“Quando pensi a un racconto ti concentri necessariamente su uno spazio e su un tempo limitato, non costruisci un quadro troppo vasto, ma punti i riflettori su un momento particolare, sul momento di una crisi”. Charles D’Ambrosio, scrittore americano che debutta in Italia con la raccolta di racconti “Il museo dei pesci morti” edita da Minimim Fax, spiega così come nasce una short-story e, al tempo stesso, fornisce una chiave di lettura per i suoi lavori che parlano di persone con problemi mentali, che vivono ai margini dello scintillio dello star system, che attraversano con sguardo attonito i panorami vastissimi dell’America. E che, soprattutto, raccontano di uomini e donne che sembrano sempre sul punto di vivere una profonda crisi. La stessa che sembra attraversare anche la società statunitense: “I miei personaggi – mi ha spiegato D’Ambrosio, a Milano per incontrare il pubblico italiano nella libreria di charme ‘Sulla Strada’ – rappresentano degli aspetti dell’America, sono coinvolti nel panorama americano e hanno problemi che riguardano tutta la nostra società”.
Nato a Seattle e ora residente a Portland nell’Oregon, D’Ambrosio ha scritto finora due libri di racconti e una raccolta di saggi. Inevitabile il paragone con Raymond Carver, il grande scrittore che ha rilanciato la forma del racconto una trentina d’anno dopo i fasti di Ernest Hemingway. Con voce profonda e gentile D’Ambrosio ha ricostruito il quadro di quel periodo, in cui la short-story ha conosciuto in America una vera e propria rinascita: “Carver ha scritto solo racconti e ha pubblicato grandi raccolte in un breve lasso di tempo. Sulla sua scia sono usciti diversi libri di racconti – come quelli di Richard Ford o Tobias Wolff – che piacevano molto e avevano molto mercato. Negli Stati Uniti è il mercato che detta le leggi e oggi quella stagione è finita, i racconti non si vendono più”.
Se le vendite possono essere un problema, la critica ha invece accolto con grande favore i libri di D’Ambrosio, apprezzato da colleghi autorevoli come Michael Chabon e da esordienti di grido come la bella Marisha Pessl (come mi ha confidato lei stessa, che ho intervistato qualche settimana fa). Nei suoi racconti, che hanno il dono di raccogliere in poche pagine grandi temi, come la malattia, il rapporto padri-figli, la violenza domestica, si sente il lavoro oscuro dello scrittore (il famoso “iceberg” di Hemingway”) che riesce a selezionare l’essenzialità pur partendo da una vastissima base di sentimenti, nozioni, implicazioni sociali e morali. “Sono le storie che scrivo – ha spiegato D’Ambrosio – che mi dicono, andando avanti pagina dopo pagina, cosa fare e dove andare e con il mio linguaggio cerco di dare un contributo alla verità, perché il linguaggio è molto democratico, o almeno dovrebbe esserlo”.
Ne “Il museo dei pesci morti” c’è un bellissimo racconto – “Drummond e figlio” – nel quale D’Ambrosio racconta del rapporto tra un riparatore di vecchie macchine da scrivere e il suo problematico figlio. Tra dialoghi disarticolati, esplosioni di misticismo e piccole costanti attenzioni, la storia arriva al punto in cui il padre, apparentemente senza motivo, dice al ragazzo “Ti voglio bene”. “Una frase di questo tipo – ha spiegato D’Ambrosio – è molto difficile da dire tra due uomini, soprattutto in America. E per arrivare a quella frase ho dovuto costruire una giornata intera intorno a questo momento, creare le condizioni e le circostanze che giustifichino quell’ultima riga”. Spesso le conclusioni dei racconti di D’Ambrosio sono immagini che, dopo pagine che hanno indagato senza indulgenza nelle miserie umane, lasciano un senso si sollievo, di speranza. “Io credo nella speranza – ha detto lo scrittore – anche quando è inutile, c’è sempre qualcosa di buono”.
Un altro dei temi che ritornano con frequenza nelle storie di D’Ambrosio è la religione, spesso descritta come ossessione molto vicina al delirio. “Stiamo andando verso un periodo di follia religiosa – ha detto D’Ambrosio” – che coinvolge direttamente non solo il Medio Oriente ma anche gli Stati Uniti, dove abbiamo un presidente fondamentalista. Il fondamentalismo non è religione, ma aberrazione. E’ una perversione delle possibilità della religione. Il XX secolo ha visto la maggior parte delle stragi compiute da gente che voleva eliminare la religione, ora ci troviamo a fronteggiare il problema opposto, con gente che ha bisogno di fede e finisce con il rispondere a questo bisogno abbracciando una fede corrotta, fondamentalista”.
In un celebre passo de “La Peste” di Albert Camus il protagonista, il dottor Bernard Rieux, dice che “la peste si combatte con l’onestà”. Martina Testa, traduttrice e curatrice dell’edizione italiana del libro di D’Ambrosio, ha scritto che proprio l’onestà è ciò che più l’ha colpita nell’opera dello scrittore di Seattle. Forse un piccolo contributo alla lotta contro le numerose piaghe che affliggono il nostro presente può in qualche modo venire anche dai racconti di Charles D’Ambrosio.
26 dicembre 2006
13 dicembre 2006
Zona Franzen
C'è voluto un po' di tempo, ma alla fine i lettori che hanno amato "Le Correzioni" possono tornare ad assaporare lo stile di Jonathan Franzen in un nuovo libro, "Zona disagio", che Einaudi pubblica ora in Italia. Dopo avere scoperto i primi romanzi dello scrittore, averne apprezzato lo stile di saggista e - questo forse con un briciolo di esasperazione - aver scovato i suoi giudizi lusinghieri sulle copertine di diversi libri di altri autori, ecco che per i molti fan di Franzen si presenta una duplice opportunità: godere di un suo nuovo lavoro e, al tempo stesso, scoprire molto sulla personalità e la storia del romanziere di St. Louis. "Zona disagio" è infatti un libro autobiografico, che in pratica torna sul "luogo del delitto" de "Le correzioni", ossia la famiglia e l'enorme complessità dei rapporti al suo interno, sostituendo ai personaggi di finzione i genitori, i fratelli, gli amici, le fidanzate vere o presunte di Franzen.
Costruito per capitoli che potrebbero anche avere vita propria, e infatti quello intitolato "Il mio problema ornitologico" era già apparso sul New Yorker e in italiano su Internazionale, "Zona disagio" è una sorta di storia dell'educazione sentimentale del giovane Jonathan, che finisce però inevitabilmente, pur con le molte divagazioni evidentemente private, per diventare anche la fotografia di una società e di un periodo storico che l'autore pone come sfondo al proprio racconto.
Il talento di Franzen - che si conferma scrittore di inconsueta solidità - emerge soprattutto nelle pagine dedicate alla sua infanzia di bambino ultrasensibile, solitario e anche un po' disadattato. Con leggerezza ecco che pagina dopo pagina si tratteggia il profilo di un ragazzino che ha vissuto sulla sua pelle quanto sia difficile essere sempre il primo della classe e quanto spesso il mondo fuori di noi rappresenti una delusione. E quindi il ricorso a un mondo alternativo, fatto di tentativi di apparire diverso (a un certo punto racconta dei suoi sforzi per dire frequentemente "merda" con disinvoltura) e di grandi letture fantasy e passione smodata per i fumetti, in particolare i Peanuts di Charles Schulz. "Volevo vivere - scrive Franzen - nel mondo dei Peanuts, dove la rabbia era buffa e l'insicurezza adorabile". Ma poco oltre ecco la nota che contraddistingue la sua impietosa capacità di interpretare le dinamiche familiari: "Volevo che tutti i membri della mia famiglia andassero d'accordo e che nulla cambiasse; ma improvvisamente, dopo che Tom era scappato di casa, era come se tutti e cinque ci fossimo guardati intorno e ci fossimo chiesti perché avremmo dovuto stare insieme, senza trovare molte risposte plausibili".
Dall'ossessione del padre per la regolazione del termostato di casa sulla "Zona benessere" - da cui il titolo del libro - alle mancate avventure sentimentali dello studente di college; dalle bravate del gruppo goliardico chiamato I DIOTI alla nevrotica passione per il bird-watching, il libro di Franzen è un viaggio senza paraocchi nella complessità della vita, oltre che nella complessità delle persone, in primis dello stesso scrittore. Che come un novello Bartleby, fin dall'asilo, risponde agli inviti dei compagni esuberanti con un sorprendente: "Preferirei non giocare". Ma "Zona disagio" parla anche di dove sta andando l'America, con il progetto di Bush di una "società di proprietari" e gli allarmi di Al Gore sull'imminenza di una catastrofe ecologica. E racconta pure di come un rapporto tra madre e figlio, che sarà sempre difficile e frammentario, possa essere improvvisamente illuminato da una frase come questa: "Non mi piace - dice la donna mentre la visita periodica di Jonathan si stava concludendo - quando si passa l'ora legale mentre sei qui, perché vuol dire che ho un'ora di meno da passare con te". Indimenticabile.
Costruito per capitoli che potrebbero anche avere vita propria, e infatti quello intitolato "Il mio problema ornitologico" era già apparso sul New Yorker e in italiano su Internazionale, "Zona disagio" è una sorta di storia dell'educazione sentimentale del giovane Jonathan, che finisce però inevitabilmente, pur con le molte divagazioni evidentemente private, per diventare anche la fotografia di una società e di un periodo storico che l'autore pone come sfondo al proprio racconto.
Il talento di Franzen - che si conferma scrittore di inconsueta solidità - emerge soprattutto nelle pagine dedicate alla sua infanzia di bambino ultrasensibile, solitario e anche un po' disadattato. Con leggerezza ecco che pagina dopo pagina si tratteggia il profilo di un ragazzino che ha vissuto sulla sua pelle quanto sia difficile essere sempre il primo della classe e quanto spesso il mondo fuori di noi rappresenti una delusione. E quindi il ricorso a un mondo alternativo, fatto di tentativi di apparire diverso (a un certo punto racconta dei suoi sforzi per dire frequentemente "merda" con disinvoltura) e di grandi letture fantasy e passione smodata per i fumetti, in particolare i Peanuts di Charles Schulz. "Volevo vivere - scrive Franzen - nel mondo dei Peanuts, dove la rabbia era buffa e l'insicurezza adorabile". Ma poco oltre ecco la nota che contraddistingue la sua impietosa capacità di interpretare le dinamiche familiari: "Volevo che tutti i membri della mia famiglia andassero d'accordo e che nulla cambiasse; ma improvvisamente, dopo che Tom era scappato di casa, era come se tutti e cinque ci fossimo guardati intorno e ci fossimo chiesti perché avremmo dovuto stare insieme, senza trovare molte risposte plausibili".
Dall'ossessione del padre per la regolazione del termostato di casa sulla "Zona benessere" - da cui il titolo del libro - alle mancate avventure sentimentali dello studente di college; dalle bravate del gruppo goliardico chiamato I DIOTI alla nevrotica passione per il bird-watching, il libro di Franzen è un viaggio senza paraocchi nella complessità della vita, oltre che nella complessità delle persone, in primis dello stesso scrittore. Che come un novello Bartleby, fin dall'asilo, risponde agli inviti dei compagni esuberanti con un sorprendente: "Preferirei non giocare". Ma "Zona disagio" parla anche di dove sta andando l'America, con il progetto di Bush di una "società di proprietari" e gli allarmi di Al Gore sull'imminenza di una catastrofe ecologica. E racconta pure di come un rapporto tra madre e figlio, che sarà sempre difficile e frammentario, possa essere improvvisamente illuminato da una frase come questa: "Non mi piace - dice la donna mentre la visita periodica di Jonathan si stava concludendo - quando si passa l'ora legale mentre sei qui, perché vuol dire che ho un'ora di meno da passare con te". Indimenticabile.
10 novembre 2006
Et alors monsieur Hemingway...
“C’è stato un tempo in cui per me Hemingway era un dio”. La frase – citata a memoria – con cui Italo Calvino apriva il suo saggio del 1954 sullo scrittore di Oak Park (Hemingway e noi, leggetelo) mi ronza in testa da anni. Dal giorno in cui mi sono accorto che anche dentro di me qualcosa si era rotto nei confronti di Hemingway e che forse, accanto a libri straordinari come Fiesta e I quarantanove racconti, c’erano tante, forse troppe pagine nelle quali il romanziere sembrava fare il verso a se stesso, in un autocompiacimento un po’ stucchevole.
Però Hemingway è stato davvero un dio, “ed erano tempi buoni” scrive ancora Calvino come sempre a ragione, e per me ha rappresentato moltissimo. Ancora oggi non smetto di cercare le edizioni più rare dei suoi libri e mi tengo dei momenti privati per leggerlo: Avere e non avere, che mi sono portato in viaggio la scorsa estate, mi è parso tuttora straordinario, La fine di qualcosa è un racconto che ci parla dell’amore come poche altre storie sanno fare. Però Festa mobile, che sto rileggendo in questi giorni, sembra un libro di maniera, ai confini del pettegolezzo, animato da una spasmodica ricerca di ricreare quello stile selvaggio che aveva reso celebre il primo Hemingway. Eppure non riesco a smettere di leggerlo.
Sarà perché contiene una frase che da sola “vale il biglietto” (“Parigi è mia e tu sei mia” immagina di dire Ernest a una sconosciuta che entra nel bar in cui lui sta scrivendo: semplicemente straordinario), sarà perché alla fine leggere Hemingway per me è un po’ come tornare a casa: si ritrovano gli odori e i luoghi di un tempo che la distanza ci fa ricordare come lieto, anche se forse non lo era. Perché è come ritrovare un vecchio amico che si è perduto di vista, oppure come quando nei sogni incontro i miei nonni e loro mi raccontano qualcosa. Ecco, è questo il punto. Hemingway per me è stato come uno di famiglia che poi un giorno se ne è andato (o forse me ne sono andato io). Che lo voglia o meno, in qualche modo sarò sempre legato a lui. E quindi ben vengano anche le pagine non proprio indimenticabili di Festa mobile.
Però Hemingway è stato davvero un dio, “ed erano tempi buoni” scrive ancora Calvino come sempre a ragione, e per me ha rappresentato moltissimo. Ancora oggi non smetto di cercare le edizioni più rare dei suoi libri e mi tengo dei momenti privati per leggerlo: Avere e non avere, che mi sono portato in viaggio la scorsa estate, mi è parso tuttora straordinario, La fine di qualcosa è un racconto che ci parla dell’amore come poche altre storie sanno fare. Però Festa mobile, che sto rileggendo in questi giorni, sembra un libro di maniera, ai confini del pettegolezzo, animato da una spasmodica ricerca di ricreare quello stile selvaggio che aveva reso celebre il primo Hemingway. Eppure non riesco a smettere di leggerlo.
Sarà perché contiene una frase che da sola “vale il biglietto” (“Parigi è mia e tu sei mia” immagina di dire Ernest a una sconosciuta che entra nel bar in cui lui sta scrivendo: semplicemente straordinario), sarà perché alla fine leggere Hemingway per me è un po’ come tornare a casa: si ritrovano gli odori e i luoghi di un tempo che la distanza ci fa ricordare come lieto, anche se forse non lo era. Perché è come ritrovare un vecchio amico che si è perduto di vista, oppure come quando nei sogni incontro i miei nonni e loro mi raccontano qualcosa. Ecco, è questo il punto. Hemingway per me è stato come uno di famiglia che poi un giorno se ne è andato (o forse me ne sono andato io). Che lo voglia o meno, in qualche modo sarò sempre legato a lui. E quindi ben vengano anche le pagine non proprio indimenticabili di Festa mobile.
01 novembre 2006
Ritratto dell'artista, malinconico e provocatore
Manichini impiccati in piazza, spazi espositivi alla Biennale di Venezia venduti in subappalto, opere d’arte rubate ed esposte in altre gallerie, scoiattoli suicidi, un Hitler che supplica perdono. Ecco alcuni dei temi delle opere dell’artista padovano Maurizio Cattelan cui l’editore Electa ha dedicato un’agile e interessante monografia nella nuova collana “Supercontemporanea”.
Classe 1960, autodidatta e provocatore, Cattelan è oggi uno degli artisti più quotati sul mercato ed è stato chiamato a dirigere l’edizione 2006 della Biennale di Berlino. Nonostante i riconoscimenti però, spiega Francesco Manacorda nel saggio che accompagna la raccolta di opere di Cattelan, l’artista rimane “un Gianburrasca che si rifiuta ad aeternum di inserirsi nel mondo adulto”, oltre che un fiero contestatore dell’autorità. “Ogni padre, – scrive ancora Manacorda – modello di ruolo, buono o cattivo maestro non solo è ridicolizzato e simbolicamente ucciso ma deprivato grottescamente di ogni possibile autorevolezza, gravitas e posizione etica o simbolica”. La famosissima e controversa scultura che ritrae Giovanni Paolo II morente perché colpito da un meteorite (“La nona ora”) è il perfetto esempio di questa volontà di rifiutare modelli e sottomissioni, anche morali.
Il volume Electa presenta un’ampia selezione dei lavori più noti di Cattelan. E’ possibile partire da “Strategie”, nel quale l’artista riproduce un numero di Flash Art – la rivista di settore più importante in Italia – nel quale mette in copertina una propria opera. Si può poi proseguire con “Super noi”, raccolta di 50 suoi ritratti segnaletici realizzati da “collaboratori della polizia in seguito a descrizioni di diversi suoi amici”. Il tema del furto è ricorrente nel lavoro di Cattelan e viene esplicitato tanto nell’installazione “-157.000.000” , nella quale compare una cassaforte scassinata, quanto in “Another Fucking Ready-Made”, dissacrante allestimento realizzato con opere d’arte rubate da una galleria privata di Amsterdam.
Altro tema che attraversa tutta la carriera di Cattelan è quello della fuga: “Una domenica a Rivara” è in sostanza una serie di lenzuola annodate tra loro che sono calate da una finestra di un castello. “Se è possibile – scrive Manacorda – descrivere questo lavoro come una scultura, forse sarebbe più appropriato pensarlo come i resti di una performance di fuga dell’artista, dal mondo adulto ma anche dal mondo dell’arte e dalla mostra”. Una fuga che spesso è anche quella dalla vita. La straziante opera “Bidibibodibiboo” presenta il suicidio di uno scoiattolo, che si è appena sparato un colpo alla tempia nella riproduzione di una cucina che ricorda quella dell’infanzia dell’autore. “L’arte – spiega ancora Manacorda - per Cattelan diventa quindi il palcoscenico a volte comico e grottesco, altre volte oscuramente tragico in cui mettere in scena gli aspetti più irrisolti della fatica di esistere”.
