16 dicembre 2014

Libri dell'anno: noi diciamo Salinger, Dyer, Lagioia, Egan, Conrad...

Sono passati più di 60 anni dalla pubblicazione de Il giovane Holden e quasi cinque dalla morte del suo mitico autore, Jerome David Salinger, ma la figura dello scrittore che scelse la fuga dal successo continua ad affascinare. Tanto che la biografia Salinger di David Shields e Shane Salerno, pubblicata in Italia da Isbn, è, a nostro avviso, il libro dell'anno del 2014. 


Kilgore ne ha parlato con Massimo Coppola, direttore editoriale della casa editrice milanese: "Era un grande sovversivo a modo suo - ci ha detto a Torino - era un uomo molto sofferente, addolorato e al tempo stesso sovversivo, che ogni tanto ci fa immaginare di essere ancora tutti adolescenti, ed è una cosa che è bello provare, non troppo spesso, ma ogni tanto fa bene".

Grande eco e curiosità hanno suscitato anche le lezioni radiofoniche di Antoine Compagnon sul filosofo Montaigne, che Adelphi ha raccolto nel piccolo e ispiratore Un'estate con Montaigne, a dimostrazione del fatto che si possono toccare anche argomenti molto alti senza rinunciare alla piacevolezza e al successo. E, chi ci segue lo sa, questa cosa è molto cara al nostro magazine e, soprattutto, a BeBookers.

Venendo all'Italia, da segnalare il ritorno di un autore a noi particolarmente caro, Nicola Lagioia (la mia videointervista), che con il suo ultimo romanzo, La Ferocia (Einaudi), ha nuovamente raccontato con la sua lingua a tutto tondo il nostro Paese. "Viviamo in un mondo selvaggio in un mondo spietato e feroce - ci ha detto lo scrittore barese - ma siamo, forse non tanto per scelta o volontà, ma per grazia, capaci ogni tanto di sabotare quest'istinto. E questo è l'unico elemento di speranza in un mondo che, altrimenti, sembrerebbe non averne".


Come sempre imperdibili i libri dell'americana Jennifer Egan, il cui romanzo del 2006 La Fortezza, che Minimum Fax ha tradotto ora, è l'ennesima dimostrazione di quanto il talento della scrittrice non si faccia incasellare in definizioni semplicistiche e sappia sorpendere a ogni pagina, con un mosdo di fare quasi sfacciato (meravigliosamente sfacciato, ovvio). Stesso discorso che vale per i saggi miscellanei di Geoff Dyer la cui raccolta Il sesso nelle camere d'albergo, pubblicato da Einaudi, è un gioiello di atteggiamento e sguardo laterale. Un libro nel quale si legge una frase come "per diventare famoso devi essere il peggiore del mondo in qualcosa" va comprato, letto e amato a priori, anche senza cedere al peraltro irresistibile fascino della forma ibrida e sui generi della scrittura di Dyer.

Una citazione infine la meritano i due racconti del giovane Joseph Conrad raccolti da Matteo Codignola per Adelphi in Un avamposto del progresso, sconvolgenti e già totalmente calati nel cuore di tenebra del colonialismo europeo. E con loro due romanzi americani degli anni Settanta e Ottanta che escono finalmente anche in Italia: End Zone (Einaudi) di Don DeLillo, tra foootball e guerra nucleare, e Democracy (e/o) di Joan Didion, ancora un libro sul potere, sulla solitudine e sull'eccezionalità di alcune donne scritto da un'autrice unica.

05 novembre 2014

L'epoca blu di Milano, Yves Klein e l'infinito monocromo

C'è qualcosa di magnetico in quella sorta di piscina terrosa blu che guarda sul Duomo di Milano e che ha trasformato la Sala Fontana del Museo del 900 in uno dei più affascinanti luoghi dello spirito del contemporaneo in Italia. Il rispecchiarsi dell'opera "Pigment Pur" di Yves Klein, il gran cerimoniere del monocromo blu, nella luce - antica e modernissima - del neon di Lucio Fontana crea, o meglio, ricrea uno dei dialoghi artistici più intriganti del secolo scorso, tutto giocato sulla ricerca della purezza e della definizione dello spazio. 

Ma se le opere del maestro argentino che tagliava le tele sono abitualmente di casa a Milano, il potente ritorno di Klein e della sua inesausta energia di ricerca concettuale, sono un vero e proprio evento, piombato sulla città con la forza di un respiro internazionale. Che ha dato una tonalità blu alla scena del contemporaneo in questi mesi decisivi per l'avvicinamento a Expo, dalla quale si può partire per ricordare che Milano è già tornata a essere una capitale dell'arte, almeno a livello di esposizioni, nell'attesa che torni a essere anche quella fucina di creatività che era stata negli anni Cinquanta e Sessanta, periodo cui è dedicata la mostra di Klein e Fontana.

Giocando sul filo del colore blu, infatti, è possibile muoversi idealmente da piazza Duomo fino all'Hangar Bicocca, che ospita una grande mostra dedicata alla performer statunitense Joan Jonas, che si era mostrata all'inaugurazione proprio immersa nel blu di una sua installazione.


Ma la lezione di Klein, e le sue suggestioni, conducono poi a un altro grande milanese, quel Piero Manzoni che è stato una sorta di doppio dell'artista francese, animato dalla stessa furia creativa e, pure lui vittima di una biografia spezzata molto presto. Pochi mesi fa il tributo a Manzoni lo aveva reso Palazzo Reale, e qui il monocromo si era visto declinato in quei magnifici quadri dell'assenza che sono gli Achrome. Bianco o blu, comunque, a Milano si coglie il respiro di un'arte che ha voluto fortemente dare una nuova forma al mondo. E che oggi, nonostante siano passati alcuni decenni, mantiene viva e fremente tutta la propria intensità. Pronta a trasmettersi alla città meneghina, che appare nuovamente ricettiva.


09 agosto 2014

Poesia della Guerra nucleare, la End Zone di Don DeLillo

"Cominciò tutto con un libro, un enorme volume che parlava di un possibile conflitto nucleare. Il problema era semplice: quel libro mi piaceva. Mi piaceva leggere della morte di decine di milioni di persone. Indugiavo soprattutto sulla descrizione delle metropoli distrutte. Da cinque a venti milioni di vittime. Da cinquanta a cento milioni". La voce è quella di Gary Harkness, un giocatore di football americano del Logos College, protagonista in prima persona del romanzo End Zone di Don DeLillo, uscito negli Stati Uniti nel 1972, ma tradotto ora per la prima volta in italiano e pubblicato da Einaudi. Un libro in cui, come già accaduto con La stella di Ratner del 1973, si capisce che DeLillo in qualche modo è nato come scrittore già con una sua voce precisa, anche prima dei grandi capolavori successivi. 

Qui l'intreccio mescola il football e la guerra atomica, il gergo e la metafisica, in un modo che resta unico nel panorama della letteratura contemporanea. Così tra il nulla del college texano dove vanno in scena truculenti e cervellotici allenamento e gli scenari apocalittici possibili, e nei primi anni Settanta il pericolo era reale, ecco che DeLillo arriva al cuore del proprio lavoro. "Quello che voglio fare - ha detto lo scrittore in un incontro del 2013 organizzato dalla Library of Congress - è uscire dalla piccole strade strette del mio quartiere e trovare l'America". Un'America che, nei romanzi di DeLillo, assume spesso venature imprevedibili, misteriose e, per molti versi anche mistiche, pur nella messa in scena iperrealista che, magicamente, le contiene e le giustifica.

