Su La grande bellezza di Paolo Sorrentino
Kurtz
muore, alla fine di Cuore di Tenebra,
ripetendo una parola: “L’orrore,
l’orrore”. Muore soffocato dall’immensità della foresta e dalla profondità
dell’animo umano. Muore per non poter andare oltre, troppo lontano si era già
spinto. E oltre resta solo l’orrore. Quell’orrore che scivola leggero sulla
schiena del passeggero di certi taxi notturni, quando il guidatore azzarda una confidenza tagliente, quell’orrore
che si crea al culmine di un casting televisivo, figlio della somma di tutte le
speranze dei candidati o quando tutte le donne indossano scarpe peep-toe, quelle spaventose calzature
fatte apposta perché dalla tomaia spunti, allucinatorio, l’alluce delle signore.
In quell’orrore oleoso Kurtz si lascia annegare, mentre Jep Gambardella, lo
stanco protagonista de La grande bellezza
di Paolo Sorrentino, ha la forza di
respirarlo, anzi di farlo suo, di auto proclamarsi re di questo impero oscuro,
intuendo che l’unico modo per sopravvivere all’Idra è, in qualche modo, diventare l’Idra, o, per lo meno, avere
la tolleranza di credere che non tutto sia Idra, un po’ come diceva Italo
Calvino. E dunque, nel cuore di una Roma che non si è mai allontanata dal tardo
impero, in questo geniale performer capace di dare scacco alla Storia, ecco che
il giornalista interpretato da Toni
Servillo (nessun aggettivo, è già tutto nel copyright dell’attore più-qualunque-cosa in Italia da qualche anno, ma la relazione con Sorrentino è al di sopra di ogni
sospetto, e ancora a entrambi siamo grati per Le conseguenze dell’amore), pur incredibilmente lucido, sceglie di
organizzare quelle feste fine-del-mondo,
popolate di corpi decrepiti e bocche impazzite, kitsch e arrivismo, cafoneria
e, sotto sotto, anche un briciolo di tenerezza. Briciole che diventano
ingombranti grazie all’occhio del regista, capace di usare la Carrà
reinterpretata da quell’essere fantascientifico che è il Dj Bob Sinclair
(ricordate le sue pubblicità di una marca di mutande? Ipnotiche come un dipinto
di Bacon) per dire, tacendo, una
serie di verità che subito diventano assertive come un Laocoonte illuminato dalle torce la notte in cui Napoleone scese al
Louvre per ammirarlo, fresco di trafugamento dall’Italia conquistata.
La festa
che apre il film, ne verranno altre certo, ma nessuna così repentina, è una
lezione su come si dovrebbe pensare,
o, traducendolo nel mestiere, scrivere e de-scrivere il mondo. Vengono in mente
il contagio professato – sul serio – da gente come Walter Siti o l’empatia professionale di un David Foster Wallace (ecco, Una
cosa divertente che non farò mai più
ha la stessa qualità di fondo de La
grande bellezza; la stessa luce, direbbe forse un pittore poco fantasioso),
attitudini che si sublimano e si incarnano nell’abito, sempre che questa sia la
parola giusta, indossato da Sabrina Ferilli in un’altra delle innumerevoli
occasioni mondane (e folli, nel senso in cui lo sono, per esempio, certe pagine
di Moby Dick, ben più, tanto per
restare sull’attualità cinematografica, di quelle, per altri versi
assolutamente magnifiche, di Scott
Fitzgerald). E mai come sotto la direzione di Sorrentino la Ferilli diventa
se stessa, si prende in carico il film, se ne fa musa controvoglia, come
controvoglia, almeno a sentire René Girard, Amleto mette in atto la propria
vendetta, cui non può rinunciare ma cui, al tempo stesso, non vuole dare la
propria adesione (ricordate sempre Cioran: “Nessuna delle nostre azioni merita la nostra adesione”, parole di
un’importanza che ancora forse non abbiamo capito). Paolo Sorrentino però lo
sa, e su questa massima modella, o almeno prova a modellare, il suo
protagonista, tenendosi comunque le mani in parte libere per inserire le sue
debolezze, le sue imperfezioni, le sue vie d’uscita. Cose che forse depotenziano
l’idealtipo di Gambardella, ma pure
lo rendono più umano, più vicino al pubblico, già stremato dalla inusitata
violenza della ricchezza e del privilegio, dall’inscindibile intreccio tra
l’inconcepibilmente brutto e l’insostenibilmente bello, come ben sta a
dimostrare la scena – ai limiti del tollerabile – in cui la bambina artista
crea, sotto gli occhi infernali degli adulti, il proprio dripping capolavoro, piangendo.
