Lontana anni luce dagli schemi dei benpensanti che, forse un po’ troppo spesso, si riempiono la bocca con la parola, la famiglia che i Fratelli Dardenne presentano nel film “L’enfant” è un piccolo esempio di come le cose possono andare sempre nel peggiore dei modi. Eppure il film tiene fede, senza melodrammi all’italiana, al sottotitolo e ci racconta davvero di “una storia d’amore”. Che i Dardenne sono capaci di tradurre sullo schermo con delicatezza estrema, senza disperazione, anzi con la consapevolezza che anche nei contesti più degradati (le periferie urbane, i miseri alloggi popolari, i tristi lungofiume) possano continuare ad albergare dei sentimenti. Quelli che legano Sonia e Bruno, Bruno e il suo giovane complice Steven, Sonia e il piccolo Jimmy.
La macchina da presa, è questo mi pare uno dei pregi del film – palma d’oro a Cannes lo scorso anno, ora in dvd nella splendida collana Le nuvole di Feltrinelli – segue i protagonisti molto da vicino, spesso alle spalle degli attori, e trasmette il senso di uno sguardo del narratore che non vuole e non può andare oltre quello dei suoi personaggi. Che vivono la storia dall’interno, senza ingerenze diegetiche, senza giudizi morali.
Sereno antidoto alle fiction patinate, “L’enfant” è un film che esprime concetti brutali, ai limiti della sostenibilità. Eppure, grazie anche all’understatement dei due protagonisti, riesce a evitare tutte le trappole che l’intreccio puro e semplice potrebbe stendere sulla strada dei registi. Forse solo la scena finale delle lacrime in carcere rischia un po’ di scivolare nel “già visto”, ma tutto ciò che viene prima è un valido antidoto a ogni possibile piagnisteo o morboso compiacimento.
21 giugno 2006
16 giugno 2006
Monsieur Ben Jelloun, I presume
“Lo scontro delle civiltà non esiste, semplicemente perché le civiltà sono fluide, in movimento e si intersecano continuamente. Il problema è l’ignoranza verso l’altro, la poca volontà di capire chi è diverso da noi. Perché provare a comprendere gli altri è già una forma di accettazione e c’è poca volontà di fare questo”. Incontro Tahar Ben Jelloun all’hotel Principe di Savoia di Milano, in una sala arredata con un gusto vagamente orientale. Lo scrittore marocchino, molto apprezzato nel nostro Paese, indossa un’elegante camicia colorata ed emana un tenue ma gradevole profumo d’incenso. E’ in Italia per presentare il suo ultimo libro -“Non capisco il mondo arabo”, editore Bompiani, in uscita il 21 giugno – nel quale ricostruisce la corrispondenza tra sua figlia Mérième e un’immaginaria ragazza italiana, Lidia. Le due giovani si confrontano su molti temi, dall’amore alla laicità, dai diritti delle donne al terrorismo. “Nel libro – mi ha spiegato lo scrittore in un francese molto comprensibile – ho cercato di entrare nella testa dei giovani, che sono preoccupati per un mondo che produce angoscia, paura, nel quale c’è troppa violenza e ingiustizia”.
Cuore del libro è il dialogo tra le culture, con le difficoltà che questo comporta e i limiti d’approccio con cui si deve fare i conti. “Gli occidentali – ha detto Ben Jelloun – vogliono riformare l’Islam, ma non si può riformare una religione rivelata, si dovrebbe invece riformare la mentalità delle persone. Perché il Corano non prescrive il terrorismo o l’oppressione delle donne, ma sono gli interpreti a voler fare passare queste idee. E sulla società civile è possibile intervenire per spingere le persone a essere migliori”. In questo senso lo scrittore di Fes sottolinea il ruolo centrale delle donne per il cambiamento: “In tutto il mondo islamico sono le donne a portare avanti le innovazioni. In Iran si sono battute contro l’oscurantismo, in Marocco per il nuovo Codice della famiglia”. Un’opinione che Kilgore sottoscrive in toto.
