“La fine del mondo è già avvenuta. Ciò che gli esseri umani hanno davanti agli occhi in questo momento è proprio la fine del mondo, determinata dagli iperoggetti”. Non è una citazione tratta da un libro di fantascienza (per lo meno non nel senso in cui siamo abituati a pensare la fantascienza, concetto che andrebbe forse ora riformulato, anche alla luce di libri come Annientamento di Jeff VanderMeer), ma da uno dei saggi filosofici più stimolanti, visionari e problematici che siano apparsi in Italia nel 2018: Iperoggetti, del pensatore britannico classe 1968 Timothy Morton, pubblicato nel nostro Paese da Nero edizioni. Un libro per lunghi tratti illuminante, che analizza come queste “entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo” - gli iperoggetti, non umani e non conoscibili mai fino in fondo - influenzino da sempre la nostra vita e ora abbiano decretato la fine del mondo nel senso dell’idea di mondo, che per altro era già una problematica “antinomia della ragione” nella filosofia di Kant a fine settecento. Il più clamoroso caso di iperoggetto, e in un certo senso il punto chiave della riflessione di Morton, è il cambiamento climatico. Al netto di qualsiasi considerazione filosofica più o meno sofisticata - e benché pubblicamente Morton osteggi la visione di Kant, nei fatti è lui stesso a dare nuova linfa al concetto di noumeno, ossia la “cosa in sé” che né nell’idealismo tedesco, né in questa visione ipercontemporanea e post punk possiamo raggiungere - al netto di tutto ciò, resta un fatto: il cambiamento climatico è il Tema del nostro presente, e libri come Iperoggetti servono, oltre a molto altro, anche a ricordarci quanto sia impellente pensarlo (e ovviamente poi agire, ma senza pensiero non c’è azione) in modi nuovi. Perché se la fine del mondo è già successa, e in un certo senso anche Wim Wenders o qualunque scienziato specializzato in robotica ce lo possono confermare, noi siamo ancora qui. Aggiungo anche una piccola postilla: per chi ha amato i libri di VanderMeer appare anche chiarissimo che l’Area X della sua Trilogia di grande successo, altro non è che un iperoggetto divenuto materia di letteratura. Qui però dobbiamo fermarci, perché entrando nell’Area le regole cambiano completamente, ed è un’altra storia che racconteremo un’altra volta.
A
fare in un certo senso il paio con Morton c’è un altro saggio sul nostro
presente, questa volta inserito nel circuito mainstream dei bestseller
internazionali, più accessibile e amato perfino da Bill Gates, che lo ha
consigliato come regalo natalizio (in una lista di cinque titoli): sono le 21
lezioni per il XXI Secolo dell’israeliano Yuval Noah Harari, pubblicato
in Italia da Bompiani. Una sorta di manuale del presente per macrotemi, che
vanno dall’immigrazione alla religione, dal lavoro all’idea di civiltà. In
tempi di slogan e odiatori, il libro di Harari ha il grande merito di usare una
ragionevolezza di stampo razionalista
(anche ironica e autoironica, ma senza corrosività, come è giusto che sia in un
libro da milioni di copie nel mondo) che gli permette di affrontare questioni
globali e urticanti in modo, lo scrivo ma un po’ al tempo stesso provo
imbarazzo, gentile. Ma la gentilezza, intesa in senso non solo di galateo
ovviamente, è in fondo una delle chiavi per il cambiamento vero, che Harari con
le sue lezioni sembra auspicare, prima che sia troppo tardi e gli algoritmi
prendano il potere (sta già succedendo, anche in Italia, quindi non si sta
parlando di qualcosa di altro o astruso). “Moralità - scrive Harari nella
lezione 13. Dio - non significa ‘seguire precetti divini’. Significa ‘ridurre
la sofferenza’. Per agire moralmente, non avete bisogno di credere in qualche
mito o storia. avete solo bisogno di sviluppare una precisa percezione della
sofferenza. Se davvero capite come un gesto possa provocare inutile sofferenza
a voi stessi o agli altri, sarà naturale astenervi dal farlo”. Troppo facile?
Forse, ma vale la pena di rileggerla più volte, questa frase, e poi pensarci un
po’ su.