Nelle scene di campo, nelle geometrie belliche della corsa di un giocatore quanto nella traiettoria di un missile balistico intercontinentale, la lingua di Don DeLillo diventa strumento di ambizione assoluta, sia nel senso delle possibilità della scrittura, sia in quello di arrivare a trattare temi fondamentalmente indicibili, come la distruzione totale. Un argomento che torna periodicamente nella pagina delilliana, come nel caso dello straordinario prologo di Underworld, anche qui un prodigioso incrocio tra la cultura popolare dello sport, in questo caso il baseball, e la scrittura totale del romanziere venuto del Bronx, capace di mettere in scena tanto una partita leggendaria quanto il senso di Trionfo della morte che si viveva quotidianamente negli anni più difficili della Guerra fredda. E tornando a End Zone, in fondo, per noi è impossibile non amare alla follia un romanzo nel quale a una ragazza che chiede se può mettersi il vestito arancione per un appuntamento, l'aitante e problematico Gary risponde dicendo di sì, perché "ti fa sembrare un'esplosione nel cielo del deserto".


LA VIDEORECENSIONE

09 maggio 2014

Nessuna destinazione in vista

Accanto a Bolaño e ai suoi detective selvaggi
Il saggio apparso su Minima&Moralia


Un sentiero di terra battuta in un giorno particolarmente afoso, il cane che mi precede e le mie scarpe impolverate, orfane. La Valpadana come il deserto di Sonora. Un cielo incombente nel pieno mezzogiorno messicano e delle figure ferme nella luce, disperse appena fuori dal giardino di casa, lontano e al tempo stesso vicinissime a Macondo, ma in un'altra galassia, o in un'altra dimensione, condannata all'incomunicabilità. Uno scrittore che fuma e mi parla, protetto dalla notte e dalle piante di Villa Torlonia, mi parla per quindici lunghi minuti davanti a una telecamera, mi parla di un altro scrittore che, in qualche misura, sono stato io a fargli leggere. Una sera sulla costa della Catalogna, l'odore del mare e delle creme solari, nauseabonde e dolcissime, mentre da qualche parte suona un telefono e l'uomo seduto accanto all'apparecchio decide consapevolmente di non rispondere. Heroismo sin alegría, potrebbe dire il poeta Pablo de Rokha[1]. Alegría sin Heroismo potremmo replicare: entrambe le definizioni funzionano, quando si parla di un romanzo come I detective selvaggi di Roberto Bolaño, un libro che, ha scritto Mónica Maristain, "ha cambiato il corso della letteratura latinoamericana. E lo ha fatto senza preavviso e senza chiedere il permesso"[2]. Era il 1998, e perché il mondo se ne accorgesse c'è voluto del tempo, non troppo, ma quanto bastava per spingere Bolaño, già malato e con soli altri cinque anni da vivere, tentando di raccontare almeno un paio di universi completi (questo, e non il fegato marcio, avrebbe ucciso qualunque altro scrittore, ma il Cileno era allenato alla competizione più spinta, e aveva le sue astuzie, seppur tragiche) e di salvare la propria famiglia (i suoi due figli, "unica patria" di un apolide geniale e ostinato), a diventare una leggenda, anche per l'infelice vicenda biografica, grazie soprattutto alla venerazione alla quale è stato esposto negli Stati Uniti, fatto talmente insolito per un autore straniero da apparire sospetto, se non si parlasse di uno scrittore capace di essere contemporaneamente un vero outsider e un creatore di una nuova tipologia di segreto mainstream. Una leggenda, dicevamo, che è diventata anche fenomeno editoriale (quasi) di massa, argomento di conversazioni eleganti, un must in società. Anche. Ma che ha tuttora lo straordinario potere di farmi innamorare di due sorelle che tornano sempre uguali in molti suoi libri, solo con i nomi cambiati (e talvolta neppure troppo) e di farmi sentire a casa, felice, anche in una taverna zozza piena di brutti ceffi. O di pensare per giorni interi a un libro di geometria steso come un paio di pantaloni sotto le stelle del Messico. Lo stesso Paese dove, pochi giorni fa, è morto Gabriel García Márquez. La stessa città (il Distrito Federal) dove si muovono i poeti spacciatori Arturo Belano e Ulises Lima. E qui dovevamo arrivare. Sotto le celebri nuvole[3].

È successo che, a metà di un giorno di una primavera piemontese, mentre poco più in là il premio Nobel Dario Fo sproloquiava con mestiere sotto lo sguardo amorevole di sua moglie (uno sguardo vero, come ne ho visti pochi altri), mi sia messo a discutere di Bolaño con Jonathan Lethem. Lo cosa interessante, dal mio punto di vista, è che in breve si è fatto quasi a gara a chi mostrasse più entusiasmo per il Cileno e per il suo mondo letterario (tanto che a un certo punto qualcuno di noi, forse entrambi allo stesso tempo, abbiamo pronunciato pure le parole Mantra e Rodrigo Fresán, titolo e autore di un romanzo che non è mai stato pubblicato nelle nostre rispettive lingue e che, all'epoca per lo meno, non era neppure acquistabile in castigliano). Era un'intesa tra persone lontane, un momento da poeti realvisceralisti, infantile e inebriante nello stesso momento. Quindi per me indimenticabile, come parlare con una rockstar di un comune amico, Roberto, che in una notte di Girona di fine XX secolo ho, a posteriori, sognato di avere incrociato, senza riconoscerlo ovviamente, sotto la luce fredda dei lampioni di quella città piena di automobilisti aggressivi e momenti di clamoroso silenzio. Era lì, camminava lento, stava scrivendo i Detective, forse voleva comprarsi un panino, forse, come il protagonista del memorabile racconto Sensini[4], stava cercando una ragazza che viveva dall'altra parte del mondo ma che, di lì a non molto, avrebbe davvero suonato alla porta.
Entra, certo. Ho del caffè. Abbiamo tempo, possiamo parlare di molte cose, se ti va.