Il libro tocca molti argomenti d’attualità e Ben Jelloun parla anche del conflitto israelo-palestinese: “Il problema dei palestinesi non ha niente a che vedere con l’Islam, è un problema politico, nazionale, di occupazione di un territori, di coesistenza tra due Stati, ma non è un problema religioso. Nella resistenza palestinese – mi ha spiegato lo scrittore – ci sono i laici di Fatah, l’estrema sinistra guidata da un cristiano e poi ci sono gli islamici di Hamas. La vittoria elettorale di un partito estremista è una notizia molto buona per Israele, che così potrà dire che tutti i palestinesi sono favorevoli al terrorismo e la situazione rimane del tutto bloccata. L’islamismo, comunque, è un elemento che entra solo ora nella questione palestinese”. Interrogato sulle possibili vie d’uscita da questo stallo, Tahar Ben Jelloun ripropone la parola dialogo: “E’ difficile trovare una soluzione, l’Europa dovrebbe obbligare Israele a negoziare con Hamas, perché comunque questo partito è un’espressione della volontà popolare”. Facile a parole, forse un po’ più complesso nei fatti.
Certo è che continuare a sottolineare parole come “dialogo”, “comprensione”, “tolleranza”, “cultura”, "diversità" è sicuramente un modo per provare a rendere il mondo un posto migliore. Che poi ci si riesca è un altro discorso, ma, come diceva Socrate, “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.
Cuore del libro è il dialogo tra le culture, con le difficoltà che questo comporta e i limiti d’approccio con cui si deve fare i conti. “Gli occidentali – ha detto Ben Jelloun – vogliono riformare l’Islam, ma non si può riformare una religione rivelata, si dovrebbe invece riformare la mentalità delle persone. Perché il Corano non prescrive il terrorismo o l’oppressione delle donne, ma sono gli interpreti a voler fare passare queste idee. E sulla società civile è possibile intervenire per spingere le persone a essere migliori”. In questo senso lo scrittore di Fes sottolinea il ruolo centrale delle donne per il cambiamento: “In tutto il mondo islamico sono le donne a portare avanti le innovazioni. In Iran si sono battute contro l’oscurantismo, in Marocco per il nuovo Codice della famiglia”. Un’opinione che Kilgore sottoscrive in toto.
Il libro tocca molti argomenti d’attualità e Ben Jelloun parla anche del conflitto israelo-palestinese: “Il problema dei palestinesi non ha niente a che vedere con l’Islam, è un problema politico, nazionale, di occupazione di un territori, di coesistenza tra due Stati, ma non è un problema religioso. Nella resistenza palestinese – mi ha spiegato lo scrittore – ci sono i laici di Fatah, l’estrema sinistra guidata da un cristiano e poi ci sono gli islamici di Hamas. La vittoria elettorale di un partito estremista è una notizia molto buona per Israele, che così potrà dire che tutti i palestinesi sono favorevoli al terrorismo e la situazione rimane del tutto bloccata. L’islamismo, comunque, è un elemento che entra solo ora nella questione palestinese”. Interrogato sulle possibili vie d’uscita da questo stallo, Tahar Ben Jelloun ripropone la parola dialogo: “E’ difficile trovare una soluzione, l’Europa dovrebbe obbligare Israele a negoziare con Hamas, perché comunque questo partito è un’espressione della volontà popolare”. Facile a parole, forse un po’ più complesso nei fatti.
Certo è che continuare a sottolineare parole come “dialogo”, “comprensione”, “tolleranza”, “cultura”, "diversità" è sicuramente un modo per provare a rendere il mondo un posto migliore. Che poi ci si riesca è un altro discorso, ma, come diceva Socrate, “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.
14 giugno 2006
Born in the USA
Dodici voci potenti per raccontare la nuova America, dodici sguardi poetici su un Paese in movimento, attraversato da drammi e tensioni che riguardano sia la sfera pubblica sia quella personale. Con “Nuovi poeti americani”, antologia di autori poco conosciuti dal pubblico italiano, l’editore Einaudi ha mandato in libreria un nuovo tassello per la comprensione della cultura e, per estensione, dell’intera società statunitense. Un libro che, precisa la curatrice Elisa Biagini, “è un tentativo di raccontare la ricca e diversa realtà poetica americana: è una rappresentazione inevitabilmente parziale e partigiana fatta da un poeta che sceglie altri poeti”.
