09 febbraio 2014

Le confessioni di F.W. Grobes

Un racconto
Extended version del testo pubblicato su Diario nel 2008

Ho visto Kilgore Trout inseguire il suo creatore chiedendogli di farlo ringiovanire. Ho visto i corvi di Van Gogh riprendere fiato su una talea a Central Park in un pomeriggio di ottobre insolitamente afoso. Ho visto Josef K. passeggiare stralunato nei pressi della stazione centrale di Arnhem, e la sua figura esile si perdeva tra le centinaia di biciclette parcheggiate nelle rastrelliere. Ho sentito la voce di Don Chisciotte blaterare qualcosa in uno strano francese mentre cercava di imbarcarsi su una nave in partenza da Tolone e diretta in Martinica. Se non ricordo male tentava di farsi passare per un archeologo...

- Aspetti professore. Tutto questo è straordinario, ma prima deve spiegare chi è lei.

Ha ragione, giovanotto, ogni tanto mi perdo nei miei pensieri. Allora, mi chiamo F. W. Grobes, critico d'arte e letteratura, nato a Praga nel 1928 a pochi isolati dalla casa paterna di Kafka. Ho lasciato la Boemia con i miei familiari negli anni Trenta e oggi vivo ad Hannover, in un appartamentino nel cuore del quartiere turco. C'è rumore a tutte le ore del giorno e della notte, e questo mi rassicura. Ma, insomma, la cosa che devo oggi confessare per la prima volta è che da quando avevo 17 anni io parlo con le opere d'arte.

- Ci spieghi meglio, professore.

I quadri mi parlano. I personaggi dipinti, intendo. E come loro quelli dei romanzi, delle fotografie, del cinema. Qualche volta ho sentito pure la voce di un edificio. Mi capita di incontrarli per strada, questi personaggi, e loro in qualche modo sanno che io li posso riconoscere. E allora parlano, si lasciano andare. Guardi che non è sempre divertente. Provi lei a sopportare le confessioni culinarie di Emma Bovary o a fare quattro passi intorno alla Serpentine con il Marat sanguinante di Jacques-Louis David! Le giuro che non è stato facile all'inizio, ma poi mi ci sono abituato. E oggi che l’età si fa sentire, e con lei la solitudine ottuagenaria, stare senza la loro compagnia sarebbe molto doloroso.

Tutto è cominciato poco dopo la fine della guerra, a Parigi. Avevano appena riaperto il Louvre e io, che per anni avevo potuto solo immaginare la bellezza dei quadri attraverso delle riproduzioni quasi sempre di bassa lega, io non credevo a quello che i miei occhi potevano vedere nei saloni del museo. Credo tuttora che nel corridoio italiano ci sia la più alta densità di bellezza di ogni tempo. Beh forse Omero o la settima di Beethoven vorrebbero dire la loro in proposito, e magari anche a ragione... però quel corridoio... Insomma lo attraverso tutto e sono estasiato, Raffaello, Leonardo, Veronese, la morte della Vergine di Caravaggio. Poi entro in una saletta più piccola, quasi in penombra, dove sono conservati i dipinti di Ingres. Quante volte avevo ammirato le sue donne al bagno. Quante volte, glielo devo confessare, ci avevo pure fantasticato su, ero solo un adolescente in fondo, privo di qualunque educazione sentimentale che non fosse la solidarietà diffidente ispirata dal male comune della guerra. Erano bellissime queste bagnanti, morbide, sorridenti. E mentre me ne sto lì imbambolato e vagamente eccitato a rimirare il bagno turco, ecco che la ragazza che sta proprio al centro del tondo, quella con i capelli chiari e lo sguardo più serio, si volta verso di me e mi parla. Le risparmio tutta la manfrina sullo stupore e lo spaesamento che mi ha colto, credo che se lo possa immaginare. Io, un qualsiasi liceale emigrato, me ne stavo al Louvre a parlare con una bagnante di Ingres. Si poteva finire in manicomio per molto meno.

- E poi?