Le parole di Lethem, questa volta scritte, hanno qualcosa di acuminato quando affrontano il tema dei dubbi di Bolaño, come quello "che la vita, in tutto il suo raccapricciante splendore, possa mai localizzare la letteratura di cui ha un disperato desiderio al fine di sentirsi riconosciuta"[5]. Il congiuntivo, quel "che possa", contiene tutto il senso di una ricerca che è tanto urgente quanto provvisoria, un bisogno circolare come le rovine di Borges (che sono le nostre rovine, il nostro fuoco di ogni giorno per citare pure il "nemico"[6] don Octavio Paz), destinato a incerta e sempre parziale soddisfazione, o quantomeno a un risultato che non può che essere di un'oscurità inquietante, cosa che peraltro costituisce la sua forza (ho riassunto, ma è ancora farina del sacco di Lethem). Di qui, da questa ricerca che sembra partire dal momento in cui un uomo ha tracciato una storia sulle pareti di una caverna[7] o su una tavoletta d'argilla che adesso se ne sta vagamente trascurata - seppur altezzosa - al British Museum, si muovono anche Belano e Lima, attori e vittime di un'impresa che nasce prima di tutto sul terreno della letteratura, e poi si sposta sulla loro pelle di personaggi di fiction. Una pelle che brucia, una Pelle Divina, che è anche il nome di uno dei protagonisti dei Detective, uno dei più lontani, in un romanzo nel quale tutto sembra lontano almeno cent'anni (e sono necessariamente anni di solitudine, ma anche di pura e semplice distanza, dove la struttura narrativa è così forte e incistata da annullare ogni sovrastruttura, esaltando il vuoto e la non necessità di un percorso ideologico, pur nell'opera di un autore che era ideologico. È l'oggetto che vi pensa, ricordava Baudrillard[8], in questo caso è l'opera dello scrittore a creare lo scrittore stesso, non solo nel senso della bibliografia, ma tout court, come una metafisica creazionista dell'influenza alla Harold Bloom[9]). La ricerca della poetessa Cesárea Tinajero, la madre del realvisceralismo, quindi nell'ottica della narrazione della Madre con la emme maiuscola, è la trasposizione della localizzazione e del riconoscimento di cui scriveva Lethem. Due cose semplici, primordiali, che puntano dirette, come un mirino agli infrarossi, alla nostra attenzione. Strategie, trappolamenti, mestiere, che aprono la strada al successo internazionale di Bolaño, ma che non sono il gradiente finale della sua opera, che resta per buona parte sfuggente[10], impossibile da circoscrivere, eppure abilmente - perché anche qui entra in campo il lavoro dello scrittore - costruita da un uomo che, tra i tanti mestieri strampalati della sua vita errabonda era, in fondo, solo un grande scrittore. Il massimo della naturalezza - ha detto qualcuno capace di cogliere verità essenziali - si ottiene solo con il massimo dell'artificio. A questo punto dovreste applaudire.

Ho davanti la nuova traduzione de I detective selvaggi, che l'ispanista Ilide Carmignani ha realizzato per Adelphi. Ho davanti il volume giallo che nasconde una felicità segreta, qualcosa che assomiglia all'angolo di strada verso il quale corrono due amanti o due cospiratori alla ricerca di uno spazio privato, lontano dagli occhi della Città. Dentro c'è anche un pezzo di me, della mia esperienza di lettore, e quindi della mia autobiografia minima. E mi rendo conto che la risposta alla domanda di Novalis su dove stiamo andando[11] non è più "sempre verso casa", ma è diventata "da nessuna parte", e nessuna parte è, ovviamente, ovunque, per sempre, all'infinito. La ricorsività dell'accidentale, il punto magnetico che unisce Bolaño a David Foster Wallace, due cinquantenni mancati che hanno ritinteggiato le pareti letterarie di un piccolo appartamento, il nostro. “La pagina di entrambi – ha scritto con delicata precisione Filippo La Porta – è come incrinata da un lutto originario, da una frattura appena percettibile e non rimarginabile”[12]. "Come Wallace in Infinite Jest - aggiunge Lethem tornando a contestualizzare - Bolaño ne I detective selvaggi ha offerto un'epica autentica, immune da ogni ostentazione grazie all'ironia compassionevole, all'arguzia vernacolare e un vago defilarsi decisamente punk"[13]. Un'epica, direbbe il cileno, che sa essere ammiccante come una puttana, ma una "puttana onesta"[14]. E l'aggettivo, nel sistema valoriale che lo sostiene, fa la differenza. Con buona pace di tutto il resto, che non è per forza silenzio, ma che, di fronte alla implacabile irruenza di un romanzo monstre (che pure giganteggia in modo apparentemente noncurante, e qui sta parte del miracolo) non può che rimpicciolire sempre di più, riducendosi alle dimensioni di una micro installazione dell'artista brasiliano Cildo Meireles, Cruzeiro do Sul, che solo una luce sul pavimento[15] ci permette di distinguere e, ancora questo verbo seminale, riconoscere come opera d'arte. 

"Se ci si tira indietro di fronte al cannibalismo - scrive Walter Siti - non resta che chiedere permesso all'ovvietà[16]". Bolaño trova la via alla sua personale ferocia letteraria[17] attraverso il cruento - più che mai in 2666 - ma anche grazie alle giustapposizioni sentimentali, alle ossessioni, ai luoghi rivisitati in chiave straniante, come nel caso della tenerezza che, nei Detective, trasuda da ogni descrizione di Città del Messico, che negli anni Settanta doveva essere un posto discretamente caotico e pericoloso (nessuna ovvietà, dunque). Ecco, qui c'è Bolaño, lo scrittore coraggioso che il suo editore catalano Jorge Herralde descrive in modo contraddittoriamente perfetto quando parla del suo atteggiamento verso la salute: "Altero, caparbio, provocatorio, stoico, kamikaze e con la testa sotto la sabbia"[18]. Parole che sembrano valere anche fuori dalla sfortunata biografia clinica del cileno, e che sono anche una finestra per guardare alla sua opera letteraria, nella quale l'incertezza e la sfocatura sono elementi strutturali, ovviamente al pari della precisione e del dettaglio, che regolarmente arrivano a dissipare, almeno per un poco, la nebbia del mistero. Ne I detective selvaggi, poi, a pesare enormemente, nonché a dare al romanzo quel suo inconfondibile ritmo schizofrenico e amoroso (perché l'amore è adolescenzialmente fondamentale in ogni pagina, soprattutto in quelle in cui non se ne parla), è l'architettura complessiva della narrazione, con la struggente parte centrale nella quale si alternano decine di narratori, vero momento in cui Roberto Bolaño ribalta il tavolo del romanzo contemporaneo e costringe tutti a fare i conti con lui. Anche il tempo della narrazione diventa una sorta di personaggio e qui, sebbene sia nota (e controversa, almeno stando ad altre dichiarazioni più concilianti su García Márquez) la sentenza bolaniana sul realismo magico che "fa schifo", non si possono non notare i punti di contiguità con la lezione, se non si vuole dire proprio del Gabo ufficiale, almeno con quella per molti versi anche più incisiva, del miglior Salman Rushdie, ai tempi, per intenderci, de I figli del Mezzanotte. Con la differenza che Bolaño racconta della perdita, e non dell'invenzione, di una patria. Ma per il cileno a diventare patria, oltre ai già citati due figli, è la letteratura stessa, che gli fornisce l'opportunità di guadagnarsi da vivere - per lungo tempo in modo modesto - e di trovare una collocazione nel mondo borgesiano della Biblioteca infinita. "In un modo o nell'altro - ha detto in un'intervista a Héctor Soto e Matías Bravo - siamo tutti legati a un libro. Una biblioteca è come una metafora dell'essere umano o della parte migliore di un essere umano. Così come un campo di concentramento può essere una metafora della sua parte peggiore. La biblioteca è la generosità assoluta"[19]. La stessa che, in fondo, sostiene i suoi poeti-spacciatori Ulises e Arturo, le sorelle Maria e Angelica Fónt e perfino Quìm, il loro padre schizoide, la puttana innamorata Lupe e tutti i personaggi chiamati a testimoniare di se stessi e, forse, anche dell'impresa dei due detective sulle tracce delle proprie origini[20].
Adesso, sapendolo e sentendola sulla nostra pelle, questa generosità devastante, possiamo anche andare a ubriacarci. E il primo bicchiere, con tenerezza, sarà oggi per Roberto Bolaño, cileno disperso, a nostra immagine e somiglianza.