Vero specchio del crogiuolo etnico degli States, l’antologia einaudiana è una finestra aperta su traumi e problematiche, ma anche su aspirazioni e orgogli, che solcano la realtà culturale americana. Quello che emerge è un universo poetico ricco di stimoli, capace di alimentarsi anche di fenomeni “off”, come il rap e i reading di strada, senza per questo rinunciare alla lezione dei grandi maestri della poesia statunitense, come Whitman e Dickinson, oppure, in tempi più recenti, Robert Lowell e Sylvia Plath.
I temi toccati nelle poesie dell’antologia sono vari, ma comunque sempre significativi del clima sociale degli Stati Uniti. Si trovano dunque i bellissimi versi di orgoglio afroamericano di Lucille Clifton, che sogna di trasformarsi in una donna bianca (“i capelli uno svolazzare di / foglie autunnali/ che volteggiano sul perfetto / profilo del mio naso, / niente labbra / niente didietro”), ma poi constata che “non c’è futuro / in quei vestiti” e allora “me li tolgo e / mi sveglio / ballando”). Dalle tematiche razziali al dramma dell’aids. Mark Doty racconta così, con dolcezza e lucidità, la scomparsa del compagno: “Io che sto sostenendo Wally, che se ne sta andando. / Dove non è la domanda, / anche se pensiamo che lo sia, / non sappiamo neanche dove siano i viventi, / in questo confuso ‘qui’ che si dipana”.
L’amore omosessuale è raccontato anche dalla poetessa Olga Broumas, che riscrive con originalità e ironia le fiabe della tradizione classica. Particolarmente efficace il suo racconto del risveglio della bella addormentata: “Centro della città, in mezzo / al traffico: io / mi sveglio al tuo pubblico bacio. Il tuo nome / è Judith, il tuo bacio un segnale / per i pedoni sconvolti, raccolti / sotto la luce che vuol dire / stop / nella nostra cultura”. Direttamente dalla strada, dalle rime e dai calembour dei rapper, arrivano i versi, implacabili e vagamente ispirati alla tradizione simbolista, di Willie Perdomo: “Un giorno / sulla 123esima strada / va un po’ / in questo / modo: / Pallottole di automatica / rimbalzano sui gradini della veranda / E’ tempo di pagare / tutti i miei debiti / Le campane della chiesa rintoccano per / gli accompagnatori ubriachi del funerale”.
Un Paese complesso, dunque, quello che emerge dalle poesie dell’antologia, carico di ansie e paure, ma anche sempre alla ricerca di barlumi di speranza e capace, ancora una volta, di ironia. Che negli Stati Uniti del dopo 11 settembre è già una cosa non da poco. Così come non va trascurata la forza che la poesia continua ad esercitare, anche nel mondo digitalizzato e sempre più banale in cui ci troviamo a vivere ogni giorno.
Vero specchio del crogiuolo etnico degli States, l’antologia einaudiana è una finestra aperta su traumi e problematiche, ma anche su aspirazioni e orgogli, che solcano la realtà culturale americana. Quello che emerge è un universo poetico ricco di stimoli, capace di alimentarsi anche di fenomeni “off”, come il rap e i reading di strada, senza per questo rinunciare alla lezione dei grandi maestri della poesia statunitense, come Whitman e Dickinson, oppure, in tempi più recenti, Robert Lowell e Sylvia Plath.
I temi toccati nelle poesie dell’antologia sono vari, ma comunque sempre significativi del clima sociale degli Stati Uniti. Si trovano dunque i bellissimi versi di orgoglio afroamericano di Lucille Clifton, che sogna di trasformarsi in una donna bianca (“i capelli uno svolazzare di / foglie autunnali/ che volteggiano sul perfetto / profilo del mio naso, / niente labbra / niente didietro”), ma poi constata che “non c’è futuro / in quei vestiti” e allora “me li tolgo e / mi sveglio / ballando”). Dalle tematiche razziali al dramma dell’aids. Mark Doty racconta così, con dolcezza e lucidità, la scomparsa del compagno: “Io che sto sostenendo Wally, che se ne sta andando. / Dove non è la domanda, / anche se pensiamo che lo sia, / non sappiamo neanche dove siano i viventi, / in questo confuso ‘qui’ che si dipana”.