Credi che sia semplice starsene qui sempre nuda con le braccia conserte e l’espressione corrucciata mentre la gente lì fuori ci osserva elegante in redingote e pelliccia? mi ha detto. Ti assicuro che non è così. Io non sono come tutte le mie compagne, ha continuato, lo vedi, no? Queste qui suonano, si abbracciano, si lasciano andare in pose sensuali. Io, no, io sto fuori dal coro, quasi fossi un elemento estraneo o misterioso. Chissà che diavolo aveva in mente quel pittore quando mi ha immaginata. Come ti chiami, le ho chiesto quasi balbettando. Non lo so, ma ho scelto di chiamarmi Eugenia. E io sono diventato matto? E cosa ne posso sapere io. Non credere però di essere l’unico che parla con i quadri, qui tutti lo fanno. E tu rispondi a tutti? No – ha sorriso – quella è la tua dote. Il museo stava chiudendo. Hai dei franchi in tasca? mi ha chiesto Eugenia. Sì qualcosa. Aspettami sotto l’arco del Carousel tra venti minuti. Come? Fidati. Ti prego. Ho bisogno di un caffè da troppo tempo.

Era una sera fredda e limpida di novembre, con poca gente in giro. L’ho vista arrivare da lontano, con un abito nero e una sciarpa colorata. Siamo andati in un bistrot abbastanza squallido di Rue St. Honore ed Eugenia mi ha raccontato quello che accade nelle stanze del museo la sera, quando il mondo rimane chiuso fuori. E’ divertente, mi ha detto, appena spengono le luci il cavallo rampante di Napoleone si lascia cadere e il generale, che diventerà imperatore solo due stanze più in là, spesso ruzzola a terra in maniera goffa, maledicendo il povero animale con parolacce che io neppure conoscevo. Non è propriamente simpatico, però ha un certo fascino. E c’è sempre qualcuno, di solito uno degli ospiti della cena in casa Levi, che gli dà una mano a rialzarsi. Anche il padre degli Orazi, che a noi ragazze fa sempre un po’ paura, alla sera arriva esausto e lascia cadere le spade a terra prima di stare lungamente ad asciugarsi la fronte con il suo mantello rosso. Nessuno lo prende in giro, anche perché è molto permaloso e una volta ha minacciato con la spada il povero pierrot di Watteau. E tu, le ho chiesto io. Faccio delle passeggiate nel museo, mi fermo ad accarezzare le ali di Amore e a salutare Psiche, talvolta guardo fuori dalle vetrate e vedo la città farsi poco a poco più scura. Non so perché ma questo mi mette nostalgia. Poi non so fare altro che tornare al posto che mi hanno assegnato e rimettermi a braccia conserte.

Eugenia l’ho rivista tante altre volte, tornando al Louvre. E le devo confessare, perdoni il mio sentimentalismo senile, di essere legato a lei in modo speciale, in fondo è stata la prima. Con il passare degli anni ho incontrato così tante storie che un po’ si confondono nella memoria. C’era quel Marlow insopportabilmente querulo e il povero Achab che era completamente pazzo anche lontano dal Pequod e dalla Balena, c’era la dolcissima ninfa di Novalis e c’era Kirillov, furioso con Dostoevskij per avere fatto di lui, persona estremamente lucida e mite, un nichilista suicida. Ma per fortuna chi muore nell’arte di solito non muore sul serio, perché la gente se lo ricorda soprattutto per come ha vissuto e per quello che ha rappresentato. E poi, finché qualcuno continua a leggerli o ad ammirarli in un quadro, loro continuano a vivere, indipendentemente dal destino, talvolta davvero beffardo e ingrato, che un immaginifico artista ha dovuto imporgli. Lo sa, caro ragazzo, il mondo è pieno di Josef K. che se ne vanno in giro sempre un po’ spaesati. Uno per ogni lettore del Processo, uno per ogni saggio scritto su di lui, e uno in più oggi, perché quando tornerà al suo giornale e scriverà qualcosa di questo incontro con me anche lei creerà un nuovo Josef, che qualche lettore, le auguro sinceramente di averne, spedirà in giro per il mondo. E chissà che poi un giorno anche lui non venga a bussare alla mia porta dicendomi quello che mi dicono sempre i personaggi più tormentati: Tutti sanno chi è Josef K. ma chi sa chi sono io?

