Il saggio pubblicato su Minima&Moralia
1.
Lo skyline lo si affronta subito, sull'Airtrain che unisce i terminal
dell'aeroporto JFK: è lì, chiarissimo
nel controluce che sagoma, con la sua evidenza sfumata dalle nuvole. L'Empire
State Building marca il proprio territorio e non ammette rivali, la Liberty Tower è solo
una periferia della percezione, alta sì, ma distante dal cuore di una linea di
iconicità che si staglia precisa prima nella testa di chi arriva a New York, piuttosto
che nella effettiva percezione visiva dell'occasione. Come in un gioco di
filosofie che si specchiano, la potenza, ossia l'idea di un panorama costruita
pazientemente in anni di applicazione alla cultura di massa, prevale senza
fatica sulla limitata portata dell'atto, condannato a una definizione di
confini che lo rende automaticamente poco interessante. Così non è un caso,
anzi è la manifestazione delle leggi di Harold Bloom[1],
che alcuni giorni dopo tra gli scaffali di Strand Books trovi una copia autografa
e scontata di How Literature saved my
Life di David Shields, uno scrittore e critico che da anni si interroga
sulla incommensurabilità tra il linguaggio e l'esperienza. Tradotto, tra l'arte
e l'esistenza, quindi tra ciò per cui vale la pena vivere e ciò che dovrebbe
essere questa cosa chiamata "realtà"... Potenza e atto di una
settimana a New York[2],
già racchiusi nella prima occhiata alla città, gettata da un ponte alla Arthur
Miller, pochi minuti dopo aver superato i test d'ingresso dell'Immigration degli Stati Uniti. Prima che
le cose succedano, prima che l'atto si manifesti, la potenza ha già giocato, e
stravinto, la sua partita. Affannarsi, dunque, non vale la pena.

2.

3.
La trilogia di New
York
di Paul Auster, che un po' tautologicamente è l'unico testo di fiction che mi
sono portato in viaggio[6],
si apre con un telefono che squilla nella notte. Sul taxi che attraversa il
Manhattan Bridge, guidato senza tassametro attivo da un indiano al tempo stesso
spregiudicato e timido, non è squillato nessun telefono. Ma la sensazione che
provo quando mi trovo faccia a faccia con i grattacieli del distretto
finanziario illuminati in maniera del tutto innaturale, eppure così precisa, ha
la stessa evidenza di quella chiamata cui Quinn alla fine decide di rispondere
inventandosi una nuova identità. Da quella prospettiva notturna, sopraelevata e
aggettante, respiro a pieni polmoni l'odore dolciastro e appiccicoso della
fantascienza, il gusto proustiano di una madeleine
che ho sognato di intingere nel tè per tutta la vita (e ci ho provato più di
una volta, ma senza epifanie, probabilmente perché sbagliavo a decodificare
l'oggetto della transizione mnemonica) e che adesso assaporo, nella
irrefrenabile vaghezza di un attimo in movimento, che è insieme scoperta e deja-vu. Mi sembra, dalla mia
prospettiva pervicacemente provinciale, di comprendere il significato della
parola "futuro", ma è una comprensione che nasce già mediata dal peso
strutturale della consapevolezza che sia un approdo banale e semplicistico. Per
un attimo però quel futuro si è librato sotto di me, libero come un verso di
Eliot, sempre quel verso di Eliot[7]
buono per tutti i ponti del mondo, benché ambientato solo sul London Bridge,
che nella mia ostinazione mi capiterà di declamare con voce sommessa nel
sotterrano di Strand nella mia personale interpretazione dell'inglese dalla Waste Land. Poco prima mi ero imbattuto
tra i banchi della literary non fiction,
nella versione peluche di Kurt Vonnegut, e la cosa curiosa è che io lo avevo
riconosciuto, il che testimonia sì la perizia di chi ha realizzato il gadget,
ma pure, e in modo piuttosto chiaro che:
a) la professione giornalistica ha ridotto
drasticamente la mia capacità di genuino stupore
b) è molto probabile che in me ci sia qualcosa
che non va, e che la colpa potrebbe essere, almeno in parte, della letteratura.

4.
Dalla biografia di Roth apprendo che, da
giovane, lo scrittore in certe serate di cameratismo maschile divorava anche
"una mezza dozzina di bagel". Poi, tra parentesi, l'autrice nota che
lui ci ha tenuto a precisare che, all'epoca, i bagel non erano grandi come
adesso. Altrove vengo informato (con una certa dose di autocompiacimento
conseguente, ndr) che l'adolescente
Philip prevedeva in un questionario che in futuro avrebbe svolto la professione
di "giornalista" e che il college dei suoi desideri si chiamava
"Northwestern". La parentesi, che subito accorre, precisa che in
realtà Roth non sapeva nulla di questa scuola, solo che gli piaceva il nome.
Una terza parentesi creativa contempla la presenza dell'avvenente Betty Powell
nascosta sotto il letto nel dormitorio maschile del futuro romanziere...
Insomma, mentre negli spazi ufficiali si svolge il rito formale e accademico
della biografia, la vita di Philip Roth, quella che lui deve aver percepito di
avere effettivamente vissuto (quindi quella che per lui, o quantomeno per i
suoi ricordi di uomo maturo, è stata la vita
vera) ci viene proposta in sordina, stretta tra quei caratteri pudichi a
forma di mani che tendono a restringere e contenere, neanche fossero quel
colonnato infame del Bernini che per Giulio Carlo Argan stringeva in una morsa
di controllo e repressione le folle cattoliche adunate in piazza San Pietro a
Roma...

(Io sono
il corvo Joe, ripetono i Baustelle in cuffia, mentre trafiggo da solo il
cuore della metropolitana, nell'ora di punta di un giorno qualunque. Faccio spavento).
5.

"Molte
razze, molti popoli, molte nazioni - scrive un ispirato D.H. Lawrence a
proposito di Moby Dick - al riparo della bandiera a Stelle e Strisce.
Uomini segnati dalle strisce di molti scudisci. A volte fino a veder le stelle.
In una nave folle, al comando di un folle capitano, impegnati in una folle e
fanatica caccia. [...] È un'impresa pratica, estremamente pratica nel suo funzionamento.
L'industria americana!"[15].

God bless you all.
God bless New York City.
6.
Questa storia finisce, come era prevedibile,
dove era cominciata, a fissare la luce precisa del pomeriggio sul treno
velocissimo che unisce i terminal dell'aeroporto Kennedy. Vedo degli stagni e
un aereo che, decollando, li sorvola con gentilezza, vedo dei francesi che
ondeggiano pericolosamente a ogni fermata del convoglio, vedo me stesso
riflesso nei finestrini e la mia espressione mi è indecifrabile, come se fosse
sospesa sopra qualcosa che non c'è, definitivamente condannata all'incertezza.
Sono da solo, come raramente mi era capitato di essere in questi giorni
americani[18] e mi sento come un
qualunque Alessandro Magno, euforico e al tempo stesso perso davanti alla
grandezza del mondo e all'ardimento dell'impresa. Uso la strategia
dell'ordinario, mi concentro su ogni passo, su ogni aspetto tecnico della
procedura d'imbarco, con la conseguenza di dilatare a dismisura la
consapevolezza della fine di qualcosa.
Il volo, per quanto segnato da turbolenze di lunga durata, sarà solo un
dettaglio, quasi una presa in giro, e nell'istante in cui prenderò in mano lo
spazzolino da denti, ormai sui cieli italiani, mi sembrerà di non essere mai
arrivato a New York, e mi ricorderò dei sogni fatti negli anni Novanta in cui
questo nome aveva di volta in volta immagini diverse, proiezioni di coscienza e
di paure, fantasie che neanche Bruno Schulz. Come se niente…
E ad aggravare
questa sensazione arriveranno anche i miei “no” alle domande di parenti e
amici: "Hai visto Ground Zero? E il Rockefeller Center? Sei salito
sull'Empire? (Lo so, la Lonely Planet diceva
che era obbligatorio, lo so) E la
Statua della Libertà?" L'ho vista, risponderò. L'ho vista, piccola ma
inconfondibile, dalla fermata della metro di Smith St., e in mezzo a noi c'era
una grata di metallo, cui mi sono aggrappato più di una volta, cercando di
fermare la città e di abbracciarne ogni sfumatura, dalle cartoline agli angoli
più spigolosi, amandole tutte nello stesso modo infantile, inutile e doloroso.
