Francis Bacon è uno dei pittori contemporanei più citati e
riconoscibili, ma a ben guardare le sue opere, figurative per certi versi in
modo molto più classico di quanto sia comunemente percepito, restano degli
enigmi più vasti e celano, oltre all’evidente senso di angoscia e di carne,
una storia più profonda, che attinge a piene mani alla tradizione e che si può
riassumere con una sola parola, spesso usata da Bacon per titolare i propri
quadri: pittura. Di questo parla Trittico, la raccolta di tre studi (si noti
l’osservanza baconiana di titolo e sottotitolo), firmata da Jonathan Littell,
lo scrittore newyorkese divenuto celebre in tutto il mondo per il romanzo
sull’Olocausto “Le benevole”. Pubblicato in Italia da Einaudi, in una versione
sovradimensionata della collana Frontiere, il libro è la storia di uno sguardo,
freddo ma comunque empatico, sul lavoro di Bacon, che parte dall’opera che ha
dato il via alla carriera del pittore – i Tre studi di figure ai piedi di una
crocifissione del 1944, trittico che ha conquistato un posto indelebile nella
storia dell’arte contemporanea anche se, con il passare degli anni, la sua
forza sconvolgente si è in parte perduta – e arriva all’unico possibile punto
d’approdo: la creazione di una “grande figura”. Parola che è la radice del
termine “figurativo” e che Littell ha il coraggio di associare – in termini ben
motivati ma comunque piuttosto arditi - anche alla ricerca di un mostro sacro
dell’Action Painting come Mark Rothko. Pittore che Bacon ufficialmente
detestava, ma di cui, nota l’occhio dello scrittore, spesso si ritrova una
potente eco negli sfondi bicromi dei dipinti dell’irlandese.
Littell, che scrive anche pagine splendide su Las Meninas di Velasquez, racconta Bacon da un punto di vista che resta quello di uno
scrittore, e in più di un caso le analisi sulle “motivazioni” del pittore
sembrano essere quasi delle confessioni autobiografiche, che qualcuno potrebbe
anche considerare non particolarmente originali (e per questo, probabilmente,
dotate di una discreta percentuale di verità). “Per lui – scrive Littell – la
pittura non era una protesta contro qualcosa, ma un modo per affrontare la
giornata, il modo migliore e più affascinante che ci fosse, ed era anche un
modo, più segreto, nonostante venisse poi esposto alla vista di tutti, per
sbarazzarsi dei propri fantasmi più intimi”. Chiarissimo, e viene in mente un
altro grande irlandese dallo sguardo severo, Samuel Beckett. Più intrigante
Littel lo diventa però quando si concentra sul senso ultimo dell’opera di
Bacon: “La figura è l’oggetto dipinto nel quadro; il soggetto, come in tutta la
pittura, e non solo in quella astratta, è la figura in sé”. Il nuomeno
pittorico dunque, che fa da sfondo – si dovrebbe dire da ombra se pensassimo in
termini di ortodossia baconiana, quelle splendide e spaventose ombre che
sgorgano o, meglio, sfuggono dai personaggi dipinti – alla manifestazione di
ciò che per Littell è in fondo il modo in cui pensa la pittura. Difficile
immaginare un compito più ambizioso e straziante.
Alcuni appassionati e qualificati osservatori di Francis
Bacon hanno visto nel saggio di Littell poca attenzione alla dimensione più carnale
– nel senso letterale dell’aggettivo riferito alla carne – del lavoro del
pittore. Ma Littell, e la sua bibliografia lo conferma, somiglia a quel
“testimone indifferente” che lo scrittore identifica come figura ricorrente
nelle opere di Bacon, e come tale mantiene un distacco sebbene, a differenza
del personaggio, non distoglie lo sguardo e anzi lo esaspera chirurgicamente
davanti ai dipinti. In fondo è solo un altro modo di essere appassionati. E non
solo i dipinti, ottimamente riprodotti a colori in grande quantità nel libro,
sono passati sotto la lente di Littell, ma anche molte fotografie: su tutte
quella che ritrae un giovane Bacon dandy insieme al suo compagno George Dyer a
Soho nel 1964. L’analisi dello scrittore è magistrale, ma quello che più conta
è la testimonianza di un amore che, in ultima analisi, sembrava da sempre
destinato a una fine tragica e alla conseguente ossessione di Bacon. “E’ stata
l’incapacità da parte di Dyer – scrive Littell in un passaggio chiave – di
imporsi allo sguardo di Bacon come individuo da amare anziché come doppio da
dipingere che l’ha condotto alla morte”.
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