Il mio amico e coetaneo Carlos Fuentes una volta mi ha detto, o forse l’ha scritto in qualche libro, non me lo ricordo, che Don Chisciotte compie la più grande rivoluzione della letteratura quando da lettore si scopre letto. Ha ragione, è il momento storico in cui i personaggi prendono consapevolezza e cominciano a vivere un’altra vita, accanto alla gabbia dorata dell’arte che li ha inventati e li sostiene. Le devo confessare che la prima volta che ho incontrato il Chisciotte, passeggiavamo noi soli per le vie dell’Alfama a Lisbona in un primo pomeriggio caldissimo, sono rimasto sorpreso dalla sua lucidità. Me l’ero sempre figurato geniale e folle come lo aveva immaginato pure Orson Welles, e quel film mancato mi creda è uno grandi sogni della cinematografia mondiale, e mi sono dovuto ricredere. In fondo amico Grobes, mi ha detto compito, dentro un’opera d’arte si vive con una certa tristezza. Solo che capitano dei momenti nei quali riesci a dimenticare la fissità eterna della tua condizione nella superiore bellezza del mondo che ti circonda e che ti rappresenta e che tu rappresenti. E’ una questione di complessità e di specchi continui, siamo parte di un ingranaggio, più grande dei miei mostruosi mulini, che ci costringe e al tempo stesso libera. Se c’è qualcosa in cui questo vecchio hidalgo crede davvero, mio caro, è la complessità dell’arte. Come una vera religione non la si può capire, ma solo, se si ha fede, venerarla.

- Professor Grobes, mi dica qualcosa di Shakespeare.


Ah ragazzo mio, sapesse quanti Bardi ci sono in circolazione. Hanno scritto tante di quelle cose su di lui, di cui in fondo sappiamo praticamente nulla. Ne ho incontrate parecchie varianti, per lo più incentrate sugli studi classici di Hazlitt, ma quella più interessante era uno Scexpir che vive grazie, se non ricordo male, a un’unica citazione in un libro di fantasia. Però ho incontrato il principe Amleto, ahimè una sola volta. Ero a New York all’inizio del 1947 quando scoprì che W. H. Auden teneva delle conferenze su Shakespeare e ci andai. La sera in cui il poeta, enorme e goffo con un megafono in mano per farsi udire nella sala colma e rumorosa, parlava del principe di Danimarca mi ritrovai un po’ sorpreso a scoprire che la tragedia era stata definita un insuccesso artistico da T. S. Eliot e che Amleto era distrutto dalla propria immaginazione, non aveva il senso di una ragione che giustificasse la sua esistenza e che Ofelia era una stupida ragazza repressa, credo che Auden usò proprio queste parole. Piuttosto sgomento, stavo rimuginando su queste valutazioni quando il giovane seduto accanto a me, che anni dopo avrei scoperto non assomigliare né a Laurence Olivier né tanto meno a Kenneth Branagh, si presentò. Ovviamente era lui, il principe. Tutto quello che dice questo poeta, mi disse con grande educazione, è vero. Però qualcosa gli sfugge. Le mie contraddizioni, o per lo meno quelle che mostro in scena, sono il mio essere. Se non ci fossero sarei forse Giulio Cesare o il principe Harry. Io invece sono Amleto, esisto grazie a quelle imperfezioni e assurdità. E lì risiede il mio mito. Senza mitologia farei fatica a sopportare tanta cupezza. E Ofelia era solo una donna, gentile. Lei, Grobes, si è mai fermato a pensare dove risiede davvero tutta la forza delle donne? Io credo stia nell’impossibilità che abbiamo di capire anche solo la metà dei loro pensieri. Ofelia è, come tutti noi, una proiezione misteriosa di qualcosa, è come deve essere. Mi perdoni, ora, ma devo andare. Aspetti, gli ho gridato mentre lasciava la sala, e Shakespeare, e Laerte, e sua madre... e tutto il resto. E’ tornato indietro, e mi guardava negli occhi. Il resto, mi ha detto, nella migliore delle ipotesi è mancia. Più tardi, sul taxi che mi riportava nel mio alloggio, ho trovato un ritaglio di giornale con la pubblicità di una qualche apparecchiatura per l’udito. Lo slogan, davvero efficace, recitava: il resto è silenzio.


Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

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