Lo scrittore, la Liguria e (quasi) cinque anni passati
Ovvero io, Hemingway, Cobain e Franzen
Quando
il mondo apprese che David Foster Wallace era morto, il 12 settembre 2008, ero
al lavoro in redazione. Nel mio ricordo, come già era successo qualche anno prima
con Richard Avedon, sono certo di avere dato io la notizia per la mia agenzia,
ma andando a cercare le prove di un lancio sul suicidio dello scrittore di Infinite Jest devo ammettere di non
averne trovate e, di fronte a una giuria composta non solo da me stesso, sono
abbastanza sicuro che verrei accusato di millantato credito. Quel take non
esiste e quindi – la ferrea logica deduttiva – non è mai esistito, dato che il
sistema editoriale non prevede la possibilità di cancellazioni. E dunque DFW se
ne è andato anche senza la mia superflua nota di cronaca sul suo gesto, che
sarebbe stata certamente sciapa e banale, incapace di contenere tutta la
dignità e il dolore che sarebbero stati necessari. Così oggi, quasi cinque anni
dopo, con un imprevedibile sussulto d’orgoglio professionale, mi batto per non
ricadere nel solito, puntuale, pezzo commemorativo: cinque anni di Foster
Wallace, dieci di Bolaño, come se la matematica cronologica delle scomparse
letterarie di peso fosse quantomeno responsabile di favoreggiamento verso la
diffusissima (ma questo non scusa me)
tendenza a una ricorrenzialità che sembra pure avere qualcosa di necrofilo.
Per
cui, ricominciamo.
Sono
in treno in Liguria, dal lato sinistro il mare ha un non colore che fa pensare al mal di denti. Dal lato destro nuvole
gravide incombono sulle montagne, sui condominii anni Sessanta e sulle persone,
sempre numerose[1], che
attendono ai passaggi a livello. Lo scompartimento, una tortura tutta italiana,
simile all’idea del servizio militare per i maschi della mia generazione,
quelli cresciuti quando ancora la leva era obbligatoria e il nonnismo faceva
sorridere tutti quelli cui non sarebbe mai toccato, mi impone di stare seduto
come un ebete di fronte a un signore molto hemingwayano: oltre alla
barba canuta d’ordinanza, per lui capello rigoglioso, cordiale – ma anche
spaventosa – distanza tra i due incisivi, camicia a larghe righe verticali
azzurre e pantaloni rossi su scarpe stringate marrone chiaro, portate, come si
fa a Key West o nel mondo hipster, rigorosamente senza calze. Parla di politica
con un’altra occupante l’angusto salottino mobile con toni che mi spingono a
chiudere gli occhi per non rischiare di essere coinvolto ma che, a essere
onesti, avrebbero potuto essere anche ben peggiori[2].
Me lo immagino a torso nudo, con quella sicurezza tutta maschile del saper fare
lavori rudi, consapevole della loro componente anche violenta, ma, al tempo
stesso, tormentato e inquieto nel momento del riposo dopo la fatica. Alto e
corpulento come l’Ernest originale, il mio compagno di viaggio, provo a ipotizzare, non parteciperebbe mai a quelle tristissime gare di sosia del
romanziere che vanno in scena ogni anno da qualche parte nei Caraibi, ma
probabilmente, nel segreto della sua stanza da bagno, qualche volta il pensiero
che le avrebbe potute dignitosamente vincere lo sfiora, come un’eco di un
profumo che ogni tanto si presenta inatteso alla memoria olfattiva. “Et alors monsieur Hemingway, ça va bien?[3]”
Da
qui, dai Marlin all’alba e dalle bevute parigine o spagnole, dalle ragazze con
le maglie a righe orizzontali[4]
ai posti alla sombra alla corrida,
dalla fuga dall’America all’essere così tanto americano da diventare il
prototipo dello Scrittore Americano,
da qui inizia tutto. Compreso il sapore metallico e unto della canna di fucile
in bocca in una domenica mattina che era, ne sono certo, troppo radiosa.