Leonardo Merlini




[1] Poeta cileno, al secolo Carlos Dìaz Loyola (1894-1968)
[2]L’ultima conversazione, intervista con Mónica Maristain, in Roberto Bolaño, L’ultima conversazione, Sur edizioni
[3] Messico e Nuvole, musica di Giorgio Conte e Michele Virano, testi di Vito Pallavicini. Molti interpreti, ricordo Paolo Conte e Jannacci
[4] In Roberto Bolaño, Chiamate telefoniche, Adelphi
[5] In Jonathan Lethem, L’estasi dell’influenza, Bompiani
[6] Nemico per i poeti realvisceralisti del romanzo, Bolaño, per se stesso, rifiuta la dicitura
[7] Devo questa frase a Tullio Pericoli, che la usava per descrivere la nascita della prima Linea, la cui storia è ora contenuta, secondo l’artista, in tutte quelle venute dopo di lei
[8] Jean Baudrillard, E’ l’oggetto che vi pensa, Pagine d’Arte
[9] Il critico statunitense ha pubblicato due celebri testi sull’argomento: L’angoscia dell’influenza e, successivamente, Anatomia dell’influenza. Utilissimo, per comprendere la postura di Bloom, il saggio di Jorge Luis Borges Kafka e i sui precursori, pubblicato in Altre inquisizioni.
[10] Come scrive David Shields, la letteratura è uno specchio che riflette una immagine che è la nostra, ma al tempo stesso non lo è. Cfr. David Shields, How Literature Saved my Life, Knopf
[11] Cfr. Enrico di Ofterdingen, devo la citazione a Claudio Magris e al suo memorabile Itaca e oltre
[12] Filippo La Porta, Meno letteratura, per favore!, Bollati Boringhieri
[13] In Jonathan Lethem, L’estasi dell’influenza, Bompiani
[14] L’ultima conversazione, intervista con Mónica Maristain, in Roberto Bolaño, L’ultima conversazione, Sur edizioni
[15] Per lo meno questo accade nella mostra Cildo Meireles - Installations all’Hangar Bicocca di Milano
[16] Walter Siti, Exit Strategy, Rizzoli
[17] Sul tema chiave della ferocia letteraria cfr. Jonathan Franzen, Più lontano ancora, Einaudi
[18] In Adelphiana 1963-2013
[19] La letteratura non è fatta solo di parole, intervista con Héctor Soto e Matías Bravo, in Roberto Bolaño, L’ultima conversazione, Sur edizioni
[20] Origini che, nel piano rizomatico dell’opera di Bolaño, naturalmente si chiariranno – sempre in forma ipotetica, sia chiaro – in un altro libro, perché tutto è connesso e, in fondo, si scrive sempre lo stesso libro

18 aprile 2014

Uno scrittore nel suo Labirinto e il peso di un'epopea

Per Gabriel García Márquez,
un grande amore giovanile poi riconsiderato

Considerate il film. L'ambiente è subito riconoscibile, un Sudamerica immaginario, al tempo stesso immobile e vorticoso, inchiodato a un destino di morte annunciata. Di cui si poteva solo provare a fare una cronaca. Forse il modo migliore per salutare Gabriel García Márquez, lo scrittore colombiano morto a 87 anni a Città del Messico, è quello di pensarlo come un cronista, felice e sconosciuto direbbe lui, di storie che andavano raccontate. E così anche il peso (a un certo punto probabilmente insostenibile) di un'epopea divenuta iconica, come quella della famiglia Buendia in Cent'anni di solitudine, che, con la sua forza e il suo successo - che ne hanno fatto un precursore dei global novel del tempo delle profezie realizzate di Marshall McLuhan - avrebbe potuto schiacciare qualunque autore, è stato vissuto dal romanziere con quel misto di leggerezza (anche qui chissà se insostenibile) e rassegnazione, come un generale che sa di essersi perso nel suo stesso labirinto.


Nel 1982 il premio Nobel e la consacrazione di un'etichetta come quella di padre del Realismo magico: ma anche in quell'occasione il tenace Gabo, ostinatamente politico e memorabile nelle liti con il liberale Mario Vargas Llosa, la prese con un salutare distacco. "Il Premio Nobel - disse all'epoca - è qualcosa che è successo alla Colombia, al Sudamerica, al mondo. Ma qui, in questa casa, noi siamo sempre gli stessi". Il paese di Macondo, patria e condanna dei Buendia, è diventato con gli anni uno dei luoghi simbolo della letteratura contemporanea, ma forse, accanto all'epopea secolare e all'amore in tempi difficili, il meglio di Gabriel García Márquez restano le opere più compatte, come i suoi articoli o i saggi (come l’indimenticabile Il fantasma del Nobel) e, nel solco della storia del suo continente, il piccolo, insuperabile, Nessuno scrive al colonnello. Nell'autunno di un grande patriarca della scrittura, triste come le sue gaudenti puttane, potrebbe essere questa la stella polare cui tornare a guardare, per imparare come si racconta.

06 aprile 2014

Amore disperato ovvero Kurt Cobain dopo 20 anni

Un corvo mangia qualcosa di insanguinato nel mezzo di una mattina ventosa di primavera nel parco di Russell Square a Londra. Il cielo sopra Seattle, obliquo e incupito come sempre. Un ragazzo, un vagabondo, sulla riva di un fiume che tenta di pescare in maniere grottesche. La notte, da quella zona, arrivano delle urla indefinibili. Una fila di persone in coda per il concerto, come se gliene importasse davvero qualcosa. Qualcuno che gli diceva Tu sei un simbolo, sei una cosa loro, adesso. E allora rispondere: "È sempre così. C'è sempre qualcuno che si aspetta qualcosa da te, nel senso che si aspetta tu faccia qualcosa. È una specie di regola del cazzo ed è uno dei motivi per cui il mondo è uno schifo[1]". Tutto questo, realtà e fiction, ricordi personali e storie immaginarie, canzoni, odori, impressioni. Tutto quello che non è mai stato. E poi un garage, sempre un garage, un fottutissimo garage del cazzo. Amen. Tutto finito. Vent'anni fa. Come se niente fosse. E anche io me lo ricordo quel pomeriggio triste, sul ciglio di una strada a contemplare l'America. Si presentarono i miei 40 anni, e un contratto col nulla. E ovviamente firmai, col mio nome firmai[2]

