“Lo scontro delle civiltà non esiste, semplicemente perché le civiltà sono fluide, in movimento e si intersecano continuamente. Il problema è l’ignoranza verso l’altro, la poca volontà di capire chi è diverso da noi. Perché provare a comprendere gli altri è già una forma di accettazione e c’è poca volontà di fare questo”. Incontro Tahar Ben Jelloun all’hotel Principe di Savoia di Milano, in una sala arredata con un gusto vagamente orientale. Lo scrittore marocchino, molto apprezzato nel nostro Paese, indossa un’elegante camicia colorata ed emana un tenue ma gradevole profumo d’incenso. E’ in Italia per presentare il suo ultimo libro -“Non capisco il mondo arabo”, editore Bompiani, in uscita il 21 giugno – nel quale ricostruisce la corrispondenza tra sua figlia Mérième e un’immaginaria ragazza italiana, Lidia. Le due giovani si confrontano su molti temi, dall’amore alla laicità, dai diritti delle donne al terrorismo. “Nel libro – mi ha spiegato lo scrittore in un francese molto comprensibile – ho cercato di entrare nella testa dei giovani, che sono preoccupati per un mondo che produce angoscia, paura, nel quale c’è troppa violenza e ingiustizia”.
Cuore del libro è il dialogo tra le culture, con le difficoltà che questo comporta e i limiti d’approccio con cui si deve fare i conti. “Gli occidentali – ha detto Ben Jelloun – vogliono riformare l’Islam, ma non si può riformare una religione rivelata, si dovrebbe invece riformare la mentalità delle persone. Perché il Corano non prescrive il terrorismo o l’oppressione delle donne, ma sono gli interpreti a voler fare passare queste idee. E sulla società civile è possibile intervenire per spingere le persone a essere migliori”. In questo senso lo scrittore di Fes sottolinea il ruolo centrale delle donne per il cambiamento: “In tutto il mondo islamico sono le donne a portare avanti le innovazioni. In Iran si sono battute contro l’oscurantismo, in Marocco per il nuovo Codice della famiglia”. Un’opinione che Kilgore sottoscrive in toto.
Il libro tocca molti argomenti d’attualità e Ben Jelloun parla anche del conflitto israelo-palestinese: “Il problema dei palestinesi non ha niente a che vedere con l’Islam, è un problema politico, nazionale, di occupazione di un territori, di coesistenza tra due Stati, ma non è un problema religioso. Nella resistenza palestinese – mi ha spiegato lo scrittore – ci sono i laici di Fatah, l’estrema sinistra guidata da un cristiano e poi ci sono gli islamici di Hamas. La vittoria elettorale di un partito estremista è una notizia molto buona per Israele, che così potrà dire che tutti i palestinesi sono favorevoli al terrorismo e la situazione rimane del tutto bloccata. L’islamismo, comunque, è un elemento che entra solo ora nella questione palestinese”. Interrogato sulle possibili vie d’uscita da questo stallo, Tahar Ben Jelloun ripropone la parola dialogo: “E’ difficile trovare una soluzione, l’Europa dovrebbe obbligare Israele a negoziare con Hamas, perché comunque questo partito è un’espressione della volontà popolare”. Facile a parole, forse un po’ più complesso nei fatti.
Certo è che continuare a sottolineare parole come “dialogo”, “comprensione”, “tolleranza”, “cultura”, "diversità" è sicuramente un modo per provare a rendere il mondo un posto migliore. Che poi ci si riesca è un altro discorso, ma, come diceva Socrate, “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.
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