La
non fiction, come accade da un po’ di anni, forse perché i suoi confini si sono
comunque molto allargati e comprendono spesso oggetti che sono letterari a
tutti gli effetti pur non essendo romanzeschi (il buon proposito di lettori e
recensori per il 2019 potrebbe - tardivamente - essere quello di chiudere
definitivamente con questa associazione esclusiva letteratura-romanzo). Uno di
questi è il magnifico e spaventoso reportage di Mark O’Connell nel mondo del transumanesimo, del post umano, del
“download del cervello”. Essere una macchina, che è uscito
nella “Collana dei casi” dell’editore Adelphi, è un libro, come i due citati
prima, molto contemporaneo, e anch’esso, come capitava con Timothy Morton, ci
parla di qualcosa che sembra futuro fantascientifico, ma in realtà è solo il
presente, in molti casi gli scenari che il giornalista descrive sono “già successi”,
anche se a volte solo per una finora piccola comunità di adepti. Ma il post
umano, la “vita” oltre la morte, sono oggetto di investimenti colossali dei
protagonisti del Big Business e in
molti luoghi che sembrano usciti dalla penna dell’ultimo Don DeLillo si trovano
veramente le teste ibernate di persone che si sono fatte decapitare subito dopo
la morte in attesa delle tecnologie che, prima o poi, permetteranno loro di
risvegliarsi. Magari, e qui c’è probabilmente la parte più originale e inquietante
del racconto di O’Connell, sotto forma di “altro”, sotto forma di software
cosciente, senza più la soma del corpo. Ma sarà ancora vita? Sarà ancora umana?
Sempre
in casa Adelphi e sempre nel terreno del ragionamento sulla coscienza e
l’intelligenza, il 2018 ha
portato in libreria un altro saggio difficile da trascurare: Altre
menti di Peter Godfrey-Smith, dedicato alla cosa “più vicina
all’incontro con un alieno intelligente che ci possa capitare”. Questa volta
però la fantascienza (nella solita accezione un po’ scontata) non c’entra: gli
alieni in questione sono seppie e polpi. Il libro, secondo volume della collana
Animalia, è dedicato ai cefalopodi e
alla loro via alternativa allo sviluppo cosciente e offre, da un punto di vista
spesso filosofico, ma con moltissima interazione reale con gli animali, un
avvicinamento al concetto vero di “alterità”. Oltre che una finestra capace di
allargare le nostre prospettive e offrirci occhiali migliori per guardare a
quello che, Morton e Kant ci perdonino, continuiamo a chiamare “il mondo”.
La
non fiction come letteratura si diceva, e allora ecco la nuova raccolta di
“idee, visioni, ricordi” di una delle scrittrici più importanti del mondo: Zadie Smith, che per Sur edizioni ha
portato in Italia il suo Feel Free. Per capire di cosa stiamo
parlando (e conviene ricordare, in quest’epoca di certezze assolute da
sbandierare sui social ogni 18 minuti, che la precedente raccolta di non
fiction della Smith si intitolava Cambiare
idea), basta una piccola citazione: “A mio parere un vero ‘creativo’ non
dovrebbe accontentarsi di soddisfare una domanda preesistente, ma dovrebbe
modificare la nostra idea di ciò che desideriamo. Al cuore della creatività si
trova un rifiuto. Perché un’opera veramente creativa evita sempre di vedere il
mondo come lo vedono gli altri, o come viene generalmente descritto. Rifiuta le
opinioni convenzionali e generiche: rinnova”. Bum. Mi vengono in mente le
battaglie culturali del presidente della Biennale Paolo Baratta, che da anni
insiste sul tema di ridefinire il desiderio, sia di arte sia di architettura.
Insomma, quando c’è un’intelligenza mobile, e quella di Zadie Smith è
mobilissima e diventa scrittura altrettanto imprendibile, tutto alla fine si
tiene, in modo assolutamente precario se volete (parliamo pur sempre di
cultura, suvvia), ma chiarissimo.
Chiudiamo
questa ricognizione annuale nella non fiction, prima di riaprire la porta del
romanzesco, con un’altra scrittrice, Michela
Murgia, non per la sua battaglia contro il fascismo, bensì per un piccolo
libro dedicato a un altro libro. Grazie all’intuizione editoriale di Chiara Valerio (la
scrittrice italiana che se non ci fosse andrebbe subito inventata di nuovo),
Marsilio ha creato la
collana PassaParola
e qui Murgia ha raccontato la propria scoperta de Le nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley, la versione al
femminile (e al femminista) della storia di Re Artù. L’inferno è una buona memoria
- questo il titolo del racconto di
lettrice della Murgia - è un oggetto minuscolo ma travolgente, intimo e
accecante a tratti. Anche qui, arriviamo a vedere cose che prima non vedevamo
(o forse facevamo finta di non vedere) e lo sguardo della scrittrice, impietoso
in primo luogo con se stessa, è una guida che si fatica a lasciare.