L’arte di Cattelan non è mai facile, nonostante la verosimiglianza di molte sue sculture e il forte impatto emotivo che possono avere un Hitler genuflesso nell’atto (forse) di chiedere perdono o un ragazzino con le mani inchiodate da matite al banco di scuola. Intorno a Cattelan sono infuriate polemiche roventi, come quella per l’installazione in piazza XXIV Maggio a Milano di tre sculture di bambini impiccati o quella intorno alla già citata opera su Papa Wojtyla. Rimane il fatto però che confrontarsi anche con gli aspetti più aspri della poetica dell’artista veneto è un modo per aggiungere un altro tassello alla conoscenza del presente. Come scrive il curatore della collana di Electa, Francesco Bonami, “non abbiate paura dell’arte contemporanea, il peggio che vi può capitare è che non vi piaccia”.
Classe 1960, autodidatta e provocatore, Cattelan è oggi uno degli artisti più quotati sul mercato ed è stato chiamato a dirigere l’edizione 2006 della Biennale di Berlino. Nonostante i riconoscimenti però, spiega Francesco Manacorda nel saggio che accompagna la raccolta di opere di Cattelan, l’artista rimane “un Gianburrasca che si rifiuta ad aeternum di inserirsi nel mondo adulto”, oltre che un fiero contestatore dell’autorità. “Ogni padre, – scrive ancora Manacorda – modello di ruolo, buono o cattivo maestro non solo è ridicolizzato e simbolicamente ucciso ma deprivato grottescamente di ogni possibile autorevolezza, gravitas e posizione etica o simbolica”. La famosissima e controversa scultura che ritrae Giovanni Paolo II morente perché colpito da un meteorite (“La nona ora”) è il perfetto esempio di questa volontà di rifiutare modelli e sottomissioni, anche morali.
Il volume Electa presenta un’ampia selezione dei lavori più noti di Cattelan. E’ possibile partire da “Strategie”, nel quale l’artista riproduce un numero di Flash Art – la rivista di settore più importante in Italia – nel quale mette in copertina una propria opera. Si può poi proseguire con “Super noi”, raccolta di 50 suoi ritratti segnaletici realizzati da “collaboratori della polizia in seguito a descrizioni di diversi suoi amici”. Il tema del furto è ricorrente nel lavoro di Cattelan e viene esplicitato tanto nell’installazione “-157.000.000” , nella quale compare una cassaforte scassinata, quanto in “Another Fucking Ready-Made”, dissacrante allestimento realizzato con opere d’arte rubate da una galleria privata di Amsterdam.
Altro tema che attraversa tutta la carriera di Cattelan è quello della fuga: “Una domenica a Rivara” è in sostanza una serie di lenzuola annodate tra loro che sono calate da una finestra di un castello. “Se è possibile – scrive Manacorda – descrivere questo lavoro come una scultura, forse sarebbe più appropriato pensarlo come i resti di una performance di fuga dell’artista, dal mondo adulto ma anche dal mondo dell’arte e dalla mostra”. Una fuga che spesso è anche quella dalla vita. La straziante opera “Bidibibodibiboo” presenta il suicidio di uno scoiattolo, che si è appena sparato un colpo alla tempia nella riproduzione di una cucina che ricorda quella dell’infanzia dell’autore. “L’arte – spiega ancora Manacorda - per Cattelan diventa quindi il palcoscenico a volte comico e grottesco, altre volte oscuramente tragico in cui mettere in scena gli aspetti più irrisolti della fatica di esistere”.
L’arte di Cattelan non è mai facile, nonostante la verosimiglianza di molte sue sculture e il forte impatto emotivo che possono avere un Hitler genuflesso nell’atto (forse) di chiedere perdono o un ragazzino con le mani inchiodate da matite al banco di scuola. Intorno a Cattelan sono infuriate polemiche roventi, come quella per l’installazione in piazza XXIV Maggio a Milano di tre sculture di bambini impiccati o quella intorno alla già citata opera su Papa Wojtyla. Rimane il fatto però che confrontarsi anche con gli aspetti più aspri della poetica dell’artista veneto è un modo per aggiungere un altro tassello alla conoscenza del presente. Come scrive il curatore della collana di Electa, Francesco Bonami, “non abbiate paura dell’arte contemporanea, il peggio che vi può capitare è che non vi piaccia”.
24 ottobre 2006
L'Odissea perfetta
Qual è il miglior film della storia? Quante volte abbiamo sentito la domanda e abbiamo provato ad abbozzare una risposta... In base a dei ricordi un po’ confusi di vecchie letture, pare che per lungo tempo il titolo sia stato assegnato (non si sa bene da chi, ma di certo da più parti) a “Quarto Potere” di Orson Welles. Secondo la classifica di Imdb.com (una sorta di bibbia per i cinefili telematici) al primo posto si colloca invece “Il Padrino” di Francis Ford Coppola. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Altri ancora indicano "Pulp Fiction" di Tarantino, mentre non manca chi pensa alle opere di Ejzenstein o di Chaplin. Insomma, come tutte le classifiche anche questa è pressoché impossibile da stilare e, Kilgore lo ammette, ostinarsi a volerle mettere nero su bianco è anche un po’ stupido. Però è incredibilmente divertente!
Tutto questo pesante cappello per raccontare che l’altra notte ho rivisto “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick e mi sono convinto che, tra quelli che conosco, potrebbe essere davvero il miglior film di sempre. Al di là della trama (Kilgore ama molto la fantascienza di Clarke, assai più di quella di Asimov) che in molte parti può risultare oscura, la forza straordinaria e, a mio avviso, tuttora insuperata del film sta nelle immagini. Come recitava il trailer originale siamo davvero di fronte a un’esperienza visiva senza precedenti, che si fissa nella mente dello spettatore e non se ne va più. In particolare continuo a restare a bocca aperta davanti alle immagini dell’interno dell’astronave: hanno una perfezione e una definizione che, pur a quasi 40 anni di distanza, le rendono insuperabili.
Mi viene in mente l’esattezza teorizzata da Calvino in una delle sue “Lezioni americane”: un concetto che è insieme estetico ed etico e che definisce il perimetro esterno della perfezione. Ecco, le immagini di Odissea nello spazio sono semplicemente perfette in ogni dettaglio. Il grandangolo riprende un campo visivo vastissimo, eppure ogni punto è perfettamente esposto, in una maniera così naturale che ci fa pensare che Kubrick abbia davvero inventato un mondo che non c’è. Straordinario. Pensate alla luce che si irradia sul corpo di Poole mentre fluttua nello spazio senza vita. Pensate ai pulsanti luminosi nella plancia di comando di Bowman o all’illuminazione impossibile delle intercapedini di passaggio tra un settore e l’altro dell’astronave. E’ come se ogni fotogramma fosse una fotografia superba per inquadratura ed esposizione.
Certe classifiche non hanno senso, lo ripetiamo, ma se lo avessero nella mia privata forse Odissea nello spazio starebbe davvero al primo posto.
Tutto questo pesante cappello per raccontare che l’altra notte ho rivisto “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick e mi sono convinto che, tra quelli che conosco, potrebbe essere davvero il miglior film di sempre. Al di là della trama (Kilgore ama molto la fantascienza di Clarke, assai più di quella di Asimov) che in molte parti può risultare oscura, la forza straordinaria e, a mio avviso, tuttora insuperata del film sta nelle immagini. Come recitava il trailer originale siamo davvero di fronte a un’esperienza visiva senza precedenti, che si fissa nella mente dello spettatore e non se ne va più. In particolare continuo a restare a bocca aperta davanti alle immagini dell’interno dell’astronave: hanno una perfezione e una definizione che, pur a quasi 40 anni di distanza, le rendono insuperabili.
Mi viene in mente l’esattezza teorizzata da Calvino in una delle sue “Lezioni americane”: un concetto che è insieme estetico ed etico e che definisce il perimetro esterno della perfezione. Ecco, le immagini di Odissea nello spazio sono semplicemente perfette in ogni dettaglio. Il grandangolo riprende un campo visivo vastissimo, eppure ogni punto è perfettamente esposto, in una maniera così naturale che ci fa pensare che Kubrick abbia davvero inventato un mondo che non c’è. Straordinario. Pensate alla luce che si irradia sul corpo di Poole mentre fluttua nello spazio senza vita. Pensate ai pulsanti luminosi nella plancia di comando di Bowman o all’illuminazione impossibile delle intercapedini di passaggio tra un settore e l’altro dell’astronave. E’ come se ogni fotogramma fosse una fotografia superba per inquadratura ed esposizione.
Certe classifiche non hanno senso, lo ripetiamo, ma se lo avessero nella mia privata forse Odissea nello spazio starebbe davvero al primo posto.
20 ottobre 2006
L'indiano che parlava davvero di pace
Un rifiuto della logica che è alla base della teoria dello "scontro di civiltà" e un invito a riflettere sulla pluralità di appartenenze che caratterizzano ogni uomo: è questo ciò che il premio Nobel Amartya Sen tenta di fare con il suo ultimo saggio, "Identità e violenza", edito in Italia da Laterza. Indiano, rettore a Cambridge e docente ad Harvard, Sen rappresenta una delle voci più impegnate nel portare avanti un'interpretazione etica della globalizzazione, tanto dal punto di vista economico quanto da quello politico. In questo libro, sempre appassionato e coinvolgente, lo studioso contesta l'idea che ciascun essere umano sia definito da un'identità esclusiva, sia essa la nazionalità piuttosto che l'appartenenza religiosa, e accusa tali interpretazioni di essere generatrici di odio e violenza.
"Molti dei conflitti e delle atrocità del mondo - scrive Sen - sono tenuti in piedi dall'illusione di un'identità univoca e senza possibilità di scelta". Ma, nota poco oltre il premio Nobel, "l'idea che le persone possano essere classificate unicamente sulla base della religione o della cultura è un'importante fonte di conflitto potenziale. La credenza implicita nel potere predominante di una classificazione unica può incendiare il mondo intero". Amartya Sen mette in luce nelle sue pagine la pluralità di identità che caratterizzano ogni individuo: religione e nazionalità certamente hanno un grande ruolo, ma vi sono anche numerose altre possibili categorizzazioni, legate per esempio alla classe sociale, al livello d'istruzione, all'orientamento sessuale, alla lingua parlata, alle opinioni politiche. E la lista potrebbe essere ancora lunga. Insomma, dice in sostanza Sen, l'identità non è una caratteristica intrinseca, ma è qualcosa che si può scegliere.
Sen cita espressamente, per confutarla, la teoria di Samuel Huntington: "La stessa domanda 'Esiste uno scontro fra civiltà' - si chiede l'economista indiano - si fonda sul presupposto che l'umanità possa essere classificata in via preferenziale in civiltà distinte e separate, e che le relazioni tra esseri umani differenti possano essere in qualche modo considerate, senza nuocere più di tanto alla comprensione, in termini di rapporti tra civiltà differenti". Questa visione, che Sen definisce "solitarista", ha come conseguenza pressoché automatica la violenza, ritenuta inevitabile e quasi fisiologicamente inserita nell'identità esclusiva. Ma, scrive Sen riferendosi a tutti gli esseri umani, "possiamo fare meglio di così".
A fronte dei sostenitori dell'inevitabile contrapposizione tra le appartenenze religiose Sen sostiene l'importanza dell'affermazione di identità multiple: "Le prospettive di pace nel mondo contemporaneo - scrive - possono nascere forse dal riconoscimento della natura plurale delle nostre affiliazioni". Una pluralità che è, come si diceva prima, caratteristica comune a tutti gli esseri umani. Per questo Sen si fa portavoce di una "identità globale", in grado di unire gli uomini e di promuovere concordia anziché dividerli e favorire la violenza. Una nuova affiliazione che "non impone di sostituire le nostre fedeltà nazionali e la nostre lealtà locali con un sentimento di appartenenza globale, che si riflette nell'operato di un gigantesco 'Stato mondiale'. Anzi, l'identità globale può iniziare a riscuotere quanto le è dovuto senza cancellare le altre fedeltà". Solo superando la logica della "miniaturizzazione degli esseri umani" e delle "piccole patrie" - conclude Sen - è possibile cambiare il futuro e uscire dalla logica dello scontro permanente. Un messaggio di rinnovato umanesimo che potrebbe aprire e la strada a scenari meno foschi per il XXI secolo.
"Molti dei conflitti e delle atrocità del mondo - scrive Sen - sono tenuti in piedi dall'illusione di un'identità univoca e senza possibilità di scelta". Ma, nota poco oltre il premio Nobel, "l'idea che le persone possano essere classificate unicamente sulla base della religione o della cultura è un'importante fonte di conflitto potenziale. La credenza implicita nel potere predominante di una classificazione unica può incendiare il mondo intero". Amartya Sen mette in luce nelle sue pagine la pluralità di identità che caratterizzano ogni individuo: religione e nazionalità certamente hanno un grande ruolo, ma vi sono anche numerose altre possibili categorizzazioni, legate per esempio alla classe sociale, al livello d'istruzione, all'orientamento sessuale, alla lingua parlata, alle opinioni politiche. E la lista potrebbe essere ancora lunga. Insomma, dice in sostanza Sen, l'identità non è una caratteristica intrinseca, ma è qualcosa che si può scegliere.
Sen cita espressamente, per confutarla, la teoria di Samuel Huntington: "La stessa domanda 'Esiste uno scontro fra civiltà' - si chiede l'economista indiano - si fonda sul presupposto che l'umanità possa essere classificata in via preferenziale in civiltà distinte e separate, e che le relazioni tra esseri umani differenti possano essere in qualche modo considerate, senza nuocere più di tanto alla comprensione, in termini di rapporti tra civiltà differenti". Questa visione, che Sen definisce "solitarista", ha come conseguenza pressoché automatica la violenza, ritenuta inevitabile e quasi fisiologicamente inserita nell'identità esclusiva. Ma, scrive Sen riferendosi a tutti gli esseri umani, "possiamo fare meglio di così".
A fronte dei sostenitori dell'inevitabile contrapposizione tra le appartenenze religiose Sen sostiene l'importanza dell'affermazione di identità multiple: "Le prospettive di pace nel mondo contemporaneo - scrive - possono nascere forse dal riconoscimento della natura plurale delle nostre affiliazioni". Una pluralità che è, come si diceva prima, caratteristica comune a tutti gli esseri umani. Per questo Sen si fa portavoce di una "identità globale", in grado di unire gli uomini e di promuovere concordia anziché dividerli e favorire la violenza. Una nuova affiliazione che "non impone di sostituire le nostre fedeltà nazionali e la nostre lealtà locali con un sentimento di appartenenza globale, che si riflette nell'operato di un gigantesco 'Stato mondiale'. Anzi, l'identità globale può iniziare a riscuotere quanto le è dovuto senza cancellare le altre fedeltà". Solo superando la logica della "miniaturizzazione degli esseri umani" e delle "piccole patrie" - conclude Sen - è possibile cambiare il futuro e uscire dalla logica dello scontro permanente. Un messaggio di rinnovato umanesimo che potrebbe aprire e la strada a scenari meno foschi per il XXI secolo.
07 settembre 2006
L'America grigia e tenera di Chabon
“Lo avevo conosciuto come bulldozer, samurai, androide programmato per uccidere, Uomo di Plastica e Uomo di Titanio, Divoratore di Sostanza Corporea, Buick Elettrica, camion Peterbuilt, e anche, solo per una settimana, ponte sullo stretto del Mackinac. Ma è stato come lupo mannaro che Timothy Stokes, alla fine, esagerò davvero”. Inizia così, con uno straordinario crescendo di stranezze e di suspence, il racconto “Lupi mannari americani” di Michael Chabon che dà anche il titolo alla recente raccolta di nove short story dello scrittore americano. Un libro che, attraverso vicende diverse, unificate però della nitidezza della scrittura di Chabon, mette in scena una serie di periferie americane che sono tanto luoghi geografici quanto situazioni emotive e morali. Così, accanto alla presunta licantropia del piccolo Timothy, il primo racconto ci parla anche delle famiglie in difficoltà nella middle class statunitense e di come sia difficile essere bambini fantasiosi – forse troppo – nella società di oggi.
Nato nel 1963 e già vincitore di un premio Pulitzer con il romanzo “Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay”, Michael Chabon ha la dote di saper raccontare diversi livelli di realtà e di riuscire a mettere sulla pagina qualcosa di ineffabile come lo spaesamento dei bambini di fronte a un mondo che non capiscono fino in fondo e i loro meccanismi mentali, frutto di una percezione assolutamente unica di ciò che li circonda. Al tempo stesso riesce a trasmettere una forte empatia per i suoi personaggi, rendendo così meno amare e quasi consolatorie anche le storie più dolenti.
L’America che emerge dalle pagine di Chabon è un Paese che sembra stanco di fuggire da qualcosa che lo minaccia, da incubi – come quello dello “stupratore del lago” o di una spaventosa acciaieria gestita da amazzoni postmoderne – al tempo stesso inusuali e quotidiani. Nei nove racconti si trovano così licantropi e tetri operai misteriosamente mutilati (che danno al libro una decisa impronta nera), ma anche ottici in bancarotta con la tentazione di rapinare la vecchia nonna della moglie o coppie in difficoltà che in qualche modo si ritrovano al bancone di freddi bar di periferia. E allora ecco che l’effetto complessivo che si ricava è quello di un'America grigia, stretta tra le paure e il desiderio infantile di una vera felicità, costretta in panorami di periferie spesso desolate ma bramosa, al tempo stesso, di vedere al di là della semplice quotidianità. Come l’anziana signora Box che dalla finestra del suo appartamento cerca di scorgere con un vecchissimo cannocchiale, anche nel buio della notte, la casa dove da giovane era stata felice.
I racconti di Chabon, che richiamano alla mente tanto i film delicati di Wim Wenders quanto quelli a volte insostenibili di Todd Solondz, parlano comunque, fondamentalmente, di persone sole che hanno preso consapevolezza di essere mostri potenziali. La loro forza, e la causa dell’empatia che il lettore prova verso di essi, sta però nel tentativo di opporsi alla degenerazione, o per lo meno il fatto di averne consapevolezza. E così nasce la solidarietà stramba e diffidente tra i due bambini più problematici della scuola elementare Copland, che forse non sono amici ma si riconoscono reciprocamente come simili, ciascuno antidoto alle stranezze dell’altro. Chabon, tra le righe, ci dice che probabilmente siamo tutti un po’ lupi mannari, ma non per questo smette di volerci bene. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
Nato nel 1963 e già vincitore di un premio Pulitzer con il romanzo “Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay”, Michael Chabon ha la dote di saper raccontare diversi livelli di realtà e di riuscire a mettere sulla pagina qualcosa di ineffabile come lo spaesamento dei bambini di fronte a un mondo che non capiscono fino in fondo e i loro meccanismi mentali, frutto di una percezione assolutamente unica di ciò che li circonda. Al tempo stesso riesce a trasmettere una forte empatia per i suoi personaggi, rendendo così meno amare e quasi consolatorie anche le storie più dolenti.
L’America che emerge dalle pagine di Chabon è un Paese che sembra stanco di fuggire da qualcosa che lo minaccia, da incubi – come quello dello “stupratore del lago” o di una spaventosa acciaieria gestita da amazzoni postmoderne – al tempo stesso inusuali e quotidiani. Nei nove racconti si trovano così licantropi e tetri operai misteriosamente mutilati (che danno al libro una decisa impronta nera), ma anche ottici in bancarotta con la tentazione di rapinare la vecchia nonna della moglie o coppie in difficoltà che in qualche modo si ritrovano al bancone di freddi bar di periferia. E allora ecco che l’effetto complessivo che si ricava è quello di un'America grigia, stretta tra le paure e il desiderio infantile di una vera felicità, costretta in panorami di periferie spesso desolate ma bramosa, al tempo stesso, di vedere al di là della semplice quotidianità. Come l’anziana signora Box che dalla finestra del suo appartamento cerca di scorgere con un vecchissimo cannocchiale, anche nel buio della notte, la casa dove da giovane era stata felice.
I racconti di Chabon, che richiamano alla mente tanto i film delicati di Wim Wenders quanto quelli a volte insostenibili di Todd Solondz, parlano comunque, fondamentalmente, di persone sole che hanno preso consapevolezza di essere mostri potenziali. La loro forza, e la causa dell’empatia che il lettore prova verso di essi, sta però nel tentativo di opporsi alla degenerazione, o per lo meno il fatto di averne consapevolezza. E così nasce la solidarietà stramba e diffidente tra i due bambini più problematici della scuola elementare Copland, che forse non sono amici ma si riconoscono reciprocamente come simili, ciascuno antidoto alle stranezze dell’altro. Chabon, tra le righe, ci dice che probabilmente siamo tutti un po’ lupi mannari, ma non per questo smette di volerci bene. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
24 agosto 2006
Quando il mago spiega la magia
Un libro di straordinaria acutezza e animato da vera passione e due dvd con altrettanti grandi film: "I quattrocento colpi" e "La signora della porta accanto". E' un omaggio affettuoso a Francois Truffaut quello che l'editore Minimum fax manda in libreria in questi giorni con il titolo di "L'uomo più felice del mondo": un cofanetto che unisce il libro "Il piacere degli occhi" - con tutti i testi critici del grande regista francese - e i dischi con il suo primo e uno dei suoi ultimi lavori. Un omaggio che è una chicca per i lettori amanti del cinema, ma anche per coloro che, da semplici appassionati, vogliono riscoprire il fascino della settima arte con una guida d'eccezione come Truffaut.
Critico cinematografico prima di intraprendere la carriera di regista, Truffaut negli anni ha scritto molto, ed è stato tra gli animatori della mitica rivista "Cahiers du cinema", alla cui definizione della "poetica degli autori" ha contribuito attivamente. "In assoluto - scrive Truffaut nel primo testo della sua raccolta - possiamo affermare che l'autore di un film è il regista, e lui solo, anche se non ha scritto una sola riga della sceneggiatura, non ha diretto gli attori e non ha scelto l'angolatura delle riprese". Più avanti Truffaut chiarisce meglio la sua affermazione: "Il successo non è dato dalla somma di elementi diversi come bravi interpreti, buoni soggetti, bel tempo, ma è legato alla personalità dell'unico e vero 'comandante in capo'". Una personalità, quella di Truffaut, che dalle pagine del libro emerge come vitale, intraprendente, esuberante e ironica ma, soprattutto, innamorata del cinema. E le pagine trasmettono questo amore anche al lettore di oggi, benché si tratti di testi redatti anche negli anni Cinquanta.
Gli articoli raccolti in "Il piacere degli occhi" si articolano in diverse sezioni dedicate al "cinema in prima persona", agli omaggi ai grandi dello schermo, alla celebrazione dei divi, alla letteratura interpretata dai film e anche a un poco di polemica che "non fa mai male". Prima dell'epilogo, che da il titolo al cofanetto: "Ecco perché sono il più felice degli uomini - scrive Truffaut - realizzo i miei sogni e sono pagato per farlo, sono un regista". Filmaker di qualità dunque, ma anche critico acuto, capace in poche righe di sintetizzare la rivoluzione portata dal cinema americano: "Louis Lumière aveva impressionato il pubblico grazie a riprese di tipo documentario: 'L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat', 'Barche che escono dal porto'; ma gli americani avevano capito molto presto che bisognava far deragliare il treno e rovesciare la barca allo scopo di oltrepassare la quotidianità, e da allora sono diventati i campioni incontestati del cinema di fiction".
Charlie Chaplin, Robert Bresson, Alfred Hitchcock, Jean Renoir, Orson Welles: nelle pagine di Truffaut passano i grandi autori del cinema mondiale, guardati con l'occhio attento dell'esperto (che scrive, a proposito dell'identificazione dei personaggi di "Quarto potere": "Mi interessa non la realtà, ma l'opera in pellicola"), ma anche con una tenerezza che ai critici tradizionali (di cui Truffaut elenca con ironia pungente i sette peccati capitali) spesso manca. Così come manca la leggerezza con cui Truffaut confida le proprie emozioni di attore sul set di "Incontri ravvicinati del terzo tipo" o la propria simpatia anti-snobistica per i grandi divi che, secondo lui, "non sono creati da produttori e registi, bensì dal pubblico".
Insomma, il libro di Truffaut è un elogio del cinema e dei suoi autori, ma anche un percorso attraverso le passioni di un uomo curioso che ha cercato di interpretare con la macchina da presa il nostro mondo. E il cui messaggio, artistico e umano, resta sempre molto attuale.
Critico cinematografico prima di intraprendere la carriera di regista, Truffaut negli anni ha scritto molto, ed è stato tra gli animatori della mitica rivista "Cahiers du cinema", alla cui definizione della "poetica degli autori" ha contribuito attivamente. "In assoluto - scrive Truffaut nel primo testo della sua raccolta - possiamo affermare che l'autore di un film è il regista, e lui solo, anche se non ha scritto una sola riga della sceneggiatura, non ha diretto gli attori e non ha scelto l'angolatura delle riprese". Più avanti Truffaut chiarisce meglio la sua affermazione: "Il successo non è dato dalla somma di elementi diversi come bravi interpreti, buoni soggetti, bel tempo, ma è legato alla personalità dell'unico e vero 'comandante in capo'". Una personalità, quella di Truffaut, che dalle pagine del libro emerge come vitale, intraprendente, esuberante e ironica ma, soprattutto, innamorata del cinema. E le pagine trasmettono questo amore anche al lettore di oggi, benché si tratti di testi redatti anche negli anni Cinquanta.
Gli articoli raccolti in "Il piacere degli occhi" si articolano in diverse sezioni dedicate al "cinema in prima persona", agli omaggi ai grandi dello schermo, alla celebrazione dei divi, alla letteratura interpretata dai film e anche a un poco di polemica che "non fa mai male". Prima dell'epilogo, che da il titolo al cofanetto: "Ecco perché sono il più felice degli uomini - scrive Truffaut - realizzo i miei sogni e sono pagato per farlo, sono un regista". Filmaker di qualità dunque, ma anche critico acuto, capace in poche righe di sintetizzare la rivoluzione portata dal cinema americano: "Louis Lumière aveva impressionato il pubblico grazie a riprese di tipo documentario: 'L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat', 'Barche che escono dal porto'; ma gli americani avevano capito molto presto che bisognava far deragliare il treno e rovesciare la barca allo scopo di oltrepassare la quotidianità, e da allora sono diventati i campioni incontestati del cinema di fiction".
Charlie Chaplin, Robert Bresson, Alfred Hitchcock, Jean Renoir, Orson Welles: nelle pagine di Truffaut passano i grandi autori del cinema mondiale, guardati con l'occhio attento dell'esperto (che scrive, a proposito dell'identificazione dei personaggi di "Quarto potere": "Mi interessa non la realtà, ma l'opera in pellicola"), ma anche con una tenerezza che ai critici tradizionali (di cui Truffaut elenca con ironia pungente i sette peccati capitali) spesso manca. Così come manca la leggerezza con cui Truffaut confida le proprie emozioni di attore sul set di "Incontri ravvicinati del terzo tipo" o la propria simpatia anti-snobistica per i grandi divi che, secondo lui, "non sono creati da produttori e registi, bensì dal pubblico".
Insomma, il libro di Truffaut è un elogio del cinema e dei suoi autori, ma anche un percorso attraverso le passioni di un uomo curioso che ha cercato di interpretare con la macchina da presa il nostro mondo. E il cui messaggio, artistico e umano, resta sempre molto attuale.
17 agosto 2006
Caro Pedro, ti scrivo
“Tutto su mia madre”, “Parla con lei” e poi, per la seconda volta al cinema, anche “Volver”. Approfittando di quattro giorni di solitudine mi sono concesso un'overdose di cinema, nella quale spiccano i tre grandi film di Almodovar. E proprio al regista mancego indirizzo questa ideale missiva di un ammiratore tanto tardivo quanto convinto.
Che meraviglia, caro Pedro, quelle donne che passano attraverso il peggio della vita con così tanta forza e leggerezza. Che splendore i colori, le musiche, gli orrendi programmi televisivi di cui ci racconti nei tuoi film. Che tenerezza – e che lezione di vita – nelle pacate reazioni all’orrore e alla follia. Che preziosa serenità che emerge dai marosi spaventosi della realtà.
E’ un cinema, il tuo, che riconcilia con il presente, che a me dice che si può guardare qualsiasi cosa, anche la peggiore, provando a trovare un brandello di positività. Sarà anche una consolazione fittizia, perché nella rotonda delle battone di Barcellona non capiterà tutte le volte di incontrare la propria amica del cuore, ma comunque riempie il cuore. Come le calze gambaletto di Carmen Maura o la finestra che dà sulla scuola di danza classica di Geraldine Chaplin.
Caro Pedro, non so se il cinema debba “servire” a qualcosa. A me il tuo serve di certo a ritrovare quell’ottimismo che a volte le circostanze del quotidiano mi fanno dimenticare.
Sempre tuo, Kilgore
Che meraviglia, caro Pedro, quelle donne che passano attraverso il peggio della vita con così tanta forza e leggerezza. Che splendore i colori, le musiche, gli orrendi programmi televisivi di cui ci racconti nei tuoi film. Che tenerezza – e che lezione di vita – nelle pacate reazioni all’orrore e alla follia. Che preziosa serenità che emerge dai marosi spaventosi della realtà.
E’ un cinema, il tuo, che riconcilia con il presente, che a me dice che si può guardare qualsiasi cosa, anche la peggiore, provando a trovare un brandello di positività. Sarà anche una consolazione fittizia, perché nella rotonda delle battone di Barcellona non capiterà tutte le volte di incontrare la propria amica del cuore, ma comunque riempie il cuore. Come le calze gambaletto di Carmen Maura o la finestra che dà sulla scuola di danza classica di Geraldine Chaplin.
Caro Pedro, non so se il cinema debba “servire” a qualcosa. A me il tuo serve di certo a ritrovare quell’ottimismo che a volte le circostanze del quotidiano mi fanno dimenticare.
Sempre tuo, Kilgore
04 agosto 2006
In the land of Wenders
Non mi ricordo chi l’ha scritto, ma è sicuramente vero che nei suoi film Wim Wenders si prende cura delle immagini e le lascia allo spettatore solo quando sono perfette in ogni dettaglio, come tesori che solo la mano dell’archeologo esperto riesce a riportare al loro antico splendore. Ho visto recentemente in dvd due pellicole ritenute “minori” nel repertorio del regista tedesco: “La terra dell’abbondanza” (Land of Plenty) e “Non bussare alla mia porta” (Don’t come knocking), due film simili, che parlano di personaggi solitari e di un’America marginale. Due film che raccontano storie la cui trama forse non vale il premio Pulitzer, ma che hanno una storia visiva, una fotografia, uno sguardo – per dirla in una sola parola – stupefacente.
Non ci sono la metafisica degli angeli berlinesi né il silenzio carico di aspettative di “Alice nelle città” (capolavoro del Wenders prima maniera), ma in compenso le ultime due prove americane del regista hanno immagini cariche di umanità (diremmo di pietà, ma nel senso di pietas romana, non di semplice compatimento-da-serata-di-beneficenza e sdegno-per-come-va-il-mondo), poeticamente ineccepibili, capaci di commuovere per la loro vivida sobrietà.
E’ un cinema che a volte sembra non muoversi, quello di Wenders. Ma è un immobilismo mirabile, come quello che coglie il protagonista di “Non bussare alla mia porta” seduto per ore su un divano dai colori sgargianti che il suo appena ritrovato figlio trentenne ha gettato per strada in un eccesso di furia, una volta scoperta l’identità di suo padre. Nel vorticare di una vicenda intricata di affetti ritrovati e antichi rancori, il maturo divo del cinema western si siede e si ferma – proprio nel cuore del ciclone – in un’implicita ammissione di inutilità della lotta e, al tempo stesso, di piena assunzione delle proprie responsabilità. Insomma, si ferma – dopo tanto fuggire - nell’unico posto in cui deve farlo, anche se è molto difficile.
Se penso a “La terra dell’abbondanza”, invece, non riesco a dimenticare il modo in cui Wenders filma le periferie degradate, i luoghi dove vivono gli homeless, i sudici scantinati dove si addensa la paranoia. Ma neppure la tuta verde indossata dal fratello del giovane islamico ucciso o le luci del tramonto sulle highway. Wenders può non piacere, e forse è stato sopravvalutato. Ma i suoi film hanno la forza di fare innamorare del cinema come modo di guardare al mondo. Almeno questo vale per Kilgore.
Non ci sono la metafisica degli angeli berlinesi né il silenzio carico di aspettative di “Alice nelle città” (capolavoro del Wenders prima maniera), ma in compenso le ultime due prove americane del regista hanno immagini cariche di umanità (diremmo di pietà, ma nel senso di pietas romana, non di semplice compatimento-da-serata-di-beneficenza e sdegno-per-come-va-il-mondo), poeticamente ineccepibili, capaci di commuovere per la loro vivida sobrietà.
E’ un cinema che a volte sembra non muoversi, quello di Wenders. Ma è un immobilismo mirabile, come quello che coglie il protagonista di “Non bussare alla mia porta” seduto per ore su un divano dai colori sgargianti che il suo appena ritrovato figlio trentenne ha gettato per strada in un eccesso di furia, una volta scoperta l’identità di suo padre. Nel vorticare di una vicenda intricata di affetti ritrovati e antichi rancori, il maturo divo del cinema western si siede e si ferma – proprio nel cuore del ciclone – in un’implicita ammissione di inutilità della lotta e, al tempo stesso, di piena assunzione delle proprie responsabilità. Insomma, si ferma – dopo tanto fuggire - nell’unico posto in cui deve farlo, anche se è molto difficile.
Se penso a “La terra dell’abbondanza”, invece, non riesco a dimenticare il modo in cui Wenders filma le periferie degradate, i luoghi dove vivono gli homeless, i sudici scantinati dove si addensa la paranoia. Ma neppure la tuta verde indossata dal fratello del giovane islamico ucciso o le luci del tramonto sulle highway. Wenders può non piacere, e forse è stato sopravvalutato. Ma i suoi film hanno la forza di fare innamorare del cinema come modo di guardare al mondo. Almeno questo vale per Kilgore.
26 luglio 2006
Dio la benedica, mister Vonnegut
"Non c'è motivo per cui il bene non possa trionfare sul male, se solo gli angeli si dessero un'organizzazione ispirata a quella della mafia". C'è tutto Kurt Vonnegut in questo aforisma posto in apertura del suo ultimo libro, "Un uomo senza patria", edito in Italia da Minimum Fax. Una raccolta di saggi e interventi del grande scrittore americano, autore dello straordinario "Mattatoio n.5" e di molti altri libri indimenticabili, nonché da decenni icona del dissenso rispetto alla politica ufficiale degli Stati Uniti. Un libro che, però, non è solo un ragionamento critico sulla politica di George W. Bush e, più in generale sullo stato del nostro mondo, ma è anche un tuffo nell'ironia implacabile di Vonnegut, che ripropone anche qui molti dei temi ricorrenti in tutta la sua opera (compresa una citazione, ai limiti del commovente, per il nostro beneamato Kilgore Trout!).
Ormai ottantaquattrenne, Vonnegut mantiene una lucidità sorprendente, oltre a uno stile coinvolgente. In dodici capitoli il libro spazia dai ragionamenti sulla letteratura ("Vi rendete conto - scrive Vonnegut - che tutta la grande letteratura parla di che fregatura sia la vita degli esseri umani?") a quelli su politica e religione ("Socialismo non è una parola malvagia più di quanto non lo sia cristianesimo. Fra i dettami del socialismo non c'erano Stalin e la sua polizia segreta e la chiusura delle chiese, così come fra i dettami del cristianesimo non c'era l'inquisizione spagnola"). Dalla crisi energetica ("Siamo tutti drogati di combustibili fossili, ma ci rifiutiamo di ammetterlo. E come tanti tossici che stanno per entrare in crisi d'astinenza, i capi dei nostri governi stanno commettendo crimini atroci pur di ottenere quel poco che rimane della sostanza da cui siamo dipendenti") al rapporto con il mondo musulmano ("Pensate che gli arabi siano fessi? Provate a fare una divisione in colonna coi numeri romani").
Vitale, indignato, incontenibile, Vonnegut non si limita a criticare ciò che ai suoi occhi non funziona nelle nostre società, ma propone anche - pur con un doveroso understatement - delle possibili soluzioni, come per esempio la scelta di essere umanisti. "Noi umanisti - scrive nell'ottavo capitolo - cerchiamo di comportarci nella maniera più dignitosa, leale e onesta possibile senza aspettarci nessuna ricompensa o punizione in una vita dopo la morte". Nonostante ciò, comunque, il pessimismo connota la sua visione del futuro, che gli appare irrimediabilmente compromesso dai comportamenti di generazioni che hanno operato senza mai pensare a chi sarebbe venuto dopo di loro.
La critica agli Stati Uniti di oggi è certamente il cuore politico del libro. E quando una signora gli scrive per chiedergli se valga davvero la pena di mettere al mondo un figlio nella nostra società, Vonnegut risponde: "Il bambino avrebbe la fortuna di nascere in una società in cui anche i poveri sono sovrappeso, ma la sfortuna di vivere in un Paese senza assistenza sanitaria nazionale e senza un'istruzione pubblica decente per la maggior parte dei cittadini, dove le iniezioni letali e la guerra sono forme di intrattenimento, e dove andare all'università costa un occhio e un rene". Niente male per il Paese guida dell'Occidente democratico.