E quando mi chiederanno, perché lo faranno, "Ma allora che cosa hai
visto?", per questa volta non tirerò fuori la storia del non-lo-so-neppure-io o dell'in-fondo-New-York-non-esiste, oppure è-solo-uno-stato-d'animo, l'ho già detto
e scritto troppe volte, mi sto annoiando da solo. No, questa volta non parlerò
di come sia difficile vedere qualunque cosa o di come in fondo la filosofia ci
insegni che non possiamo mai dire che cosa abbiamo visto "davvero".
Basta. Ci hai rotto i coglioni. Hanno ragione (almeno in parte). Stavolta dirò
che nelle mie percezioni confuse e nei miei dubbi c'ero io, che le mie storie e
le mie incertezze nascondono (e svelano) la mia vita, e che proprio per la loro
stranezza frastagliata sono l'unica prova del fatto che io di lì, in mezzo a
giorni di novembre quasi sempre ventosi e assolati, ci sono passato realmente.
Dirò anche, nonostante Italo Calvino e le sue città che si modellano sull'occhio
e soprattutto sul racconto di Marco Polo, che mi terrò molti segreti, tutti
quei ricordi di cui non ho scritto, e di cui inevitabilmente, a un certo
livello conscio, (non) mi dimenticherò. Perché lì dentro, oltre a un'idea
chiamata New York ci sono (stato) anch'io.
Ancora
una cosa
Quando stiamo per entrare alla Neue Gallery il
cielo si fa cupo e si alza il vento. Del resto è Vienna quella che adesso
attraversiamo, non più un angolo dell'Upper East Side. Vienna fine Ottocento,
un posto dove le cose accadevano e dove neppure il perbenismo asburgico
riusciva a spegnere le braci oltraggiose del desiderio. È giusto quindi che ad
accoglierci ci siano almeno un paio di Egon Schiele, e che all'ingresso dello
shop facciano bella mostra di sé occhiali da sole ispirati al dottor Freud. Ma
l'emozione più intensa non sarà la splendida libreria a darmela e neppure il
rinomato caffè che mette in coda tanti raffinati newyorchesi. Sarà qualcosa di
più scontato, sarà Kandinsky, visto e rivisto, amato e poi dimenticato, una
specie di vecchio amico d'infanzia reincontrato per caso, se credete nel caso,
molti anni dopo. Più vecchio, un po' imbolsito, ma per me sempre così
inspiegabilmente evidente. Il buon vecchio Vassilij, come se gli ultimi
vent'anni non fossero mai
passati. Ho paura di pensare di essere venuto a New York
(anche) per questo...
In ogni caso i temporali, prima o poi,
passano, e all’uscita dalla Neue una signora ci invita ad affrettarci a entrare
a Central Park perché c'è ancora da vedere un frammento di tramonto sopra il lago
intitolato a Jackie Kennedy[19].
E allora corriamo.
[1] E anche
di Jonathan Lethem, visto che ho cercato per giorni di diventare parte
dell'anima di Brooklyn, con una determinazione cocciuta che mi ha fatto pensare
che magari il quartiere fosse spaventato dalla mia nitida sensazione di
sentirmi a casa su Court St. e pure passando di notte sotto le impalcature da
film noir della metropolitana sopraelevata a Smith St.
[2] E per
estensione di tutti i miei ultimi 25 anni, passati a pensare l'America, passati
ad aspettare, drogandomi follemente di rappresentazioni, il momento in cui
sarebbe successo qualcosa, quella cosa che è Hemingway e Philip Roth, Wes
Anderson e Billy Crystal, Joan Didion e Blue
Train, la birra di Pollock, l’ingresso al MoMA e la mia personale religione
che ruota intorno alle grandi tele di Mark Rothko, le lacrime durante il volo
di andata guardando un film di fantascienza con tanto di robot giganti, e le
ragazze, una in particolare, che fanno acquisti da Uniqlo sulla Fifth Avenue, tutto questo insieme, in un unico
momento espanso, l'esplosione nucleare nel suo momento perfetto, solo
deflagrazione e spettacolo, prima dello strazio inalienabile del fall out...
[3] John Ashberry, Paradoxes and Oxymorons
[4] Claudia Roth Pierpont, Roth
Unbound - A Writer and his Books, Farrar Straus and Giroux.
Il
libro l’ho acquistato la mattina di sabato in una libreria molto cool a Dumbo.
La sera, ritrovandomi con l’amico che viaggiava con me, ne ho ricevuta in
regalo da lui un’altra copia. Nessun dubbio che i libri scelgano noi con una
certa perseveranza.
[5] Fame
di realtà, edito in Italia da Fazi. Un testo di teoria letteraria che ha
portato un’aria nuova.
[6] Nei
giorni successivi andrò a spasso per Park Slope con la segreta speranza di
incrociare Auster o, per lo meno, il suo personaggio Quinn, ossia uno che finge
di essere l'investigatore privato che nel libro risponde al nome di Paul
Auster, circolo piuttosto intrigante che si chiuderà in maniera del tutto
imprevista, io ormai tornato a Milano senza aver coronato l'incontro, con una
dedica per me sul suo ultimo libro che le mani eleganti di un'amica hanno
consegnato proprio allo scrittore, come documentato da una foto fatta con l'iPhone.
[7] Stetson! You who were with
me in the ships at Mylae
[8] Ovviamente
è altrettanto chiaro che, a un prezzo che a molti potrebbe apparire troppo
alto, in un'altra delle molteplici dimensioni dell'universo delle SuperStringhe
la salva effettivamente, almeno la mia di vita, e forse anche quella dell'ottimo
David - chissà che, attraverso vie piuttosto imperscrutabili non lo abbia fatto
anche per un altro David, che nel 2008 ha deciso di avere visto abbastanza -
fornendoci una chiave interpretativa per il completo caos di una qualunque
ordinaria giornata, quotidianamente folle come Achab che attraversa frenetico
il ponte del Pequod, battendo ostinatamente il proprio arto artificiale.
[9] Essendo
pure venerdì - qualunque cosa significasse a quel punto della mia giornata
iniziata 23 ore prima in un'alba ordinaria della provincia milanese - l'attesa
per le vie di Chinatown era stata in fondo più che ragionevole.
[10] (Qualcosa
che assomiglia all'immortalità). Cfr. David Foster Wallace, Brevi interviste con uomini schifosi
[11] Per
quanto ancora David Shields mi ricordi in modo inconfutabile che per chi è
affetto dalla sindrome letteraria l'unica dimensione di possibile verità -
possibile, si badi - risiede nella parola scritta, cioè, cosa che terrorizzava
il giovane Salinger che probabilmente ne aveva visto su di sé le nefaste
conseguenze, un fatto si libera dal suo essere una cosa del tutto priva di
significato e di rilevanza solo nel momento in cui viene scritto o, per
estensione, letto, e in entrambi i casi lo scenario, per quanto esaltante, ha
pure senza dubbio uno sfondo di Terra Desolata individuale, e individualista.
Per la precisione
Shields scrive: "Se non la scriverò, l'esperienza non
verrà realmente registrata. Il linguaggio, prima passato da prigione a rifugio,
torna a essere prigione".
[12] Cfr. Infinite Jest, l’opera mondo di DFW.
[13] Essi
ci guardano dalle Torri. Titolo originale: The Watchtowers
[14] Lui non
c'era quel pomeriggio, ma il gestore è stato squisito, perfetto anche senza
l'aggravante della celebrità.
[15] D.H. Lawrence, Classici Americani
[16] (E i
lillà continuano, facendosi beffa della storia, o meglio delle balbuzie dei suo
analisti razionali, a fiorire nel prato davanti alla casa. Anche se il Capitano
- mio Capitano - se ne è andato,
anzi, soprattutto perché lui se ne è andato.
[17] Il protagonista del monumentale
romanzo di Philip Roth, Il Teatro di
Sabbath, National Book Award nel 1995. Difficile dirlo, ma molto
probabilmente è il capolavoro di Roth. Harold Bloom e J.M. Coetzee concordano
[18] Anche se perfino gli
addetti alla security del JFK saranno
gentili con me, in modi che mi indurranno, ciclotimico quale sono, a preziosi e
strazianti attimi di commozione: piangerò, di nascosto, riconsegnando a
un'altra viaggiatrice i guanti di lana di alpaca che aveva dimenticato nel
cestino degli effetti personali dopo il body scan.
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