Sarebbe facile aggrapparsi a questo punto di contatto, al male di vivere che è
del Novecento e nasce, come tutte le cose più spaventose di quel secolo, dalla
Prima guerra mondiale e arriva fino a un garage americano. Ma quel garage non è
quello scelto da David Foster Wallace per lasciare in bella vista le tremila
pagine di quello che, finora, è diventato Il
Re Pallido. No, il garage che chiude il secolo scorso, e il circolo
innescato dall’autore di Fiesta, è
quello in cui a spararsi è Kurt Cobain. L’America sporca delle periferie dello
Stato di Washington – e mai finirò di ringraziare Tommaso Pincio per il suo
romanzo amorevolmente cobainiano[5]
– è il punto di (non) ritorno per gli emigree
dei Roaring Twenties, è l’ultima
pagina del sogno più intenso e sfuggente che la poderosa cultura pop degli
Stati Uniti, in questo mostrando tutto il suo coraggio, è stata capace di
coltivare, fare assurgere a mito universale, e quindi demolire con le sue
stesse mani. Andy Warhol, altro complementare della figura del mitico Ernest –
tanto per ricordarci sempre di non credere mai all’apparenza delle opposizioni
radicali – ha scelto la via in un certo senso ascetica dell’autoimmolazione
mediatica, uccidendosi attraverso la propria immagine e vendendo, in qualche
modo, tutti i fotogrammi di questo suicidio artistico e meraviglioso a noi,
popolo boccalone e affamato di dettagli pruriginosi. Cobain, e lo scrivo con
tutta la dovuta pietà, come era per molti versi necessario che accadesse –
perché solo così il cerchio si sarebbe davvero chiuso, perché la Fama vuole il
sangue e non si accontenta della sua versione concettuale o postmoderna –
Cobain si è assunto il peso personale e collettivo di premere quel grilletto (quel cazzo di grilletto sarebbe bello
poter scrivere, se solo fossimo in un film di Tarantino e non nella grigia e
devastante Seattle del 1994, e così avremmo pure una giustificazione estetica
per i frammenti di ossa e cervello sparsi con una logica insondabile
dall’esplosione del proiettile). Fine della storia, o almeno di un capitolo,
forse il più importante finora, ma non certo l’unico.
Il
garage di David, quindi. Lontano, lontanissimo da Hem e Kurt, almeno quanto lontani
da noi sono certi suoi racconti: penso ad alcune Brevi interviste, o a Julie di Piccoli
animali senza espressione[6],
o ancora a quasi tutto quel libro inestricabile che è Oblio. Se la morte di Cobain ha chiuso, con un certo anticipo in
effetti – ma dipende dai punti di vista, storicamente per gente come Hobsbawm
il 900 era quel punto già chiuso da circa cinque anni[7]
– il XX secolo della cultura americana[8],
quella di DFW ha conclamato il XXI, iniziato nel 1996 con Infinite Jest, proseguito poco dopo con Underworld di Don DeLillo e con tutte le opere che, da lì in
avanti, non hanno più potuto fare a meno di guardare a questi riferimenti, per
i quali Hemingway – e tutto ciò che la sua figura prominente aveva significato
– e anche i Nirvana erano ormai diventati storia con cui fare i conti, più che
un’impellenza tipica del presente. Poche ore prima dallo sconvolgimento dell’11
settembre Jonathan Franzen ha piazzato le sue memorabili Correzioni, e a quel punto, aiutati pure dal clangore spaventoso
delle Torri che crollavano, nessuno più ha potuto pensare di essere ancora nel
secolo di Scott Fitzgerald, di Charlie Chaplin, di John Coltrane e Susan Sontag
o dell’Arcobaleno della Gravità. Ma i
migliori scrittori, e DFW ne era una sorta di giovane capofila, lo sapevano
già. E Il Re Pallido, romanzo che
forse ancora dobbiamo assimilare a dovere, per coglierne la disperante
grandezza, arrivato a funerali da tempo celebrati, resta come un monolite nero
a levitare sopra di noi, oggetto monstre
che, se solo lo capissimo, potrebbe indicarci una via verso la letteratura del
futuro. Ma gli Oracoli, si sa, sono storicamente muti, e il fantasma di David
chissà che non vaghi in uno di quei pazzeschi corridoi spaziotemporali che
hanno portato l’astronauta di Kubrick fino alla fine del suo viaggio, che,
naturalmente, ne era anche l’inizio[9].
Non
ho mai incontrato David
Foster Wallace di persona, né l’ho visto da lontano firmare
autografi in qualche libreria e neppure l’ho incrociato, da ragazzi, su un
qualche campo da tennis mentre passava sudando a dismisura da un rivale
all’altro, in attesa di un tornado[10].
Ho però parlato con persone che gli sono state tanto vicine da essersi
scambiati con lui fax e bandane[11],
da aver avuto il coraggio di tradurre e pubblicare per primi in Italia Infinite Jest (e a Sandro Veronesi venivano ancora gli occhi lucidi
a parlarmi di lui, e non eravamo in pubblico, bensì nascosti in una specie di
retrobottega per un’intervista che avrebbe potuto legittimamente apparirgli
marginale, mentre DeLillo in persona e aura aveva appena lasciato la sala dopo
avergli dedicato una copia de L’uomo che
cade) e anche con qualche collega scrittore americano come il timido, cauto
e torrenziale Rick Moody o Eli Gottlieb, che a un’idea di DFW ha dedicato anche
un romanzo segreto e molto particolare[12].
Tutti questi incontri sono stati interessanti, coinvolgenti, tutto quello che
di buono potete immaginare (avrei voluto parlarne anche con Bret Easton Ellis,
che su Twitter sbandiera giudizi parecchio sprezzanti su Wallace, ma il mitico
autore di Meno di zero di persona si
è rivelato una vera catastrofe e me ne sono andato ben prima della fine
dell’appuntamento milanese cui ero stato invitato, a riprova del fatto che il
salubre motto sull’importanza della bibliografia e l’inutilità della biografia
mantiene sempre qualcosa di pervicacemente vero), e giornalisticamente erano
perfetti per “fare pezzo”. Ma oggi non è di questo che voglio parlare, e quindi
non resta che una cosa, l’unica davvero essenziale. Quello che DFW ha scritto è
la sola scialuppa, vasta a onor del vero, a cui aggrapparsi di nuovo in questo
ricorsivo anniversario. E poiché di scialuppa si parla mi piace scegliere il
suo reportage più famoso, Una cosa
divertente che non farò mai più, la ormai canonizzata cronaca inarrivabile
di una crociera superlusso di sette giorni. Solo una citazione, nella quale
però c’è molto di Foster Wallace:
Questo
discorso riguarda anche il fenomeno del Sorriso Professionale, un fenomeno
fondamentale del terziario […] Lo conoscete questo sorriso – la strenua
contrazione dei muscoli peribuccali con il parziale coinvolgimento degli zigomi
– un sorriso che non ce la fa ad arrivare agli occhi e che non è altro che un
tentativo di favorire gli interessi personali di chi sorride facendo finta che
gli piaccia colui che riceve il sorriso. Perché i datori di lavoro e i
superiori costringono i loro inferiori ad allenarsi al Sorriso Professionale?
Sono forse l’unico cliente in cui grandi dosi di sorrisi del genere producono
disperazione? Sono l’unica persona al mondo a essere convinta che la causa del
numero crescente di fatti di cronaca in cui persone all’apparenza assolutamente
normali cominciano a sparare con pistole automatiche nei centri commerciali,
nelle agenzie di assicurazione, nelle cliniche private e nei McDonald’s dipende
anche dal fatto che posti del genere sono ben noti vivai di propagazione del
Sorriso Professionale?[13].
Nell’imminenza dell’anniversario wallaciano è uscita anche in Italia la prima vera e propria biografia di David Foster Wallace, Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, del giornalista e scrittore D. T. Max[14]. Leggendo le prime pagine mi sono fatto una domanda e di proposito ho usato un aggettivo impegnativo, da tutti i punti di vista: è giusto tutto questo? Mi sono chiesto. E’ giusto parlare dei violenti litigi con la sorella piuttosto che degli apprezzamenti che rendevano il giovane David “forse più felice di quanto avrebbero dovuto”? E’ giusto prendere dei singoli episodi della vita di una persona e usarli per scrivere qualcosa che vorrebbe essere, almeno in una certa misura, una storia della sua intera vita? Il resto è necessariamente silenzio? E se la vera vita di chiunque, non dico di DFW, invece fosse proprio in quel silenzio? Ovviamente non ci sono risposte a queste domande ingenue e forse anche capziose, ma se penso a David Foster Wallace e alla sua fondamentale lezione sulla complessità di tutte le cose[15] a ogni anniversario, mi perdoneranno i miei quattro lettori, non riesco a non pormele in maniera così, ahimè, poco urbana.