Come si fa a scrivere un pezzo sul l'anniversario del suicidio di Kurt Cobain? Si dovrebbero passare due settimane ascoltando ininterrottamente la musica dei Nirvana, riguardando i video e le registrazioni live, traducendo i testi e spulciando le molte interviste, coeve o postume, ai componenti della band. Si dovrebbe sapere molto della storia del rock e delle sue vedette maledette. Il Club delle rockstar morte a 27 anni[3] e le loro storie eccessive. Magari si dovrebbe anche possedere una chitarra, o per lo meno andare a pranzo, di tanto in tanto, con un amico[4] che sa tutto di Mark Knopfler. Chissà. Io, personalmente, ho scelto di aggrapparmi a quel poco che so, a quel terreno che ancora codifico, ingenuamente, come "casa". Ho scelto di citare T.S. Eliot e il suo celeberrimo incipit: "Aprile è il più crudele dei mesi"[5], compiaciuto del fatto che anche l'immagine seguente del poeta, con le ossa che in primavera tornano a spuntare dal terreno, avesse una sua coerenza intrinseca. Ho scelto di puntare tutto su Tommaso Pincio e sul suo struggente Un amore dell'altro mondo, romanzo che ha Cobain presente in duplice veste, come personaggio e come spirito di fondo del libro. Un Kurt ragazzo che dice al suo amico immaginario: "Anch'io sono stato un alieno da bambino. Ero convinto che mio padre e mia madre non fossero i miei veri genitori. Mi ero messo in testa di venire da un altro pianeta. Volevo venire da un altro mondo. Con tutta l'anima. Di notte mi affacciavo alla finestra e mi mettevo a parlare con i miei veri genitori. La mia famiglia in cielo. La vera famiglia". Ho scelto di immaginarmi i cambi di ritmo di Heart-Shaped Box e la loro ricorsività finta, i cambiamenti disturbanti tra una strofa e l'altra, le angosce segrete degli strumenti musicali che dovevano seguire il flusso di coscienza sonoro di Cobain. Ho scelto di raccontare di come una sera, al termine di uno spettacolo che al pubblico sembrava essere piaciuto molto, sono andato in un bar di provincia da solo ad annegare nella birra i troppi complimenti e le manifestazioni di affetto ricevute. Perché erano quello che avevo sempre desiderato, e quello che avevo sempre desiderato si rivelava in realtà anche assurdo e grottesco. Ridicule. Se queste sono le premesse - ovviamente mie e arbitrarie - mi chiedo che razza di inferno debba essere fare sul serio la rockstar. Roba da suicidio.

In fondo l'ambivalenza di tutte le situazioni, lungi dall'essere una scoperta epocale, sia ben chiaro, sembra però una delle possibili cifre della storia dei Nirvana e del loro tormentato frontman, che indossava la nota T-shirt con scritto I hate Myself and I want to Die, ma che, a chi glielo chiedeva, e pare fossero in tanti, rispondeva sempre che era uno scherzo, uno stupido scherzo. Anche pochi giorni prima di spararsi in testa con il fucile, con tanta violenza, raccontano le cronache spietate, da non lasciare elementi per avere la certezza, a vista, che quel corpo ritrovato senza vita fosse proprio quello di Cobain. E poi il biglietto d'addio che diceva due volte I Love You. E ancora, nelle sue canzoni, la coesistenza delle nuove rimostranze da gridare a gran voce (I've got a new complaint) prima però di ripiegare sul disagio intimo e universale (All alone is all we are). Persino la data di morte è ambivalente in Kurt Cobain: per il mondo vale l'8 aprile 1994, quando si aprirono le porte del garage e la notizia fece in poche ore il giro dei cinque continenti. Ma per i medici legali il decesso è datato 5 aprile, però nessuno ne ha la certezza (neppure l'implacabile Wikipedia) e i fan, in fondo, non hanno un vero e proprio anniversario da ricordare (o forse ne hanno due, cosa che, al tempo stesso - altra ambivalenza - amplifica il dolore, ma pure offre doppio spazio alle celebrazioni più morbose...). Tutto insomma è nebbioso intorno a Kurt, perfino il successo. I'm not there, dicevano di Bob Dylan.

Il successo, per l'appunto. Per i Nirvana ha un nome: Nevermind, 1991. Il botto planetario, l'invenzione di un etichetta, che aveva anche la devastante presunzione di raccontare un modo di essere: il Grunge. Incasellare, definire, normalizzare. Questo desidera sempre fare l'Idra della divulgazione mediatica, abbattere la complicazione e lasciare che tutto continui a scorrere tranquillo e rassicurante, pur con le necessarie (obbligatorie perfino, quindi normate pure queste) trasgressioni. "Lo spettacolo - scriveva Guy Debord - è il cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva se non il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno[6]". E il flusso dei dormienti - e qui mi viene in mente un altro romanzo che forse non è stato capito, Manuale di investigazione di Jedediah Berry - arriva a osannare Nevermind e a fare dei Nirvana facce perfette per il marketing globale. Il successo e il suo prezzo. La consacrazione e l'espiazione[7]. Un'operazione quest'ultima che dura due anni e porta a In Utero, il terzo e ultimo album della band. "Si può parlarne - ha detto Grohl a Rolling Stone nel 2013 - come di un risultato magnifico, oppure come di un momento davvero di merda". Ancora Debord: "Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all'occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede più che quello[8]". Per i Nirvana, Nevermind era diventato merce, e In Utero doveva essere la risposta, situazionista se volete, alle loro angosce per quanto era accaduto e continuava ad accadere. "Volevamo tornare a essere la band che eravamo, quella che ci era stata portata via dal successo di Nevermind[9], ha chiosato Dave Grohl, e per farlo si sono affidati a Cobain, ai suoi testi disperati, al suo amore e odio (ambivalenza) per se stesso e per gli altri. Krist Novoselic, il terzo Nirvana, l'amico e il simbiotico di Kurt, ha colto il problema, dopo il suicidio del leader, raccontando di come amasse Cobain e di come odiasse chi lo aveva ucciso. Ma in questo caso - e la dinamica si ripete identica nell'amicizia tra Franzen e Foster Wallace - la vittima e l'assassino erano la stessa persona.
E allora che cazzo si fa?



[1] Tommaso Pincio, Un amore dell’altro mondo
[2] Grazie a Francesco De Gregori e alla sua Buffalo Bill
[3] Che nel Sistema dell'arte, dove al successo si tende ad arrivare più tardi, diventa il Club dei 37, che annovera gente del calibro di Raffaello e Parmigianino, come ha raccontato Flavio Caroli nel suo Trentasette
[4] Io ce l’ho
[5] Thomas Stearns Eliot, La terra desolata
[6] Guy Debord, La società dello spettacolo
[7] Ringrazio ovviamente Ian McEwan, ma soprattutto il mio amico V., teorico dell’argomento espiazione
[8] Guy Debord, La società dello spettacolo
[9] Anche questa frase è tratta da un pezzo di Rolling Stone. Quello che mi colpisce di più, però, è ripensare alla copertina di Nevermind, il bambino nudo che nuota inseguendo a una banconota. E’ chiaro che erano consapevoli di quanto stava accadendo, non può essere solo una epifania a posteriori. Era business…


Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

28 febbraio 2014

Jonathan Littell, un testimone davanti a Bacon

Francis Bacon è uno dei pittori contemporanei più citati e riconoscibili, ma a ben guardare le sue opere, figurative per certi versi in modo molto più classico di quanto sia comunemente percepito, restano degli enigmi più vasti e celano, oltre all’evidente senso di angoscia e di carne, una storia più profonda, che attinge a piene mani alla tradizione e che si può riassumere con una sola parola, spesso usata da Bacon per titolare i propri quadri: pittura. Di questo parla Trittico, la raccolta di tre studi (si noti l’osservanza baconiana di titolo e sottotitolo), firmata da Jonathan Littell, lo scrittore newyorkese divenuto celebre in tutto il mondo per il romanzo sull’Olocausto “Le benevole”. Pubblicato in Italia da Einaudi, in una versione sovradimensionata della collana Frontiere, il libro è la storia di uno sguardo, freddo ma comunque empatico, sul lavoro di Bacon, che parte dall’opera che ha dato il via alla carriera del pittore – i Tre studi di figure ai piedi di una crocifissione del 1944, trittico che ha conquistato un posto indelebile nella storia dell’arte contemporanea anche se, con il passare degli anni, la sua forza sconvolgente si è in parte perduta – e arriva all’unico possibile punto d’approdo: la creazione di una “grande figura”. Parola che è la radice del termine “figurativo” e che Littell ha il coraggio di associare – in termini ben motivati ma comunque piuttosto arditi - anche alla ricerca di un mostro sacro dell’Action Painting come Mark Rothko. Pittore che Bacon ufficialmente detestava, ma di cui, nota l’occhio dello scrittore, spesso si ritrova una potente eco negli sfondi bicromi dei dipinti dell’irlandese.

Littell, che scrive anche pagine splendide su Las Meninas di Velasquez, racconta Bacon da un punto di vista che resta quello di uno scrittore, e in più di un caso le analisi sulle “motivazioni” del pittore sembrano essere quasi delle confessioni autobiografiche, che qualcuno potrebbe anche considerare non particolarmente originali (e per questo, probabilmente, dotate di una discreta percentuale di verità). “Per lui – scrive Littell – la pittura non era una protesta contro qualcosa, ma un modo per affrontare la giornata, il modo migliore e più affascinante che ci fosse, ed era anche un modo, più segreto, nonostante venisse poi esposto alla vista di tutti, per sbarazzarsi dei propri fantasmi più intimi”. Chiarissimo, e viene in mente un altro grande irlandese dallo sguardo severo, Samuel Beckett. Più intrigante Littel lo diventa però quando si concentra sul senso ultimo dell’opera di Bacon: “La figura è l’oggetto dipinto nel quadro; il soggetto, come in tutta la pittura, e non solo in quella astratta, è la figura in sé”. Il nuomeno pittorico dunque, che fa da sfondo – si dovrebbe dire da ombra se pensassimo in termini di ortodossia baconiana, quelle splendide e spaventose ombre che sgorgano o, meglio, sfuggono dai personaggi dipinti – alla manifestazione di ciò che per Littell è in fondo il modo in cui pensa la pittura. Difficile immaginare un compito più ambizioso e straziante.


Alcuni appassionati e qualificati osservatori di Francis Bacon hanno visto nel saggio di Littell poca attenzione alla dimensione più carnale – nel senso letterale dell’aggettivo riferito alla carne – del lavoro del pittore. Ma Littell, e la sua bibliografia lo conferma, somiglia a quel “testimone indifferente” che lo scrittore identifica come figura ricorrente nelle opere di Bacon, e come tale mantiene un distacco sebbene, a differenza del personaggio, non distoglie lo sguardo e anzi lo esaspera chirurgicamente davanti ai dipinti. In fondo è solo un altro modo di essere appassionati. E non solo i dipinti, ottimamente riprodotti a colori in grande quantità nel libro, sono passati sotto la lente di Littell, ma anche molte fotografie: su tutte quella che ritrae un giovane Bacon dandy insieme al suo compagno George Dyer a Soho nel 1964. L’analisi dello scrittore è magistrale, ma quello che più conta è la testimonianza di un amore che, in ultima analisi, sembrava da sempre destinato a una fine tragica e alla conseguente ossessione di Bacon. “E’ stata l’incapacità da parte di Dyer – scrive Littell in un passaggio chiave – di imporsi allo sguardo di Bacon come individuo da amare anziché come doppio da dipingere che l’ha condotto alla morte”. 

25 febbraio 2014

Edna O'Brien ovvero la verità, ti prego, sull'amore

Se è vero, come è vero, che nella valutazione critica di un artista le opere dovrebbero essere tutto e la vita privata niente, è anche altrettanto vero che molto spesso la seconda sconfina prepotentemente nel terreno delle prime, fino a creare una massa che risulta effettivamente molto difficile scindere, anche per i critici meno pruriginosi. Ci sono però momenti nei quali è lo stesso artista che compie volutamente la sovrapposizione dei territori, e nell'arte visuale brilla la parola "autoritratto", facendo ufficialmente spazio alla propria messa in mostra. Per gli scrittori è il momento dell'autobiografia, in qualche modo terreno d'armistizio - almeno in apparenza, ma non è peregrino pensare che in realtà quello autobiografico sia anche il più cruento dei campi di battaglia - tra se stessi e la fiction. A ben guardare, però, le armi che vengono utilizzate sono le stesse e il prodotto finale, il libro, potrebbe differire dalle opere dello stesso autore solo per l'uso di un pronome in prima persona anziché in terza. Ciò non toglie nulla al fascino dell'autobiografia - e spesso anche a quello delle biografie "indirizzate" dal soggetto della narrazione, come nel caso del meraviglioso profilo di Philip Roth firmato da Claudia Pierpont, Roth Unbound - e, anzi, diventa un ulteriore elemento intrigante su cui riflettere. E nel caso di Country Girl, l'autobiografia della scrittrice irlandese Edna O'Brien, che in Italia è stata pubblicata da Elliot, l'esito è sorprendente e felice, indipendentemente dalla percentuale di "verità", qualunque cosa voglia dire questa parola decisamente consunta dall'uso smodato che se ne fa, contenuta nelle sue 350 pagine abbondanti.

E' indubbio che la vita della O'Brien, classe 1930, sia piena di eventi che, con poca fantasia giornalistica, verrebbe automatico definire rocamboleschi (un solo esempio, il corteggiamento con Robert Mitchum, imperdibile come un film poliziesco), ma è altrettanto evidente come la scrittrice non giochi (più di tanto) con queste storie, e che la forza del libro stia sostanzialmente altrove, lontano dalle feste piene di celebrità e lontano anche dai libri. Il discorso vale anche per Roth (che per inciso di Edna O'Brien è da sempre un sostenitore e nel libro fa anche una lusinghiera apparizione): molta della vita degli scrittori (ma vale per chiunque, pensate al caso Agassi) accade prima o addirittura nonostante i loro libri, la bibliografia è un dato di fatto che però, in certe occasioni, mostra la corda. E tra queste occasioni spiccano le buone autobiografie. O'Brien racconta con grazia noncurante della sua inesausta, ma non cieca, ricerca di amore, e trova un tono che è al tempo stesso confidenziale, sereno eppure tragico, anche se solo sotto traccia. Raccontando del matrimonio, poi finito male, con lo scrittore Ernest Gébler, scrive, a proposito del pranzo nuziale: "Fu in quell'occasione che assaggiai per la prima volta lo champagne e mi piacque subito, forse più del dovuto". Ci vuole del coraggio per porre in epigrafe della storia della propria vita una frase del centometrista americano Tyson Gay, ma ci vuole del talento assoluto per creare una frase che in 20 parole sia anche una sintesi (ovviamente segreta nella sua perfezione) di tutto il libro. Mi piacque subito, forse più del dovuto.