L’amore omosessuale è raccontato anche dalla poetessa Olga Broumas, che riscrive con originalità e ironia le fiabe della tradizione classica. Particolarmente efficace il suo racconto del risveglio della bella addormentata: “Centro della città, in mezzo / al traffico: io / mi sveglio al tuo pubblico bacio. Il tuo nome / è Judith, il tuo bacio un segnale / per i pedoni sconvolti, raccolti / sotto la luce che vuol dire / stop / nella nostra cultura”. Direttamente dalla strada, dalle rime e dai calembour dei rapper, arrivano i versi, implacabili e vagamente ispirati alla tradizione simbolista, di Willie Perdomo: “Un giorno / sulla 123esima strada / va un po’ / in questo / modo: / Pallottole di automatica / rimbalzano sui gradini della veranda / E’ tempo di pagare / tutti i miei debiti / Le campane della chiesa rintoccano per / gli accompagnatori ubriachi del funerale”.
Un Paese complesso, dunque, quello che emerge dalle poesie dell’antologia, carico di ansie e paure, ma anche sempre alla ricerca di barlumi di speranza e capace, ancora una volta, di ironia. Che negli Stati Uniti del dopo 11 settembre è già una cosa non da poco. Così come non va trascurata la forza che la poesia continua ad esercitare, anche nel mondo digitalizzato e sempre più banale in cui ci troviamo a vivere ogni giorno.
09 giugno 2006
Filosofia ribelle
“La società occidentale non è barbara o più barbara di altre ma oggi è piena zeppa di ‘barbari’, di uomini e donne che fan parte di quella vastissima e cupa compagnia cantante la superiorità della nostra cultura e del nostro modello di sviluppo, gente con la verità in tasca che crede seriamente e fermamente che il proprio punto di vista sia l’unico possibile, valido e accettabile e non è in grado di comprendere e nemmeno di concepire tutto ciò che è altro da sé”. Massimo Fini è straordinario. Giornalista, scrittore, polemista di lungo corso e ora anche attore, Fini non usa mezzi termini per esprimere le proprie convinzioni e anche in questo caso, parlando di “relativismo culturale”, attacca frontalmente la nostra società e i suoi epigoni in un dizionario filosofico che raccoglie una summa della sua visione del mondo. “Il ribelle”, questo il titolo della sua ultima fatica edita da Marsilio, è un saggio articolato per voci che rappresenta un fortissimo antidoto al “pensiero unico” ed è un volume con cui è salutare confrontarsi. Anche per chi, a differenza di chi scrive, non stravede per l’ottimo Massimo.
“In questo libro – spiega Fini nella prefazione – ho cercato di condensare il pensiero che sono venuto elaborando nei miei libri e in centinaia, forse migliaia, di articoli”. Un pensiero che, nonostante la forma di dizionario, si muove lungo linee giuda molto chiare: la critica dell’Illuminismo e del concetto di modernità; la sfiducia totale verso il sistema della democrazia occidentale; la strenua difesa del concetto di relativismo culturale, cui è dedicata la prima voce del suo dizionario, fuori dalla distribuzione alfabetica; l’ammirazione per i sistemi primitivi e per il “medioevo sostenibile” del mullah Omar; la critica, durissima, alla globalizzazione.
Isolato, eretico, “ribelle, in una certa misura, anche a se stesso”, Massimo Fini sostiene che “non esistono sistemi morali, né religiosi, né principi universali. [...] Anche il relativista ha le sue preferenze, ma è consapevole che sono semplicemente sue, non una verità oggettiva valida anche per altri, o addirittura per tutti”. E la responsabilità del singolo, in questa prospettiva, diventa addirittura titanica: crearsi una tavola di valori autonoma che lo rende “individualmente e totalmente responsabile dei propri atti e se ne assume tutte le responsabilità davanti alla comunità in cui vive, senza esitazioni, senza piagnucolamenti, senza autocommiserazioni e autogiustificazioni”.
Sfogliando il dizionario si incontrano spunti straordinari, che spaziano un po’ in tutti i campi del sapere. Prendendo qualche voce a caso possiamo citare “antropomorfismo” (“Che Dio, questo Essere perfettissimo, abbia creato l’uomo a su immagine e somiglianza è un’idea assai bizzarra e vagamente blasfema”) o “consenso” (“Pirrone, filosofo scettico, una volta che la folla lo applaudiva mormorò: Che abbia detto qualche sciocchezza?”). O ancora “ong” (“Sono più pericolose degli ogm”) o “Bush, George W.” (“Non è necessario vestire una scimmia, per vedere una scimmia vestita”). In tempi di omologazione televisiva – su standard pietosamente bassi – certe letture provocatorie sono una vera boccata d’aria fresca.
Il cuore del ricchissimo libro di Fini si trova probabilmente nella lettera “D”, dove confluiscono le voci “democrazia”, “destra/sinistra”, “dignità” e “donne”. A proposito del nostro sistema politico si può leggere: “La ‘democrazia reale’, quella che concretamente viviamo, è una parodia, una finzione, un imbroglio, una truffa. [...] Le democrazie sono quindi delle aristocrazie mascherate”. Per Fini “Destra e Sinistra non sono più in grado di comprendere una realtà che le ha scavalcate” anche perché – secondo lo scrittore – liberalismo e marxismo sono comunque due facce dello stesso “pensiero unico”. A proposito della dignità se ne piange la scomparsa, mentre sui diritti delle donne il buon Massimo, da estimatore del mullah Omar, va abbastanza controcorrente. Si può dissentire, e su quest’ultimo punto Kilgore lo fa, ma lo ribadiamo: Fini, come Stirner, è Unico.
“In questo libro – spiega Fini nella prefazione – ho cercato di condensare il pensiero che sono venuto elaborando nei miei libri e in centinaia, forse migliaia, di articoli”. Un pensiero che, nonostante la forma di dizionario, si muove lungo linee giuda molto chiare: la critica dell’Illuminismo e del concetto di modernità; la sfiducia totale verso il sistema della democrazia occidentale; la strenua difesa del concetto di relativismo culturale, cui è dedicata la prima voce del suo dizionario, fuori dalla distribuzione alfabetica; l’ammirazione per i sistemi primitivi e per il “medioevo sostenibile” del mullah Omar; la critica, durissima, alla globalizzazione.
Isolato, eretico, “ribelle, in una certa misura, anche a se stesso”, Massimo Fini sostiene che “non esistono sistemi morali, né religiosi, né principi universali. [...] Anche il relativista ha le sue preferenze, ma è consapevole che sono semplicemente sue, non una verità oggettiva valida anche per altri, o addirittura per tutti”. E la responsabilità del singolo, in questa prospettiva, diventa addirittura titanica: crearsi una tavola di valori autonoma che lo rende “individualmente e totalmente responsabile dei propri atti e se ne assume tutte le responsabilità davanti alla comunità in cui vive, senza esitazioni, senza piagnucolamenti, senza autocommiserazioni e autogiustificazioni”.
Sfogliando il dizionario si incontrano spunti straordinari, che spaziano un po’ in tutti i campi del sapere. Prendendo qualche voce a caso possiamo citare “antropomorfismo” (“Che Dio, questo Essere perfettissimo, abbia creato l’uomo a su immagine e somiglianza è un’idea assai bizzarra e vagamente blasfema”) o “consenso” (“Pirrone, filosofo scettico, una volta che la folla lo applaudiva mormorò: Che abbia detto qualche sciocchezza?”). O ancora “ong” (“Sono più pericolose degli ogm”) o “Bush, George W.” (“Non è necessario vestire una scimmia, per vedere una scimmia vestita”). In tempi di omologazione televisiva – su standard pietosamente bassi – certe letture provocatorie sono una vera boccata d’aria fresca.
Il cuore del ricchissimo libro di Fini si trova probabilmente nella lettera “D”, dove confluiscono le voci “democrazia”, “destra/sinistra”, “dignità” e “donne”. A proposito del nostro sistema politico si può leggere: “La ‘democrazia reale’, quella che concretamente viviamo, è una parodia, una finzione, un imbroglio, una truffa. [...] Le democrazie sono quindi delle aristocrazie mascherate”. Per Fini “Destra e Sinistra non sono più in grado di comprendere una realtà che le ha scavalcate” anche perché – secondo lo scrittore – liberalismo e marxismo sono comunque due facce dello stesso “pensiero unico”. A proposito della dignità se ne piange la scomparsa, mentre sui diritti delle donne il buon Massimo, da estimatore del mullah Omar, va abbastanza controcorrente. Si può dissentire, e su quest’ultimo punto Kilgore lo fa, ma lo ribadiamo: Fini, come Stirner, è Unico.
07 giugno 2006
La letteratura inglese, alla Borges
Nel 1966 un professore pressoché cieco tenne un corso completo di lezioni sulla letteratura inglese all’Università di Buenos Aires. L’insegnante, che quasi come Omero declamava a memoria un gran numero di versi e citazioni, era Jorge Luis Borges, oggi riconosciuto come una dei più grandi scrittori di tutto il Novecento. Quelle lezioni, che spaziano dalle origini della lingua inglese al tardo romanticismo, furono registrate e quindi trascritte dagli studenti e ora sono diventate un libro, curato da Martìn Arias e Martìn Hadis ed edito in Italia da Einaudi: “La biblioteca inglese”.
“Quel che Borges professore pretende – spiega Arias nell’introduzione – più che far progredire gli studenti, è suscitare il loro entusiasmo e condurli alla lettura delle opere e alla scoperta degli scrittori”. Si capisce dunque che le lezioni presentate, lungi dall’essere una fredda analisi storico-tematica, si presentano, proprio come molte delle opere narrative di Borges, come un viaggio affascinante e ricco di richiami alla letteratura universale.
Le 25 legioni tenute dal grande scrittore argentino toccano i temi più svariati, e sono sempre animate da passione e capacità di offrire letture originali dei testi. A proposito del poema epico medievale “Beowulf”, Borges ne mette in luce l’attenzione per “l’ospitalità, la cortesia, i regali, i giullari: insomma, quello che attualmente chiameremmo la vita sociale”. Parlando di Samuel Johnson, e del suo carattere non facile, Borges sfodera anche la propria proverbiale ironia: “Per un certo periodo fu interessato al tema dei fantasmi. E ne fu interessato a tal punto che trascorse alcune notti in una casa deserta per riuscire a incontrarne qualcuno. Sembra che non vi riuscì”.
Straordinarie, poi, le pagine dedicate a Samuel Taylor Coleridge e al sogno che gli ispirò i versi del poema “Kubla Khan”. Dopo aver ricevuto in sogno un intero poema, racconta Borges agli studenti che immaginiamo rapiti, Coleridge si accinse a trascriverlo: “Scrisse una settantina di versi, e giunto a quel punto ricevette la visita di un signore della vicina fattoria di Porlock. [...] La visita durò un paio d’ore, e quando Coleridge riuscì finalmente a liberarsi di lui e cercò di riprendere la scrittura del poema che il sogno gli aveva dato, si rese conto di averlo dimenticato”. E così l’opera rimase incompleta. Ma non saremmo al cospetto di Borges se la storia non avesse un seguito: e infatti lo scrittore argentino ci racconta anche che parecchi anni dopo la morte di Coleridge venne pubblicato il libro di uno storiografo persiano – che il poeta inglese non poteva avere letto – nel quale era scritto che “l’imperatore Kublai Khan aveva costruito un palazzo e che lo aveva fatto erigere secondo un progetto che gli era rivelato in sogno”.
Al termine dell’itinerario inglese di Borges un ultimo consiglio agli studenti, che ci dà la cifra dell’insegnante: “Se un libro vi annoia – scrive – abbandonatelo; non leggete un libro perché è famoso, non leggete un libro perché è moderno, non leggete un libro perché è antico. Se per voi un libro è noioso, lasciatelo, anche se si tratta del ‘Paradiso perduto’ o del ‘Chisciotte’ – che per me non sono noiosi. Ma se per voi un libro è noioso, non leggetelo; significa che quel libro non è stato scritto per voi”. La conclusione possibile è una sola: Borges, anche in questa veste inedita di vate-docente, fa bene alla nostra vita. (l.me.)
“Quel che Borges professore pretende – spiega Arias nell’introduzione – più che far progredire gli studenti, è suscitare il loro entusiasmo e condurli alla lettura delle opere e alla scoperta degli scrittori”. Si capisce dunque che le lezioni presentate, lungi dall’essere una fredda analisi storico-tematica, si presentano, proprio come molte delle opere narrative di Borges, come un viaggio affascinante e ricco di richiami alla letteratura universale.