Il cielo, sopra l’aspra Liguria di Montale, è sempre più cupo. Le spiagge sono miraggi fuggevoli di là dal vetro. David Foster Wallace è morto da cinque anni[16]. Brindo alla sua memoria e ai suoi libri stappando una lattina di Coca Cola Light e, nascosto sotto le mie spessi lenti da miope, proprio mentre mi assale il buio dell’ultima galleria, sorrido.
[1] A mano a mano che il viaggio
prosegue, la folla che attende dietro le sbarre nei paesi del Ponente aumenta.
Come se tutti aspettassero il passaggio di questo
treno per potersi poi muovere.
[2] Poche ore prima, stessa tratta in
senso inverso, una signora che era un incrocio tra la matrigna di Cenerentola
(per la bocca incredibilmente a schiena d’asino), l’ultima Wanna Marchi
(capelli biondo tinto, tagliati a spazzola) e con qualcosa di Jabba The Hut, ha
chiesto con forte accento pugliese a una ragazza italiana che vive nella
regione di Parigi: “Ma voi in Francia avete i negozi di vestiti?”. Fingevo
ovviamente di dormire da quando era salita, ma qui credo di avere avuto un
tremito percepibile. “Sogna, poverino”, ha detto la matrona al figlio.
[3] Paolo Conte, Hemingway
[4] “Parigi è mia e tu sei mia”, cfr. Festa Mobile. Frase assoluta.
[5] Un amore dell’altro mondo, Einaudi
[6] Cfr. Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi e La ragazza dai capelli strani, Minimum
Fax
[7] La nota teoria esposta dallo
storico marxista nel saggio Il secolo
breve: il suo Novecento dura dal 1914, Sarajevo, al 1989, Berlino e il suo
muro che sgretolandosi sgretola l’impero sovietico.
[8] Nell’interregno, per così dire, si
inserisce un romanzo talmente fuori dal comune da non poter stare che in questa
zona grigia e assoluta: Il teatro di
Sabbath di Philip Roth (1995), capolavoro di un secolo che non c’è, durato,
nella nostra metafora, lo spazio di due anni.
[9] 2001 Odissea nello spazio. IL cinema.
[10] Cfr. Tennis, Tv, Trigonometria e Tornado, Minimum Fax
[11] Martina Testa e Marco Cassini di
Minimum Fax, alla casa editrice romana si deve moltissimo in Italia su DFW
[12] Le cose che so di lui, Piemme
[13] Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum Fax, nota a piè
di pagina numero 40
[14] Pubblicata da Einaudi Stile Libero
con una bella foto di DFW in copertina. Come
diventare se stessi di David Lipsky, uscito per Minimum Fax qualche anno
fa, era la cosa che più si avvicinava a una biografia dello scrittore, peraltro
limitata a pochi giorni di condivisione “forzata”, ma comunque molto intensa
seppur forse troppo lunga.
[15] E pure, come titola un saggio
filosofico interessante di S. D. Kelly e H. L. Dreyfus che dedicano molte
pagine a DFW, allo stesso tempo Ogni cosa
risplende
[16] So di correre il rischio di
sembrare veramente egocentrico, ma
arrivare a questo momento (con la sottolineatura della voce sulla parola
“questo”, come ha fatto il telecronista di Sky della finale di Champions League
del 2010 quando disse: “Sono 45 anni che l’Inter sta aspettando questo momento”) per me equivale, fatte
le debite proporzioni, all’operazione fatta da Franzen con il suo straordinario
testo L’isola più lontana. Come lui
anche io faccio i miei, personali, conti con la scomparsa di DFW e,
simbolicamente, lancio un mucchietto di ceneri nel mare. Ligure in questo caso,
ma valga la componente metaforica.
Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine
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