Ultimissime
note: all’insegna della contaminazione tra le forme di scrittura bisogna citare
altri due titoli che sono difficilmente classificabili come genere. Il primo è Storia
dello sguardo di Mark Cousins (Il Saggiatore), un viaggio multiforme
dentro il nostro modo di guardare alle cose, alle persone, alla storia,
all’arte, agli stessi nostri occhi. Il secondo è fresco di stampa ed è Vite
brevi di tennisti eminenti di Matteo Codignola (Adelphi): nel racconto
di personaggi del tennis che fu (e questo sport per l’autore è una vera
ossessione, di cui il libro parla in modo diffuso e spesso esilarante) si
riscopre il modo in cui la letteratura, quando è nelle mani di uno in gamba, e
Codignola lo è oltremodo, può fare di tutto, anche parlando di Goering o del
sarto di Wimbledon. Con un’avvertenza: dimenticatevi le cose alla Open di Agassi, ma ricordatevi che
queste vite brevi sono altrettanto forti come oggetto letterario (e se il buon
Andre spara un suo classico e micidiale dritto da fondo campo, l’elegante
Matteo gli risponde, sul terreno dei libri, con un raffinatissimo drop shot in controtempo. E il pubblico
si spella le mani).
Il
2018 in
campo letterario, e ora parliamo di fiction e di romanzi, è stato soprattutto
l’anno della scomparsa di un gigante come Philip
Roth, morto a fine primavera a 85 anni. Lui, che l’Accademia di Svezia ha
snobbato per decenni, se ne è andato proprio nell’anno in cui il premio Nobel
per la Letteratura non è stato assegnato in seguito a uno scandalo a sfondo
sessuale (classico elemento rothiano), tanto che viene da pensare e, perché no,
anche da essere sicuri, che, alla chetichella, se lo sia portato via proprio il
buon Philip, ultimo segreto gesto di ribellione (ma anche di fedeltà a una
vocazione assoluta alla scrittura, che è tutto ciò che conta sul serio). Per
salutarlo nel migliore dei modi Einaudi ha concluso la pubblicazione di tutti i
suoi libri con il volume Perché scrivere?, che contiene “saggi,
conversazioni e altri scritti”, insomma buona parte di ciò che Roth ha visto
intorno ai libri, suoi e degli altri scrittori. Una sorta di autoritratto per
frammenti, che si chiude con il discorso per i suoi ottant’anni, pronunciato
nel 2013 al Newark Museum, a casa sua insomma, e dove per una sorta di congedo
ha scelto le parole del suo personaggio più grande e insondabile: il
burattinaio, satiro e sconfinato Falstaff contemporaneo, Mickey Sabbath. “Una
vita di incessante dissenso - ha detto Roth alla platea quel giorno - è la
miglior preparazione alla morte che lui conosca. Nella sua incompatibilità,
Sabbath trova la sua verità”. Arrivederci Philip, e grazie di tutto.
Restando
sulle sponde americane e, guarda caso, con il personaggio di un anziano scrittore,
ci siamo imbattuti in un romanzo d’esordio fuori dal comune: Asimmetria
di Lisa Halliday, pubblicato da Feltrinelli. Una storia in due
macro-capitoli dedicati il primo alla relazione tra il leggendario premio
Pulitzer Ezra Blazer e la
giovane Alice , lei sì personaggio straordinario per il modo
in cui Halliday lo ha immaginato e messo in pagina, il secondo ad Amar,
economista iracheno-americano che viene trattenuto a lungo in aeroporto a
Londra e così c’è l’occasione di trama per raccontare la sua vita. Bisogna dire
che, anche per originalità, il botto lo fa la prima parte del romanzo, il botto
è Alice, intorno a lei si stendono tutte le altre ramificazioni di storia,
lingua, costruzione letteraria. Ma quando la ragazza dice a Blazer “Facciamo qualcosa
di terribile”, è lei che serve il perfetto assist allo scrittore per
rispondere: “Mary-Alice, questa è la cosa più intelligente che tu abbia mai
detto”. Se non è amore così, non saprei cosa altro potrebbe essere. Tra i due
personaggi, ma questo è relativo, e soprattutto tra noi e il romanzo. E questo
conta.