Le 25 legioni tenute dal grande scrittore argentino toccano i temi più svariati, e sono sempre animate da passione e capacità di offrire letture originali dei testi. A proposito del poema epico medievale “Beowulf”, Borges ne mette in luce l’attenzione per “l’ospitalità, la cortesia, i regali, i giullari: insomma, quello che attualmente chiameremmo la vita sociale”. Parlando di Samuel Johnson, e del suo carattere non facile, Borges sfodera anche la propria proverbiale ironia: “Per un certo periodo fu interessato al tema dei fantasmi. E ne fu interessato a tal punto che trascorse alcune notti in una casa deserta per riuscire a incontrarne qualcuno. Sembra che non vi riuscì”.
Straordinarie, poi, le pagine dedicate a Samuel Taylor Coleridge e al sogno che gli ispirò i versi del poema “Kubla Khan”. Dopo aver ricevuto in sogno un intero poema, racconta Borges agli studenti che immaginiamo rapiti, Coleridge si accinse a trascriverlo: “Scrisse una settantina di versi, e giunto a quel punto ricevette la visita di un signore della vicina fattoria di Porlock. [...] La visita durò un paio d’ore, e quando Coleridge riuscì finalmente a liberarsi di lui e cercò di riprendere la scrittura del poema che il sogno gli aveva dato, si rese conto di averlo dimenticato”. E così l’opera rimase incompleta. Ma non saremmo al cospetto di Borges se la storia non avesse un seguito: e infatti lo scrittore argentino ci racconta anche che parecchi anni dopo la morte di Coleridge venne pubblicato il libro di uno storiografo persiano – che il poeta inglese non poteva avere letto – nel quale era scritto che “l’imperatore Kublai Khan aveva costruito un palazzo e che lo aveva fatto erigere secondo un progetto che gli era rivelato in sogno”.
Al termine dell’itinerario inglese di Borges un ultimo consiglio agli studenti, che ci dà la cifra dell’insegnante: “Se un libro vi annoia – scrive – abbandonatelo; non leggete un libro perché è famoso, non leggete un libro perché è moderno, non leggete un libro perché è antico. Se per voi un libro è noioso, lasciatelo, anche se si tratta del ‘Paradiso perduto’ o del ‘Chisciotte’ – che per me non sono noiosi. Ma se per voi un libro è noioso, non leggetelo; significa che quel libro non è stato scritto per voi”. La conclusione possibile è una sola: Borges, anche in questa veste inedita di vate-docente, fa bene alla nostra vita. (l.me.)
Kilgore Trout is alive
Un blog per parlare di letteratura, cinema, arte, fotografia. Nel segno di Kilgore Trout, l'autore di fantascienza più bistrattatto del mondo, e della sua inesausta dedizione alla letteratura. Come Trout anche noi vaghiamo in un mondo popolato di alieni di tutti i tipi (dai tronisti ai personal trainer, dagli analisti di mercato ai Jonathan del Grande Fratello) dai quali abbiamo poche armi per difenderci, una delle quali è la cultura. Che inevitabilente sfuma nel Pop e nel Postmoderno, ma che, perlomeno, lo fa consapevolmente.
Libri, film, mostre, incontri con autori... Kilgore Magazine cercherà di occuparsi di tutto questo da un punto di vista inevitabimente e orgogliosamente parziale, come è nello spirito dissacratore del nume a cui ci ispiriamo. Lunga vita dunque a Trout, ai suoi romanzi di serie B, alle sue prediche moralistiche, alla sua invocazione all'Autore: "Fammi giovane". Convinti come siamo che la giovinezza sia una questione (anche) di testa, cercheremo di trattare di argomenti che siano un'efficace palestra per i pochi neuroni sopravvissuti all'assalto dei grandi Banalizzatori mediatici. E che Kilgore ce la mandi buona.
Libri, film, mostre, incontri con autori... Kilgore Magazine cercherà di occuparsi di tutto questo da un punto di vista inevitabimente e orgogliosamente parziale, come è nello spirito dissacratore del nume a cui ci ispiriamo. Lunga vita dunque a Trout, ai suoi romanzi di serie B, alle sue prediche moralistiche, alla sua invocazione all'Autore: "Fammi giovane". Convinti come siamo che la giovinezza sia una questione (anche) di testa, cercheremo di trattare di argomenti che siano un'efficace palestra per i pochi neuroni sopravvissuti all'assalto dei grandi Banalizzatori mediatici. E che Kilgore ce la mandi buona.
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