Viene in mente l'epifanico titolo di una raccolta di poesie di Auden: La verità, vi prego, sull'amore. Anche questa potrebbe essere la domanda fondamentale che Country Girl solleva, dando risposte sempre parziali, tra le quali però ne spicca una di James Joyce a una sua amante alla fine di un'avventura: "Non potrà mai essere tra noi. Scrivilo". Ecco, il corto circuito è scattato, la scrittura sostituisce la vita, anzi crea le proprie condizioni lontano dalla vita: è una vertigine che diventa ancora più intensa quando ci ricordiamo che stiamo leggendo un'opera letteraria nella quale l'autrice prova a raccontare la sua di vita. Semplicemente perfetto. Così come perfetta è la scena in cui una O'Brien a pezzi dopo avere provato l'Lsd chiede di non ricevere visite, ma nonostante tutto ecco che nella sua stanza d'albergo si palesano prima Marguerite Duras con delle supposte e un tè al lime, poi il regista Peter Brook per lavorare a una sceneggiatura. "Dopo venne Samuel Beckett". Questa volta le parole sono solo quattro, ma il miracolo è, se possibile ancora più potente. E non importa se anche fosse un'allucinazione da acido, ma quando in un libro si riesce a fare entrare la storia della letteratura in una stanza d'hotel usando quattro sole parole, allora quello che abbiamo di fronte non è un libro come tutti gli altri. 

Così la luce che, dopo tanti amori, ma anche tante tragedie e momenti di vuoto e solitudine, si accende alla fine del libro sembra irradiare tutte le pagine precedenti con la tenerezza di una consapevolezza solo apparentemente scontata. Bella o brutta, diciamo tutti con Edna O'Brien, questa è la mia vita. Avere il coraggio di guardarla senza paraocchi, ma con affetto e tolleranza, sarebbe già un grande risultato. Come ha scritto Jonathan Franzen a proposito dei racconti di Alice Munro - altra scrittrice che, in absentia, pare però aleggiare spesso intorno alle parole della O'Brien - "si finisce per perdonare tutti e non condannare nessuno". 

09 febbraio 2014

Le confessioni di F.W. Grobes

Un racconto
Extended version del testo pubblicato su Diario nel 2008

Ho visto Kilgore Trout inseguire il suo creatore chiedendogli di farlo ringiovanire. Ho visto i corvi di Van Gogh riprendere fiato su una talea a Central Park in un pomeriggio di ottobre insolitamente afoso. Ho visto Josef K. passeggiare stralunato nei pressi della stazione centrale di Arnhem, e la sua figura esile si perdeva tra le centinaia di biciclette parcheggiate nelle rastrelliere. Ho sentito la voce di Don Chisciotte blaterare qualcosa in uno strano francese mentre cercava di imbarcarsi su una nave in partenza da Tolone e diretta in Martinica. Se non ricordo male tentava di farsi passare per un archeologo...

- Aspetti professore. Tutto questo è straordinario, ma prima deve spiegare chi è lei.

Ha ragione, giovanotto, ogni tanto mi perdo nei miei pensieri. Allora, mi chiamo F. W. Grobes, critico d'arte e letteratura, nato a Praga nel 1928 a pochi isolati dalla casa paterna di Kafka. Ho lasciato la Boemia con i miei familiari negli anni Trenta e oggi vivo ad Hannover, in un appartamentino nel cuore del quartiere turco. C'è rumore a tutte le ore del giorno e della notte, e questo mi rassicura. Ma, insomma, la cosa che devo oggi confessare per la prima volta è che da quando avevo 17 anni io parlo con le opere d'arte.

- Ci spieghi meglio, professore.

I quadri mi parlano. I personaggi dipinti, intendo. E come loro quelli dei romanzi, delle fotografie, del cinema. Qualche volta ho sentito pure la voce di un edificio. Mi capita di incontrarli per strada, questi personaggi, e loro in qualche modo sanno che io li posso riconoscere. E allora parlano, si lasciano andare. Guardi che non è sempre divertente. Provi lei a sopportare le confessioni culinarie di Emma Bovary o a fare quattro passi intorno alla Serpentine con il Marat sanguinante di Jacques-Louis David! Le giuro che non è stato facile all'inizio, ma poi mi ci sono abituato. E oggi che l’età si fa sentire, e con lei la solitudine ottuagenaria, stare senza la loro compagnia sarebbe molto doloroso.

Tutto è cominciato poco dopo la fine della guerra, a Parigi. Avevano appena riaperto il Louvre e io, che per anni avevo potuto solo immaginare la bellezza dei quadri attraverso delle riproduzioni quasi sempre di bassa lega, io non credevo a quello che i miei occhi potevano vedere nei saloni del museo. Credo tuttora che nel corridoio italiano ci sia la più alta densità di bellezza di ogni tempo. Beh forse Omero o la settima di Beethoven vorrebbero dire la loro in proposito, e magari anche a ragione... però quel corridoio... Insomma lo attraverso tutto e sono estasiato, Raffaello, Leonardo, Veronese, la morte della Vergine di Caravaggio. Poi entro in una saletta più piccola, quasi in penombra, dove sono conservati i dipinti di Ingres. Quante volte avevo ammirato le sue donne al bagno. Quante volte, glielo devo confessare, ci avevo pure fantasticato su, ero solo un adolescente in fondo, privo di qualunque educazione sentimentale che non fosse la solidarietà diffidente ispirata dal male comune della guerra. Erano bellissime queste bagnanti, morbide, sorridenti. E mentre me ne sto lì imbambolato e vagamente eccitato a rimirare il bagno turco, ecco che la ragazza che sta proprio al centro del tondo, quella con i capelli chiari e lo sguardo più serio, si volta verso di me e mi parla. Le risparmio tutta la manfrina sullo stupore e lo spaesamento che mi ha colto, credo che se lo possa immaginare. Io, un qualsiasi liceale emigrato, me ne stavo al Louvre a parlare con una bagnante di Ingres. Si poteva finire in manicomio per molto meno.

- E poi?

Credi che sia semplice starsene qui sempre nuda con le braccia conserte e l’espressione corrucciata mentre la gente lì fuori ci osserva elegante in redingote e pelliccia? mi ha detto. Ti assicuro che non è così. Io non sono come tutte le mie compagne, ha continuato, lo vedi, no? Queste qui suonano, si abbracciano, si lasciano andare in pose sensuali. Io, no, io sto fuori dal coro, quasi fossi un elemento estraneo o misterioso. Chissà che diavolo aveva in mente quel pittore quando mi ha immaginata. Come ti chiami, le ho chiesto quasi balbettando. Non lo so, ma ho scelto di chiamarmi Eugenia. E io sono diventato matto? E cosa ne posso sapere io. Non credere però di essere l’unico che parla con i quadri, qui tutti lo fanno. E tu rispondi a tutti? No – ha sorriso – quella è la tua dote. Il museo stava chiudendo. Hai dei franchi in tasca? mi ha chiesto Eugenia. Sì qualcosa. Aspettami sotto l’arco del Carousel tra venti minuti. Come? Fidati. Ti prego. Ho bisogno di un caffè da troppo tempo.