La grande bellezza è un film che ammicca alla
televisione, lo fa in un modo che, senza contraddizione, è tanto smaccato
quanto segreto: crea quella distanza ironica che gratifica lo spettatore
sofisticato, ma, allo stesso tempo, lo
solletica in modo voyeuristico, in questo senso con perfetta coerenza con
la flánerie solo parzialmente morbosa
del suo protagonista, un casto guardone (anche per mestiere) nello spettacolo
allucinante della società. In questo calderone visivamente esplosivo, come lo
erano stati i titoli di testa de Il Divo,
noi rischiamo di perdere il senno come Kurtz, ma a salvarci arriva quella
bellezza senza senso che trae scaturigine proprio dall’estremo orrore, che non
sono i fenicotteri sul balcone (umano,
troppo umano), ma, per esempio, il tavolo da poker notturno per principesse
annoiate e decrepite, o la zoppia
dell’uomo che ha le chiavi di tutti i palazzi di Roma (e qui non posso non
pensare all’agrimensore K.), o ancora nella scena, assoluta, in cui Gambardella
incontra, forse per l’unica volta in tutto il film, quella che, con
un’approssimazione quasi imbarazzante, possiamo chiamare gente comune.
L’assedio della realtà (presunta,
ovviamente, molto alla Rembrandt)
produce una breccia e il mostro ci si tuffa con tutti i suoi tentacoli, che
però il regista recide poco dopo (non subito, l’estetica prima di tutto) con la
sua spada cinematografica degna dell’Arcangelo Michele, colui che schiaccia i
demòni. Perché il cinema è sogno e solo il sogno ci può dire qualcosa che
assomigli, dal profondo della nostra caverna, a un’ombra di (im)possibile
verità.
Ci sono,
ovviamente, delle debolezze (il ragazzo suicida è noioso, il cardinale di
Herlitzka – nella magnificenza del suo interprete – non esce quasi dalla
macchietta, salvato solo dalla sua ultima inquadratura, il percorso spirituale
di Gambardella è fiacco, la santa è una metafora troppo esplicita della
componente ideologica del film), ma
non pesano, schiacciati dalla bellezza
crudele ed empatica della messa in scena ravvicinata (qui ci sta bene la
figura devastata di Serena Grandi, ottimo il suo personaggio, salvo, inversamente proporzionale a Herlitzka, l’ultima inquadratura). Che brilla anche, mi sia concesso
l’arbitrario elenco, per una serie vertiginosa di citazioni e ammiccamenti, veri o presunti, a
Bellocchio (L’ora di religione, ma
pure qualcosa della leggerezza de Il
regista di matrimoni), a Nanni Moretti (il ballo nel giardino dopo il
matrimonio, quasi La Messa è finita,
ma anche il personaggio del vicino di casa latitante che sembra un caimano,
ancora una volta alla Walter Siti), a Fellini (straordinaria e onirica la scena
con la zebra nel Teatro Marcello), a Bernardo Bertolucci (la sua ossessione per
la prima volta, la bellezza quasi
urticante del volto della ragazza che chiude il film, prima dei titoli di
coda fluviali), a Kubrick (il mantello della Ferilli, la scena nel colonnato prospettico,
un altro modo di fare Eyes Wide Shut)
e perfino un cameo per Cosmopolis di
Cronenberg (quella limousine bianca e attonita persa nella notte romana), ma
questo forse in sala non lo ha visto nessun altro…
Sorrentino
e Servillo sono talmente bravi da circoscrivere pure Verdone e il suo
personaggio, anche lui deboluccio (seppur forse realmente umano, ma chissenefrega direbbe Giuseppe Cruciani)
nel finale, ma gustosamente
insopportabile (quasi come il suo interprete, con cui, lui mi perdoni, io
ho un conflitto insoluto, ma temo sia una forma di cripto identificazione
purtroppo) nella prima parte del film. Meraviglioso invece, seppur tecnicamente
orrendo (eccola la morale del film! Habemus!)
l’accompagnatore della Santa interpretato da Dario Cantarelli, immagine
perfetta dei sorrisi violenti e intimidatori dei devoti fanatici che altro non
sono che un memento mori, stretto in
una camicia che anticipa l’inevitabile
apocalisse. Quella fine del mondo che incombe, con la sua bellezza, su una
Roma che è solo se stessa, ossia un incubo tout
court, nel quale, come dice Jep durante l’ennesima festa in cui la matura
platea perde giudiziosamente il controllo, “I nostri trenini sono i migliori,
perché non vanno da nessuna parte”.
Post Scriptum.
In ogni
caso vince lui, Sorrentino. Perché nonostante tutto si esce dal cinema con la
voglia di innamorarsi (“di una donna, di un animale, di una borsa di
coccodrillo, di uno straccio d’ideale” diceva Baccini) almeno un’altra volta nella vita.
Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine