“Ogni
storia ha un inizio”, scrive il giornalista D.T. Max in apertura del suo Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi,
la prima biografia completa di David
Foster Wallace che esce in Italia per Einaudi Stile Libero. Tutti, di
solito, pensiamo alla fine della storia dello scrittore, quel garage dipinto di
rosso dove, il 12 settembre 2008,
ha deciso di farla finita. Max invece ha il merito, non
da poco, di ragionare, pressoché totalmente, sugli episodi biografici e sulla
storia dei libri di Wallace prima e
soprattutto non necessariamente alla luce di quel suicidio che ha privato
l’America e il mondo di uno scrittore tanto geniale quanto sofferto. Certo,
restano alcune perplessità in qualche modo filosofiche (wittgensteiniane verrebbe da scrivere insieme al giovane DFW, e
dunque intrinsecamente anche capziose), legate al fatto che si possa davvero
dare l’dea dell’intera vita di una persona – per di più complessa come
indubbiamente era Wallace – attraverso dei singoli episodi documentati. E tutto
il resto? Verrebbe da chiedersi. Il
resto è necessariamente silenzio? Forse la vita di una persona passa
soprattutto attraverso questi “silenzi” e nel libro si trova un evidente
esempio di quanto poco si possa catturare delle emozioni di un’altra vita
quando Max riassume un periodo di ricovero dello scrittore in una struttura
psichiatrica con queste sei parole: “Fu dimesso due settimane più tardi”. C’è
grande misura e pudore in questa frase, e si tratta di pregi generali del
libro, ma c’è anche una specie di buco
nero biografico su un periodo che potrebbe avere avuto molta importanza per
Wallace…
Fatte
queste premesse metodologiche, resta una biografia che è in grado di trattare
una materia molto pericolosa con cura e attenzione, che ha poche cadute di
stile (e sarebbe facile, perché DFW era uno scrittore capace di suscitare
grandi passioni) e che ragiona senza
prese di posizione ideologiche sulla complessità dell’opera e della
personalità dell’autore di Infinite Jest.
Per il lettore appassionato di Wallace, Ogni
storia d’amore è una storia di fantasmi, ha un valore ambivalente: da un
lato è una miniera di citazioni e di materiale tratto soprattutto da fonti non
edite, come le lettere a Jonathan Franzen e a Don DeLillo, in particolare quelle
al monumentale autore di Underworld,
cui DFW sembrava scrivere con altissima frequenza. Dall’altro lato è un
percorso doloroso, perché Max tenta, per sua stessa ammissione, di essere il
più neutro possibile, e quindi tende a non nascondere, a far emergere le
contraddizioni e le incoerenze, a parlare di sofferenza quando di sofferenza si tratta. Ci sono gli
elettroshock e gli psicofarmaci, i tentativi di sconfiggere le dipendenze e la
drammatica consapevolezza che “la sua eccezionale intelligenza gli era
d’impiccio. Nel processo di riabilitazione serviva modestia, non acume”. Ci
sono però anche tanti momenti di serenità e di grandezza letteraria (“Wallace
si presenta come un abitante di quel luogo che i minimalisti avevano solo
saputo indicare”, notava un recensore de La
ragazza dai capelli strani), dettagli minimi e furbe, ma perfino commoventi,
strategie di scrittura, ricorsive come molte delle idee e delle situazioni
wallaciane.
Particolarmente
affascinante il fatto che, pur nel respiro limitato di una biografia dedicata
alla vita di un uomo morto a 46 anni,
si possano percepire molti cambiamenti di atteggiamento, di idee, di posizioni
intellettuali, anche di finalità della scrittura. Il che è sintomo di una mente
brillante (troppo?) e perennemente in cerca di nuovi stimoli, ma anche – e in
questo agisce sottotraccia la capacità
rara di D.T. Max di astenersi da ogni sfumatura di ideologia – di una fragilità
costante, che si manifestava nell’ossessiva ricerca da parte di Wallace di
nuove avventure sentimentali oppure nell’insoddisfazione verso le opere
precedenti e nel terrore verso quelle ancora da scrivere. E in quest’ottica Il Re pallido, il romanzo incompiuto poi
pubblicato postumo – che per molti lettori è un capolavoro, ma che per DFW fu un reale strazio creativo, è tra i
motivi di frustrazione che potrebbero averlo spinto a salire su quella sedia in
garage. Ma, come giustamente fa Max, questa è una scena che resta ai margini di
una biografia che vuole essere la storia di un uomo e di uno scrittore che ha
tentato di vivere e di scrivere, lasciando un segno profondo e quasi unico
nella cultura contemporanea, non solo degli Stati Uniti.
Chiudendo
il libro, e lo si chiude con un naturale moto di tristezza perché forse più di
un lettore aveva segretamente sperato in un finale diverso, ci si convince di
quello che proprio Franzen aveva già scritto, con uno sforzo di dolorosa ed
empatica onestà, ossia che David Foster Wallace era una persona che è stata a lungo malata, e che non era in nessun
modo quel “santo folle” che una certa pubblicistica facilona ha voluto
dipingere partendo dalla sua bandana o dai suoi bermuda. Ma sotto la malattia
c’era anche “un genio sensibile e
sincero col freno a mano tirato” e pure uno scrittore che, accanto alle
intuizioni straordinarie, sapeva lavorare di mestiere, talvolta inventando gli
aneddoti più gustosi o saccheggiando la vita di chi gli capitava di incontrare.
E giustamente in una famosa intervista Wallace aveva detto che il senso del suo
scrivere stava fondamentalmente nel tentativo di spiegare che cosa volesse dire
essere un “fottuto essere umano”. Forse lui ci è riuscito, forse no, ma questa
biografia ci ricorda che lo stesso DFW era consapevole del fatto che “scrivere roba sulla vita vera è quasi
impossibile, semplicemente perché è troppa”. Un’osservazione che, se alle
parole “vita vera” si sostituiscono le parole “biografia di David Foster
Wallace”, getta una luce ambigua e straniante anche sul libro che avete in
mano. Forse l’ultima magia, qui lasciatemelo dire, metaletteraria dello
scrittore nato a Ithaca (e ogni riferimento alla figura di Ulisse è in questo
caso implicita, ma voluta).
Avevamo
iniziato con la prima frase del libro, chiudiamo con l’ultima: “Non era questo l'epilogo che ci si augurava per lui,
ma questo è l'epilogo che ha scelto”. Prima di dire,
questa volta con convinzione, che il
resto è silenzio, anche D.T. Max, come un altro wallaciano di ferro come
Sandro Veronesi, ricorda in un’intervista che “il suicidio non era l’unica
maniera in cui le cose avrebbero potuto finire”. E in un’altra versione della storia Wallace potrebbe essere ancora
vivo.
Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine