cui aggrapparsi di nuovo in questo ricorsivo anniversario. E poiché di scialuppa si parla mi piace scegliere il suo reportage più famoso, Una cosa divertente che non farò mai più, la ormai canonizzata cronaca inarrivabile di una crociera superlusso di sette giorni. Solo una citazione, nella quale però c’è molto di Foster Wallace:

Questo discorso riguarda anche il fenomeno del Sorriso Professionale, un fenomeno fondamentale del terziario […] Lo conoscete questo sorriso – la strenua contrazione dei muscoli peribuccali con il parziale coinvolgimento degli zigomi – un sorriso che non ce la fa ad arrivare agli occhi e che non è altro che un tentativo di favorire gli interessi personali di chi sorride facendo finta che gli piaccia colui che riceve il sorriso. Perché i datori di lavoro e i superiori costringono i loro inferiori ad allenarsi al Sorriso Professionale? Sono forse l’unico cliente in cui grandi dosi di sorrisi del genere producono disperazione? Sono l’unica persona al mondo a essere convinta che la causa del numero crescente di fatti di cronaca in cui persone all’apparenza assolutamente normali cominciano a sparare con pistole automatiche nei centri commerciali, nelle agenzie di assicurazione, nelle cliniche private e nei McDonald’s dipende anche dal fatto che posti del genere sono ben noti vivai di propagazione del Sorriso Professionale?[13].



Nell’imminenza dell’anniversario wallaciano è uscita anche in Italia la prima vera e propria biografia di David Foster Wallace, Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, del giornalista e scrittore D. T. Max[14]. Leggendo le prime pagine mi sono fatto una domanda e di proposito ho usato un aggettivo impegnativo, da tutti i punti di vista: è giusto tutto questo? Mi sono chiesto. E’ giusto parlare dei violenti litigi con la sorella piuttosto che degli apprezzamenti che rendevano il giovane David “forse più felice di quanto avrebbero dovuto”? E’ giusto prendere dei singoli episodi della vita di una persona e usarli per scrivere qualcosa che vorrebbe essere, almeno in una certa misura, una storia della sua intera vita? Il resto è necessariamente silenzio? E se la vera vita di chiunque, non dico di DFW, invece fosse proprio in quel silenzio? Ovviamente non ci sono risposte a queste domande ingenue e forse anche capziose, ma se penso a David Foster Wallace e alla sua fondamentale lezione sulla complessità di tutte le cose[15] a ogni anniversario, mi perdoneranno i miei quattro lettori, non riesco a non pormele in maniera così, ahimè, poco urbana.

Il cielo, sopra l’aspra Liguria di Montale, è sempre più cupo. Le spiagge sono miraggi fuggevoli di là dal vetro. David Foster Wallace è morto da cinque anni[16]. Brindo alla sua memoria e ai suoi libri stappando una lattina di Coca Cola Light e, nascosto sotto le mie spessi lenti da miope, proprio mentre mi assale il buio dell’ultima galleria, sorrido.




[1] A mano a mano che il viaggio prosegue, la folla che attende dietro le sbarre nei paesi del Ponente aumenta. Come se tutti aspettassero il passaggio di questo treno per potersi poi muovere.
[2] Poche ore prima, stessa tratta in senso inverso, una signora che era un incrocio tra la matrigna di Cenerentola (per la bocca incredibilmente a schiena d’asino), l’ultima Wanna Marchi (capelli biondo tinto, tagliati a spazzola) e con qualcosa di Jabba The Hut, ha chiesto con forte accento pugliese a una ragazza italiana che vive nella regione di Parigi: “Ma voi in Francia avete i negozi di vestiti?”. Fingevo ovviamente di dormire da quando era salita, ma qui credo di avere avuto un tremito percepibile. “Sogna, poverino”, ha detto la matrona al figlio.
[3] Paolo Conte, Hemingway
[4] “Parigi è mia e tu sei mia”, cfr. Festa Mobile. Frase assoluta.
[5] Un amore dell’altro mondo, Einaudi
[6] Cfr. Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi e La ragazza dai capelli strani, Minimum Fax
[7] La nota teoria esposta dallo storico marxista nel saggio Il secolo breve: il suo Novecento dura dal 1914, Sarajevo, al 1989, Berlino e il suo muro che sgretolandosi sgretola l’impero sovietico.
[8] Nell’interregno, per così dire, si inserisce un romanzo talmente fuori dal comune da non poter stare che in questa zona grigia e assoluta: Il teatro di Sabbath di Philip Roth (1995), capolavoro di un secolo che non c’è, durato, nella nostra metafora, lo spazio di due anni.
[9] 2001 Odissea nello spazio. IL cinema.
[10] Cfr. Tennis, Tv, Trigonometria e Tornado, Minimum Fax
[11] Martina Testa e Marco Cassini di Minimum Fax, alla casa editrice romana si deve moltissimo in Italia su DFW
[12] Le cose che so di lui, Piemme
[13] Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum Fax, nota a piè di pagina numero 40
[14] Pubblicata da Einaudi Stile Libero con una bella foto di DFW in copertina. Come diventare se stessi di David Lipsky, uscito per Minimum Fax qualche anno fa, era la cosa che più si avvicinava a una biografia dello scrittore, peraltro limitata a pochi giorni di condivisione “forzata”, ma comunque molto intensa seppur forse troppo lunga.
[15] E pure, come titola un saggio filosofico interessante di S. D. Kelly e H. L. Dreyfus che dedicano molte pagine a DFW, allo stesso tempo Ogni cosa risplende
[16] So di correre il rischio di sembrare veramente egocentrico, ma arrivare a questo momento (con la sottolineatura della voce sulla parola “questo”, come ha fatto il telecronista di Sky della finale di Champions League del 2010 quando disse: “Sono 45 anni che l’Inter sta aspettando questo momento”) per me equivale, fatte le debite proporzioni, all’operazione fatta da Franzen con il suo straordinario testo L’isola più lontana. Come lui anche io faccio i miei, personali, conti con la scomparsa di DFW e, simbolicamente, lancio un mucchietto di ceneri nel mare. Ligure in questo caso, ma valga la componente metaforica.


Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

06 luglio 2013

L’Avversario Carrère, il mistero della grande letteratura

Limonov è stato, a detta di molti e di svariate classifiche, il libro dell'anno del 2012 ed Emmanuel
Carrère ha ricevuto, anche in Italia, la consacrazione che spetta a un autore dotato di tanto coraggio e consapevolezza narrativa. Sulla scia del successo della inconsueta biografia – questo termine è senza dubbio inesatto e chiaramente limitativo - dell'irregolare russo Adelphi ha annunciato la pubblicazione di altre opere di Carrère, a partire da L'avversario, uscito in Francia nel 2000 e già tradotto da Einaudi. Un libro che all'epoca aveva suscitato un certo clamore, ma che forse non era stato compreso davvero nella sua poderosa e sinistra grandezza. E in questo senso, magie dell'influenza di ciò che viene dopo, rileggere la storia di Jean-Claude Romand lo sterminatore della propria famiglia dopo aver letto e amato Limonov è un'esperienza, se possibile, ancora più intensa che ci apre squarci d'illuminazione - capire razionalmente in questo caso è cosa molto difficile - su quello che è il mistero della grande letteratura e, più nello specifico, sulla insondabile, e per più di un aspetto disturbante grandezza di scrittore di Carrère.

La misura con cui ci si sta confrontando è quella del male assoluto, per dirla con Citati, o della crudeltà veterotestamentaria, o ancora, e con più consonanza, il senso dell'abisso che pervade un'opera come il Gordon Pym di Edgar Allan Poe. Con l'aggiunta o l'aggravante, che dir si voglia, che in questo caso l'orrido non è segnato su alcuna carta geografica intelligibile e, anzi, non è neppure fuori di noi. Non si tratta del "mostro della porta accanto", cosa che Romand certamente è anche stato, bensì dell'effetto che tale mostruosità produce sulla nostra vita, della impossibilità di trovare un vero motivo che inneschi l'orrore, dell'impellente necessità di guardare da vicino chi ha commesso il crimine più abominevole. E qui Carrère, tanto ardito da sembrare quasi disperato, si trova davanti, e lo descrive, qualcuno che a volte sembra l'uomo che non c'era dei fratelli Coen e a volte somiglia semplicemente un essere umano. Carrère, e il lettore con lui, barcolla, sbanda, rischia di crollare e il rimando all'Avversario del titolo, il demonio, è una possibile risposta ai dilemmi insopportabili che sono sollevati dalla storia di un padre che ammazza i suoi figli, di un marito che ammazza sua moglie e di un figlio che ammazza i genitori. Tre archetipi degni dei grandi tragici greci, qui follemente riuniti nella storia di un unico uomo, per di più reale (qualunque cosa l'aggettivo significhi davvero), che risponde al nome di Jean-Claude Romand. Una possibile risposta, si diceva, nulla di più. Il vero senso di tutto sta, probabilmente, nel libro, nell'averlo scritto e scritto in questo modo. Nell'aver accettato una sfida destinata necessariamente alla sconfitta o alla follia. Ed Emmanuel Carrère, non dimentichiamolo, è stato anche il biografo di Philip Dick, quindi doppiamente consapevole di ciò di cui si sta tentando di parlare.

Il metodo Limonov, per dir così, dunque era stato messo a punto dallo scrittore francese 12 anni prima , con esiti che, quale che sia la valutazione specifica, hanno qualcosa di assoluto, nel senso etimologico di sciolto da tutto il resto. Come solo la vera grandezza, quella di un Melville o di un Beckett, per esempio, sa fare.