Una
parola, in questa lista, la merita poi un romanzo che, facendo finta di essere
qualcosa d’altro - per esempio una specie di romanzone di inizio Novecento
oppure una classica storia di formazione - in realtà fa davvero quello che
promette il risvolto di copertina: racconta “in tutta la sua perturbante
evidenza il nostro tempo, quello che viviamo ogni giorno”. Si tratta di Tutto
quello che è un uomo del canadese-ungherese David Szalay (Adelphi),
libro che - banalizzando molto, è chiaro - sceglie un passo che potremmo
definire classico, con il quale batte un percorso ipercontemporaneo, la cui
riconoscibilità però appare poco a poco, come se ce la dovessimo guadagnare,
ma, sia chiaro, non certo in senso punitivo, solo di consapevolezza
progressiva, di lento autosvelamento attraverso gli oggetti, i pensieri, le
tristezze e le geografie, della nostra stessa vita. Non arriveremo, per
fortuna, a un approdo definitivo, ma, come hanno detto in tanti e penso
soprattutto a David Foster Wallace che parla di Kafka (David Foster Wallace che
parla di Kafka, due universi completi, non uno solo) e dice più o meno: lo
stesso assurdo viaggio verso casa era già casa.
Poi
c’è il romanzo italiano. Che piange la morte di Andrea G. Pinketts, ma
continua, seppure con tanti limiti che è perfino noioso stare a ricordare, a
esistere e ci sono autori che, al di fuori del genere stretto del giallo-noir
dove il vento soffia sempre in poppa, provano a fare cose diverse e interessanti.
E’ il caso di Gianluigi Ricuperati,
che ha pubblicato per Tunué il proprio quarto romanzo, EST, che segna una tappa
significativa nella sua carriera, un’opera di maturità sia nel senso delle
tematiche che affronta (l’arte, la finzione, ma soprattutto l’inestricabile e
irrinunciabile mistero dell’amore, a molti livelli diversi compreso quello più
diretto) sia nel senso dell’apertura a una letteratura meno ostinatamente di
rottura, più accessibile potremmo forse dire (ma non sono certo che sia esattamente
questa la formulazione migliore), più fatta di “carne e sangue”, come ha detto
il suo editor, Vanni Santoni. Partendo da una clamorosa installazione d’arte
contemporanea, una specie di film segreto (e gli echi di Don DeLillo, ma anche
di Thomas Pynchon ci fanno subito drizzare le orecchie, ma alla fine sarà tutto
diverso, sarà un romanzo italiano e non americano, come è giusto che sia), il
racconto poi prende molte altre pieghe, nelle quali anche la personalità
irrefrenabile dell’autore-narratore si diluisce nei confronti, trova modo di
rendersi più completa, con grande beneficio per il libro, che oggi appare,
appunto, un lavoro maturo, rotondo, pronto per arrivare a un pubblico più vasto
senza rinunciare troppo alla ricerca della complessità o del continuo stupore.
L’altro
libro italiano che segna la maturità di uno scrittore che negli anni ha
continuato a progredire è Nel cuore della notte di Marco Rossari
(Einaudi). Pur con ancora qualche limite, che peraltro hanno anche i romanzi di
Joseph Conrad, relativo al fatto che è indubbio che il libro abbia una sua
voce, fortissima, potente e chiara, ma talvolta i “portatori” di questa voce
sono più deboli, “Nel cuore della notte” è un’opera importante, che spazza via
quasi tutti i luoghi comuni di quei romanzi italiani in fotocopia e che sa
prendere la lezione di certi maestri stranieri e ricondurla sulle strade patrie
(del resto Rossari è sia un gran lettore sia un ottimo traduttore, entrambi
elemento che lo qualificano bene e gli offrono strumenti di chiaro valore
aggiunto), con un prodotto letterario originale e vicino. Al quale è bello
pensare di avvicinarsi usando proprio una delle immagini pop intorno alle quali
ruota il romanzo, ossia la scena del film Paris,
Texas di Wim Wenders nella quale Harry Dean Stanton parla con Nastassja
Kinski attraverso il vetro di un peepshow. Quel vetro è, in un certo modo, il
senso del romanzo, del nostro stare “al di qua”, riconoscendo però, nel caso
del film con enorme struggimento, anche chi (o cosa, il libro, per esempio) sta
“al di là”. E come dice a un certo punto il protagonista della storia, “credo
di avere scritto più pagine memorabili in chat che in tutto il resto della mia
vita”. Qui, chiaramente, c’è qualcosa che parla di noi, e che decifreremo
probabilmente solo con il passare del tempo.
Leonardo Merlini
Kilgore Magazine