02 febbraio 2014

46

Su Philip Seymour Hoffman

Quando morì Kurt Cobain mia sorella ebbe una crisi isterica. Girava per casa gridando "È morto, è morto!". Era mattina, forse domenica mattina, e mio padre, appena sveglio, ci mise diversi minuti a capire che il decesso non riguardava un parente stretto. In quel lasso di tempo credo che abbia passato al vaglio una serie di possibilità piuttosto inquietanti, mentre mia sorella continuava a gridare correndo da una stanza all'altra del nostro appartamento, una casa degli anni Sessanta, quelle con lunghissimi corridoi nei quali sprecare metri quadri e instillare nei ragazzini la sindrome di Shining. 


Quando morì Kurt Cobain avevo 22 anni, ero un insipido studente universitario senza fidanzate. Leggevo Hemingway ma, grazie al cielo, avevo già cominciato a diffidare di Hermann Hesse - anche se Il lupo della steppa resta in un limbo dal quale ho paura di andarlo a salvare: tre anni prima, complice anche una relazione assurda con una compagna di liceo evidentemente fuori di testa, mi aveva entusiasmato in maniera imbarazzante e tuttora ho paura che possa muovermi qualcosa dentro, anche se non lo ammetterò mai - e i Nirvana li ho apprezzati parecchio tempo dopo. Forse avevo ancora i capelli lunghi e, di sicuro, la stempiatura non si era ancora manifestata. Dell'avere 22 anni, ancora neppure compiuti, la cosa che mi colpisce di più oggi è il fatto che ne siano passati quasi altrettanti. Il che mi avvicina all'età di Philip Seymour Hoffman, l'attore americano morto poche ore fa nella sua casa di New York, apparentemente - riporta la sempre posata Bbc - per overdose di droga. Eroina, scrivono tutti su Facebook, eroina. È un ritornello che in fondo nessuno aveva davvero dimenticato, una di quelle parole radioattive: le puoi anche seppellire sotto quintali di terra, puoi gettarle in fondo al mare, puoi abolirle dalle conversazioni à la page, ma loro restano sempre lì, irradianti, incandescenti, inafferrabili. Come la morte. 46 anni, questa era l'età di PSH (la stessa di David Foster Wallace, e quel mattino del 2008 - succedono sempre di mattina queste cose, anche il mio cane Wall Street è morto di mattina e, dopo la telefonata, mi sono visto darmi dei pugni sulla fronte seduto alla mia scrivania in redazione e una collega si è parecchio preoccupata - ero al lavoro e non ho scritto un lancio di agenzia sul suicidio e non ho pensato niente, sono rimasto solo in silenzio per un po', e credo che questo atteggiamento non me lo perdonerò...) un'età che forse ha stupito molti, visto che a Hoffman il cinema riservava spesso parti scomode e all'opposto del giovanilismo. E poi nella sua biondezza americana la barba era naturalmente indotta a imbiancare con più facilità, e c'era sicuramente del tormento vero, e che cazzo ne posso sapere io di come stava davvero quest'uomo...

Quando muore un attore muore un pezzo del sogno di cambiamento che tutti ci portiamo dentro, o meglio, delle possibilità che da qualche parte sappiamo esistere (e io, dannato me, sono uno di quelli a cui questa possibilità basta per accettare tutto il resto, e così facendo devasto me stesso e spesso anche altri, facendo finta di essere uno per bene... Ma i mostri hanno tante facce, ricordatevelo) e la speranza che possano concretizzarsi, un giorno, lontano ma non troppo, è un argomento socialmente accettato per motivare l'acquiescenza collettiva ("I corvi che gracchiano Rivoluzione", mi ricorda il Jovanotti forse più ispirato di sempre). Ma quando la faccia di gomma di un attore di talento, uno condannato a ruoli scabrosi, esposto a essere niente meno che Truman Capote, con una tendenza alla pinguedine che segretamente confortava chi poi la esecrava pubblicamente (e intanto nel locale in cui sto scrivendo stanno suonando tutto un album dei Cranberries, e adesso è il momento - struggente e peloso al tempo stesso - di Ode to my family) quando muore una faccia così, allora tutto il sistema viene messo in discussione, tutte le certezze vacillano, restiamo pure noi nudi come il re che è così scontato (pensateci!!!) denunciare a bella posta (in fondo io quel bambino della favola lo detesto).

Moriamo anche noi. Stasera. E una parte di me non ha nemmeno troppa paura. Fanculo al mondo? Sempre troppo facile, e l'unica cosa che posso dire con certezza è che nulla è mai facile. Né le parti di PSH, né le parolacce alla fine di un pezzo. Quindi niente, come non detto. Un uomo di 46 anni è morto, i messaggi di cordoglio si susseguono, e la mia birra è finita.Così va la vita.
Saperlo non mi impedisce di essere triste, ma brindo a Philip con affetto.

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