Era una sera fredda e limpida di novembre, con poca gente in giro. L’ho vista arrivare da lontano, con un abito nero e una sciarpa colorata. Siamo andati in un bistrot abbastanza squallido di Rue St. Honore ed Eugenia mi ha raccontato quello che accade nelle stanze del museo la sera, quando il mondo rimane chiuso fuori. E’ divertente, mi ha detto, appena spengono le luci il cavallo rampante di Napoleone si lascia cadere e il generale, che diventerà imperatore solo due stanze più in là, spesso ruzzola a terra in maniera goffa, maledicendo il povero animale con parolacce che io neppure conoscevo. Non è propriamente simpatico, però ha un certo fascino. E c’è sempre qualcuno, di solito uno degli ospiti della cena in casa Levi, che gli dà una mano a rialzarsi. Anche il padre degli Orazi, che a noi ragazze fa sempre un po’ paura, alla sera arriva esausto e lascia cadere le spade a terra prima di stare lungamente ad asciugarsi la fronte con il suo mantello rosso. Nessuno lo prende in giro, anche perché è molto permaloso e una volta ha minacciato con la spada il povero pierrot di Watteau. E tu, le ho chiesto io. Faccio delle passeggiate nel museo, mi fermo ad accarezzare le ali di Amore e a salutare Psiche, talvolta guardo fuori dalle vetrate e vedo la città farsi poco a poco più scura. Non so perché ma questo mi mette nostalgia. Poi non so fare altro che tornare al posto che mi hanno assegnato e rimettermi a braccia conserte.

Eugenia l’ho rivista tante altre volte, tornando al Louvre. E le devo confessare, perdoni il mio sentimentalismo senile, di essere legato a lei in modo speciale, in fondo è stata la prima. Con il passare degli anni ho incontrato così tante storie che un po’ si confondono nella memoria. C’era quel Marlow insopportabilmente querulo e il povero Achab che era completamente pazzo anche lontano dal Pequod e dalla Balena, c’era la dolcissima ninfa di Novalis e c’era Kirillov, furioso con Dostoevskij per avere fatto di lui, persona estremamente lucida e mite, un nichilista suicida. Ma per fortuna chi muore nell’arte di solito non muore sul serio, perché la gente se lo ricorda soprattutto per come ha vissuto e per quello che ha rappresentato. E poi, finché qualcuno continua a leggerli o ad ammirarli in un quadro, loro continuano a vivere, indipendentemente dal destino, talvolta davvero beffardo e ingrato, che un immaginifico artista ha dovuto imporgli. Lo sa, caro ragazzo, il mondo è pieno di Josef K. che se ne vanno in giro sempre un po’ spaesati. Uno per ogni lettore del Processo, uno per ogni saggio scritto su di lui, e uno in più oggi, perché quando tornerà al suo giornale e scriverà qualcosa di questo incontro con me anche lei creerà un nuovo Josef, che qualche lettore, le auguro sinceramente di averne, spedirà in giro per il mondo. E chissà che poi un giorno anche lui non venga a bussare alla mia porta dicendomi quello che mi dicono sempre i personaggi più tormentati: Tutti sanno chi è Josef K. ma chi sa chi sono io?

Il mio amico e coetaneo Carlos Fuentes una volta mi ha detto, o forse l’ha scritto in qualche libro, non me lo ricordo, che Don Chisciotte compie la più grande rivoluzione della letteratura quando da lettore si scopre letto. Ha ragione, è il momento storico in cui i personaggi prendono consapevolezza e cominciano a vivere un’altra vita, accanto alla gabbia dorata dell’arte che li ha inventati e li sostiene. Le devo confessare che la prima volta che ho incontrato il Chisciotte, passeggiavamo noi soli per le vie dell’Alfama a Lisbona in un primo pomeriggio caldissimo, sono rimasto sorpreso dalla sua lucidità. Me l’ero sempre figurato geniale e folle come lo aveva immaginato pure Orson Welles, e quel film mancato mi creda è uno grandi sogni della cinematografia mondiale, e mi sono dovuto ricredere. In fondo amico Grobes, mi ha detto compito, dentro un’opera d’arte si vive con una certa tristezza. Solo che capitano dei momenti nei quali riesci a dimenticare la fissità eterna della tua condizione nella superiore bellezza del mondo che ti circonda e che ti rappresenta e che tu rappresenti. E’ una questione di complessità e di specchi continui, siamo parte di un ingranaggio, più grande dei miei mostruosi mulini, che ci costringe e al tempo stesso libera. Se c’è qualcosa in cui questo vecchio hidalgo crede davvero, mio caro, è la complessità dell’arte. Come una vera religione non la si può capire, ma solo, se si ha fede, venerarla.

- Professor Grobes, mi dica qualcosa di Shakespeare.


Ah ragazzo mio, sapesse quanti Bardi ci sono in circolazione. Hanno scritto tante di quelle cose su di lui, di cui in fondo sappiamo praticamente nulla. Ne ho incontrate parecchie varianti, per lo più incentrate sugli studi classici di Hazlitt, ma quella più interessante era uno Scexpir che vive grazie, se non ricordo male, a un’unica citazione in un libro di fantasia. Però ho incontrato il principe Amleto, ahimè una sola volta. Ero a New York all’inizio del 1947 quando scoprì che W. H. Auden teneva delle conferenze su Shakespeare e ci andai. La sera in cui il poeta, enorme e goffo con un megafono in mano per farsi udire nella sala colma e rumorosa, parlava del principe di Danimarca mi ritrovai un po’ sorpreso a scoprire che la tragedia era stata definita un insuccesso artistico da T. S. Eliot e che Amleto era distrutto dalla propria immaginazione, non aveva il senso di una ragione che giustificasse la sua esistenza e che Ofelia era una stupida ragazza repressa, credo che Auden usò proprio queste parole. Piuttosto sgomento, stavo rimuginando su queste valutazioni quando il giovane seduto accanto a me, che anni dopo avrei scoperto non assomigliare né a Laurence Olivier né tanto meno a Kenneth Branagh, si presentò. Ovviamente era lui, il principe. Tutto quello che dice questo poeta, mi disse con grande educazione, è vero. Però qualcosa gli sfugge. Le mie contraddizioni, o per lo meno quelle che mostro in scena, sono il mio essere. Se non ci fossero sarei forse Giulio Cesare o il principe Harry. Io invece sono Amleto, esisto grazie a quelle imperfezioni e assurdità. E lì risiede il mio mito. Senza mitologia farei fatica a sopportare tanta cupezza. E Ofelia era solo una donna, gentile. Lei, Grobes, si è mai fermato a pensare dove risiede davvero tutta la forza delle donne? Io credo stia nell’impossibilità che abbiamo di capire anche solo la metà dei loro pensieri. Ofelia è, come tutti noi, una proiezione misteriosa di qualcosa, è come deve essere. Mi perdoni, ora, ma devo andare. Aspetti, gli ho gridato mentre lasciava la sala, e Shakespeare, e Laerte, e sua madre... e tutto il resto. E’ tornato indietro, e mi guardava negli occhi. Il resto, mi ha detto, nella migliore delle ipotesi è mancia. Più tardi, sul taxi che mi riportava nel mio alloggio, ho trovato un ritaglio di giornale con la pubblicità di una qualche apparecchiatura per l’udito. Lo slogan, davvero efficace, recitava: il resto è silenzio.


Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine