Se è vero, come è vero, che nella valutazione
critica di un artista le opere dovrebbero essere tutto e la vita privata
niente, è anche altrettanto vero che molto spesso la seconda sconfina
prepotentemente nel terreno delle prime, fino a creare una massa che risulta
effettivamente molto difficile scindere, anche per i critici meno pruriginosi.
Ci sono però momenti nei quali è lo stesso artista che compie volutamente la
sovrapposizione dei territori, e nell'arte visuale brilla la parola
"autoritratto", facendo ufficialmente spazio alla propria messa in
mostra. Per gli scrittori è il momento dell'autobiografia, in qualche modo
terreno d'armistizio - almeno in apparenza, ma non è peregrino pensare che in
realtà quello autobiografico sia anche il più cruento dei campi di battaglia -
tra se stessi e la fiction.
A ben guardare, però, le armi che vengono utilizzate sono le
stesse e il prodotto finale, il libro, potrebbe differire dalle opere dello
stesso autore solo per l'uso di un pronome in prima persona anziché in terza.
Ciò non toglie nulla al fascino dell'autobiografia - e spesso
anche a quello delle biografie "indirizzate" dal soggetto della
narrazione, come nel caso del meraviglioso profilo di Philip Roth firmato da
Claudia Pierpont, Roth Unbound - e, anzi, diventa un ulteriore
elemento intrigante su cui riflettere. E nel caso di Country Girl,
l'autobiografia della scrittrice irlandese Edna O'Brien, che in Italia è stata
pubblicata da Elliot, l'esito è sorprendente e felice, indipendentemente dalla
percentuale di "verità", qualunque cosa voglia dire questa parola
decisamente consunta dall'uso smodato che se ne fa, contenuta nelle sue 350
pagine abbondanti.
E' indubbio che la vita della O'Brien, classe
1930, sia piena di eventi che, con poca fantasia giornalistica, verrebbe
automatico definire rocamboleschi (un solo esempio, il corteggiamento con
Robert Mitchum, imperdibile come un film poliziesco), ma è altrettanto evidente
come la scrittrice non giochi (più di tanto) con queste storie, e che la forza
del libro stia sostanzialmente altrove, lontano dalle feste piene di celebrità
e lontano anche dai libri. Il discorso vale anche per Roth (che per inciso di
Edna O'Brien è da sempre un sostenitore e nel libro fa anche una lusinghiera
apparizione): molta della vita degli scrittori (ma vale per chiunque, pensate
al caso Agassi) accade prima o addirittura nonostante i loro libri, la
bibliografia è un dato di fatto che però, in certe occasioni, mostra la corda. E tra queste
occasioni spiccano le buone autobiografie. O'Brien racconta con grazia
noncurante della sua inesausta, ma non cieca, ricerca di amore, e trova un tono
che è al tempo stesso confidenziale, sereno eppure tragico, anche se solo sotto
traccia. Raccontando del matrimonio, poi finito male, con lo scrittore Ernest
Gébler, scrive, a proposito del pranzo nuziale: "Fu in quell'occasione che
assaggiai per la prima volta lo champagne e mi piacque subito, forse più del
dovuto". Ci vuole del coraggio per porre in epigrafe della storia della
propria vita una frase del centometrista americano Tyson Gay, ma ci vuole del
talento assoluto per creare una frase che in 20 parole sia anche una sintesi
(ovviamente segreta nella sua perfezione) di tutto il libro. Mi piacque subito,
forse più del dovuto.
Viene in mente l'epifanico titolo di una
raccolta di poesie di Auden: La verità, vi prego, sull'amore. Anche
questa potrebbe essere la domanda fondamentale che Country Girl solleva, dando risposte sempre parziali, tra le quali però ne spicca una di
James Joyce a una sua amante alla fine di un'avventura: "Non potrà mai
essere tra noi. Scrivilo". Ecco, il corto circuito è scattato, la
scrittura sostituisce la vita, anzi crea le proprie condizioni lontano dalla
vita: è una vertigine che diventa ancora più intensa quando ci ricordiamo che
stiamo leggendo un'opera letteraria nella quale l'autrice prova a raccontare la
sua di vita. Semplicemente perfetto. Così come perfetta è la scena in cui una
O'Brien a pezzi dopo avere provato l'Lsd chiede di non ricevere visite, ma nonostante
tutto ecco che nella sua stanza d'albergo si palesano prima Marguerite Duras
con delle supposte e un tè al lime, poi il regista Peter Brook per lavorare a
una sceneggiatura. "Dopo venne Samuel Beckett". Questa volta le
parole sono solo quattro, ma il miracolo è, se possibile ancora più potente. E
non importa se anche fosse un'allucinazione da acido, ma quando in un libro si
riesce a fare entrare la storia della letteratura in una stanza d'hotel usando
quattro sole parole, allora quello che abbiamo di fronte non è un libro come
tutti gli altri.
Così la luce che, dopo tanti amori, ma anche
tante tragedie e momenti di vuoto e solitudine, si accende alla fine del libro
sembra irradiare tutte le pagine precedenti con la tenerezza di una
consapevolezza solo apparentemente scontata. Bella o brutta, diciamo tutti con
Edna O'Brien, questa è la mia vita. Avere il coraggio di guardarla senza
paraocchi, ma con affetto e tolleranza, sarebbe già un grande risultato. Come
ha scritto Jonathan Franzen a proposito dei racconti di Alice Munro - altra
scrittrice che, in absentia, pare però aleggiare spesso intorno alle parole
della O'Brien - "si finisce per perdonare tutti e non condannare
nessuno".
Nessun commento:
Posta un commento