"Kurt Vonnegut è una benedizione" ha scritto qualche anno fa la New York Times Book Review e per i lettori affezionati dello scrittore americano dalle pagine di "Un uomo senza patria" spunta, udite udite, anche una sorpresa: pare addirittura che il buon Kurt abbina in cantiere un nuovo romanzo. La trama? Degli alieni di 11 centimetri sbarcati al Waldorf Astoria, che mangiano i barboni e producono benzina e uranio al posto dei tradizionali escrementi. Non c'è che dire, Vonnegut è unico. E Kilgore vive in noi!!!
Ormai ottantaquattrenne, Vonnegut mantiene una lucidità sorprendente, oltre a uno stile coinvolgente. In dodici capitoli il libro spazia dai ragionamenti sulla letteratura ("Vi rendete conto - scrive Vonnegut - che tutta la grande letteratura parla di che fregatura sia la vita degli esseri umani?") a quelli su politica e religione ("Socialismo non è una parola malvagia più di quanto non lo sia cristianesimo. Fra i dettami del socialismo non c'erano Stalin e la sua polizia segreta e la chiusura delle chiese, così come fra i dettami del cristianesimo non c'era l'inquisizione spagnola"). Dalla crisi energetica ("Siamo tutti drogati di combustibili fossili, ma ci rifiutiamo di ammetterlo. E come tanti tossici che stanno per entrare in crisi d'astinenza, i capi dei nostri governi stanno commettendo crimini atroci pur di ottenere quel poco che rimane della sostanza da cui siamo dipendenti") al rapporto con il mondo musulmano ("Pensate che gli arabi siano fessi? Provate a fare una divisione in colonna coi numeri romani").
Vitale, indignato, incontenibile, Vonnegut non si limita a criticare ciò che ai suoi occhi non funziona nelle nostre società, ma propone anche - pur con un doveroso understatement - delle possibili soluzioni, come per esempio la scelta di essere umanisti. "Noi umanisti - scrive nell'ottavo capitolo - cerchiamo di comportarci nella maniera più dignitosa, leale e onesta possibile senza aspettarci nessuna ricompensa o punizione in una vita dopo la morte". Nonostante ciò, comunque, il pessimismo connota la sua visione del futuro, che gli appare irrimediabilmente compromesso dai comportamenti di generazioni che hanno operato senza mai pensare a chi sarebbe venuto dopo di loro.
La critica agli Stati Uniti di oggi è certamente il cuore politico del libro. E quando una signora gli scrive per chiedergli se valga davvero la pena di mettere al mondo un figlio nella nostra società, Vonnegut risponde: "Il bambino avrebbe la fortuna di nascere in una società in cui anche i poveri sono sovrappeso, ma la sfortuna di vivere in un Paese senza assistenza sanitaria nazionale e senza un'istruzione pubblica decente per la maggior parte dei cittadini, dove le iniezioni letali e la guerra sono forme di intrattenimento, e dove andare all'università costa un occhio e un rene". Niente male per il Paese guida dell'Occidente democratico.
"Kurt Vonnegut è una benedizione" ha scritto qualche anno fa la New York Times Book Review e per i lettori affezionati dello scrittore americano dalle pagine di "Un uomo senza patria" spunta, udite udite, anche una sorpresa: pare addirittura che il buon Kurt abbina in cantiere un nuovo romanzo. La trama? Degli alieni di 11 centimetri sbarcati al Waldorf Astoria, che mangiano i barboni e producono benzina e uranio al posto dei tradizionali escrementi. Non c'è che dire, Vonnegut è unico. E Kilgore vive in noi!!!
20 luglio 2006
Tenero è il XX secolo
Ne rimarranno tante di fotografie del Novecento. Tanti momenti, personaggi, suoni, storie, drammi, immagini che – ciascuna a modo proprio – restituiranno una delle mille facce del secolo più veloce della Storia. Una di queste è Tenera è la notte, uno dei due capolavori di Scott Fitzgerald, che ho tardivamente letto nelle scorse settimane. Un libro che si distingue per la perfezione dello stile – ma questo si sapeva – e che mette insieme alcuni topos del secolo scorso con una lucidità che forse è stata finora un poco sottovalutata.
Le prime straordinarie pagine d’ambientazione francese sono il racconto della nascita di un fenomeno novecentesco come il turismo di massa. Certo, nelle acque dorate dove Dick Diver fa bella mostra del proprio stile natatorio, forse sembra non esserci spazio per i forzati della riviera romagnola in ciabatte-occhiali avvolgenti-perizoma-settimana enigmistica-discoteca. Ma la storia, lo sappiamo, va più veloce perfino delle migliori menti, anche se poi ha bisogno di uno scrittore come Fitzgerald per potersi raccontare (e quindi conoscersi veramente).
Poi la fragilità delle relazioni amorose, le debolezze dei forti, il difficile confronto tra le classi sociali, l’assurda aderenza della psicanalisi – un’invenzione estemporanea e fasulla, capace però di dare una spiegazione a molti dei misteriosi comportamenti umani – alla realtà dei rapporti interpersonali. E ancora il progresso tecnologico (rappresentato dalle automobili su cui sfreccia, talvolta un po’ confuso, il complesso e splendido protagonista) e la fondamentale impossibilità di essere felici. Tutte cose, direte voi, che anche la letteratura degli altri secoli aveva cantato. Se in parte ciò è vero – ma in Dante e Balzac non troviamo né Freud né le spider – è anche indubitabile che questi fenomeni hanno assunto rilevanza di massa solo nel XX secolo, diventando vere per la prima volta per miliardi di persone.
Questo forse il nostro Fitzgerald non lo sapeva, ma Tenera è la notte in qualche modo già ce lo racconta. Perché certi grandi romanzi sanno più di ciò che dicono e, non mi stancherò mai di scriverlo, la grande letteratura è più vera della vita stessa.
Le prime straordinarie pagine d’ambientazione francese sono il racconto della nascita di un fenomeno novecentesco come il turismo di massa. Certo, nelle acque dorate dove Dick Diver fa bella mostra del proprio stile natatorio, forse sembra non esserci spazio per i forzati della riviera romagnola in ciabatte-occhiali avvolgenti-perizoma-settimana enigmistica-discoteca. Ma la storia, lo sappiamo, va più veloce perfino delle migliori menti, anche se poi ha bisogno di uno scrittore come Fitzgerald per potersi raccontare (e quindi conoscersi veramente).
Poi la fragilità delle relazioni amorose, le debolezze dei forti, il difficile confronto tra le classi sociali, l’assurda aderenza della psicanalisi – un’invenzione estemporanea e fasulla, capace però di dare una spiegazione a molti dei misteriosi comportamenti umani – alla realtà dei rapporti interpersonali. E ancora il progresso tecnologico (rappresentato dalle automobili su cui sfreccia, talvolta un po’ confuso, il complesso e splendido protagonista) e la fondamentale impossibilità di essere felici. Tutte cose, direte voi, che anche la letteratura degli altri secoli aveva cantato. Se in parte ciò è vero – ma in Dante e Balzac non troviamo né Freud né le spider – è anche indubitabile che questi fenomeni hanno assunto rilevanza di massa solo nel XX secolo, diventando vere per la prima volta per miliardi di persone.
Questo forse il nostro Fitzgerald non lo sapeva, ma Tenera è la notte in qualche modo già ce lo racconta. Perché certi grandi romanzi sanno più di ciò che dicono e, non mi stancherò mai di scriverlo, la grande letteratura è più vera della vita stessa.
08 luglio 2006
Una finale lunga una vita
Lo so. La finale dei Mondiali di calcio non c’entra (quasi) nulla con Kilgore Magazine. Però più si avvicina il fischio d’inizio di questa inattesa sfida tra l’Italia e i cugini transalpini, più sento crescere il fascino della partitissima. E mi rendo conto che non si tratta solo di una tenzone pallonara, ma di un fenomeno più vasto, che ha – in qualche modo, e per certi versi in maniera sorprendente – a che fare con il vasto e sfuggente concetto di cultura. Forte di questo assunto, sfacciatamente autoreferenziale, autorizzo i Mondiali a risedere a pieno titolo sulle pagine di Kilgore.
Personalmente questa è la terza finalissima degli Azzurri che vivo da spettatore protagonista – in totale è la nona, comprese due vissute in maniera incosciente per motivi anagrafici – e, scavando nei ricordi, trovo immagini straordinarie. L’11 luglio 1982, IL giorno per eccellenza del calcio italiano, sedevo in una sala sovraffollata ai bagni “Tropical” di Grottammare insieme a tutta la mia famiglia, ai miei ammiratissimi e inarrivabili cugini e a un numero imprecisato di altri clienti tra i quali un corposo gruppo di amici della Svizzera italiana. Ricordo il caldo, l’odore di pesce fritto, le sedie davanti al piccolo televisore. Ricordo di essermi sistemato nelle prime file, ma poi ho anche un’immagine della sala ripresa dal fondo, con la massa della gente che oscillava e gridava, probabilmente verso la fine della trionfale partita. Ricordo le ironie di chi, tra gli svizzeri, tifava Germania (lo stesso signore poi finì in manette negli anni di Tangentopoli – è vero! – ma questa è un’altra storia) e l’ultima inquadratura della Rai sullo stadio Santiago Bernabeu.
Sono tornato, vent’anni esatti più tardi, nello stesso ristorante. Cosa volete che vi dica, era cambiato, ma gli elementi fondamentali erano gli stessi. E con uno dei miei cugini, e rispettive signore, abbiamo mangiato seduti più o meno proprio in fondo alla sala dove abbiamo visto Dinone Zoff alzare la coppa. Non so cosa abbia pensato lui, io avvertivo una sottile inquietudine figlia del mio cattivo rapporto con il passato. Che ho provato a esorcizzare studiando la storia, devo confessare senza grande successo. Comunque, nel delirio di un post che mi esce dalla tastiera privo di ogni struttura, eccomi a dire che quella finale, LA finale, vissuta in una notte quasi lisergica nelle Marche dei primi anni Ottanta si è attaccata alle pareti di quella stanza ed è rimasta lì, e a me, come a Borges che scopre l’Aleph sui gradini di una casa di Buenos Aires, è capitato di ritrovarla.
Domani sera, quando l’arbitro fischierà l’inizio della partita, quando il Paese smetterà di respirare per un’ora e mezza, quando saremo quasi tutti ipnotizzati davanti all’idea meravigliosa di una FINALE, piuttosto che davanti a un evento puramente sportivo, io sarò tra quelli che sentiranno nella pelle d’oca che sale dai piedi fino ai capelli qualcosa di più del tifo per la nazionale. Perché dentro a certe partite passa anche la nostra vita, e talvolta l’evento sportivo è un occasione per riappropriarcene e permetterci di piantare un paletto. Che vent’anni dopo potremmo forse ritrovare sotto la sabbia.
Personalmente questa è la terza finalissima degli Azzurri che vivo da spettatore protagonista – in totale è la nona, comprese due vissute in maniera incosciente per motivi anagrafici – e, scavando nei ricordi, trovo immagini straordinarie. L’11 luglio 1982, IL giorno per eccellenza del calcio italiano, sedevo in una sala sovraffollata ai bagni “Tropical” di Grottammare insieme a tutta la mia famiglia, ai miei ammiratissimi e inarrivabili cugini e a un numero imprecisato di altri clienti tra i quali un corposo gruppo di amici della Svizzera italiana. Ricordo il caldo, l’odore di pesce fritto, le sedie davanti al piccolo televisore. Ricordo di essermi sistemato nelle prime file, ma poi ho anche un’immagine della sala ripresa dal fondo, con la massa della gente che oscillava e gridava, probabilmente verso la fine della trionfale partita. Ricordo le ironie di chi, tra gli svizzeri, tifava Germania (lo stesso signore poi finì in manette negli anni di Tangentopoli – è vero! – ma questa è un’altra storia) e l’ultima inquadratura della Rai sullo stadio Santiago Bernabeu.
Sono tornato, vent’anni esatti più tardi, nello stesso ristorante. Cosa volete che vi dica, era cambiato, ma gli elementi fondamentali erano gli stessi. E con uno dei miei cugini, e rispettive signore, abbiamo mangiato seduti più o meno proprio in fondo alla sala dove abbiamo visto Dinone Zoff alzare la coppa. Non so cosa abbia pensato lui, io avvertivo una sottile inquietudine figlia del mio cattivo rapporto con il passato. Che ho provato a esorcizzare studiando la storia, devo confessare senza grande successo. Comunque, nel delirio di un post che mi esce dalla tastiera privo di ogni struttura, eccomi a dire che quella finale, LA finale, vissuta in una notte quasi lisergica nelle Marche dei primi anni Ottanta si è attaccata alle pareti di quella stanza ed è rimasta lì, e a me, come a Borges che scopre l’Aleph sui gradini di una casa di Buenos Aires, è capitato di ritrovarla.
Domani sera, quando l’arbitro fischierà l’inizio della partita, quando il Paese smetterà di respirare per un’ora e mezza, quando saremo quasi tutti ipnotizzati davanti all’idea meravigliosa di una FINALE, piuttosto che davanti a un evento puramente sportivo, io sarò tra quelli che sentiranno nella pelle d’oca che sale dai piedi fino ai capelli qualcosa di più del tifo per la nazionale. Perché dentro a certe partite passa anche la nostra vita, e talvolta l’evento sportivo è un occasione per riappropriarcene e permetterci di piantare un paletto. Che vent’anni dopo potremmo forse ritrovare sotto la sabbia.
21 giugno 2006
Sempre di famiglia si tratta
Lontana anni luce dagli schemi dei benpensanti che, forse un po’ troppo spesso, si riempiono la bocca con la parola, la famiglia che i Fratelli Dardenne presentano nel film “L’enfant” è un piccolo esempio di come le cose possono andare sempre nel peggiore dei modi. Eppure il film tiene fede, senza melodrammi all’italiana, al sottotitolo e ci racconta davvero di “una storia d’amore”. Che i Dardenne sono capaci di tradurre sullo schermo con delicatezza estrema, senza disperazione, anzi con la consapevolezza che anche nei contesti più degradati (le periferie urbane, i miseri alloggi popolari, i tristi lungofiume) possano continuare ad albergare dei sentimenti. Quelli che legano Sonia e Bruno, Bruno e il suo giovane complice Steven, Sonia e il piccolo Jimmy.
La macchina da presa, è questo mi pare uno dei pregi del film – palma d’oro a Cannes lo scorso anno, ora in dvd nella splendida collana Le nuvole di Feltrinelli – segue i protagonisti molto da vicino, spesso alle spalle degli attori, e trasmette il senso di uno sguardo del narratore che non vuole e non può andare oltre quello dei suoi personaggi. Che vivono la storia dall’interno, senza ingerenze diegetiche, senza giudizi morali.
Sereno antidoto alle fiction patinate, “L’enfant” è un film che esprime concetti brutali, ai limiti della sostenibilità. Eppure, grazie anche all’understatement dei due protagonisti, riesce a evitare tutte le trappole che l’intreccio puro e semplice potrebbe stendere sulla strada dei registi. Forse solo la scena finale delle lacrime in carcere rischia un po’ di scivolare nel “già visto”, ma tutto ciò che viene prima è un valido antidoto a ogni possibile piagnisteo o morboso compiacimento.
La macchina da presa, è questo mi pare uno dei pregi del film – palma d’oro a Cannes lo scorso anno, ora in dvd nella splendida collana Le nuvole di Feltrinelli – segue i protagonisti molto da vicino, spesso alle spalle degli attori, e trasmette il senso di uno sguardo del narratore che non vuole e non può andare oltre quello dei suoi personaggi. Che vivono la storia dall’interno, senza ingerenze diegetiche, senza giudizi morali.
Sereno antidoto alle fiction patinate, “L’enfant” è un film che esprime concetti brutali, ai limiti della sostenibilità. Eppure, grazie anche all’understatement dei due protagonisti, riesce a evitare tutte le trappole che l’intreccio puro e semplice potrebbe stendere sulla strada dei registi. Forse solo la scena finale delle lacrime in carcere rischia un po’ di scivolare nel “già visto”, ma tutto ciò che viene prima è un valido antidoto a ogni possibile piagnisteo o morboso compiacimento.
16 giugno 2006
Monsieur Ben Jelloun, I presume
“Lo scontro delle civiltà non esiste, semplicemente perché le civiltà sono fluide, in movimento e si intersecano continuamente. Il problema è l’ignoranza verso l’altro, la poca volontà di capire chi è diverso da noi. Perché provare a comprendere gli altri è già una forma di accettazione e c’è poca volontà di fare questo”. Incontro Tahar Ben Jelloun all’hotel Principe di Savoia di Milano, in una sala arredata con un gusto vagamente orientale. Lo scrittore marocchino, molto apprezzato nel nostro Paese, indossa un’elegante camicia colorata ed emana un tenue ma gradevole profumo d’incenso. E’ in Italia per presentare il suo ultimo libro -“Non capisco il mondo arabo”, editore Bompiani, in uscita il 21 giugno – nel quale ricostruisce la corrispondenza tra sua figlia Mérième e un’immaginaria ragazza italiana, Lidia. Le due giovani si confrontano su molti temi, dall’amore alla laicità, dai diritti delle donne al terrorismo. “Nel libro – mi ha spiegato lo scrittore in un francese molto comprensibile – ho cercato di entrare nella testa dei giovani, che sono preoccupati per un mondo che produce angoscia, paura, nel quale c’è troppa violenza e ingiustizia”.
Cuore del libro è il dialogo tra le culture, con le difficoltà che questo comporta e i limiti d’approccio con cui si deve fare i conti. “Gli occidentali – ha detto Ben Jelloun – vogliono riformare l’Islam, ma non si può riformare una religione rivelata, si dovrebbe invece riformare la mentalità delle persone. Perché il Corano non prescrive il terrorismo o l’oppressione delle donne, ma sono gli interpreti a voler fare passare queste idee. E sulla società civile è possibile intervenire per spingere le persone a essere migliori”. In questo senso lo scrittore di Fes sottolinea il ruolo centrale delle donne per il cambiamento: “In tutto il mondo islamico sono le donne a portare avanti le innovazioni. In Iran si sono battute contro l’oscurantismo, in Marocco per il nuovo Codice della famiglia”. Un’opinione che Kilgore sottoscrive in toto.
Il libro tocca molti argomenti d’attualità e Ben Jelloun parla anche del conflitto israelo-palestinese: “Il problema dei palestinesi non ha niente a che vedere con l’Islam, è un problema politico, nazionale, di occupazione di un territori, di coesistenza tra due Stati, ma non è un problema religioso. Nella resistenza palestinese – mi ha spiegato lo scrittore – ci sono i laici di Fatah, l’estrema sinistra guidata da un cristiano e poi ci sono gli islamici di Hamas. La vittoria elettorale di un partito estremista è una notizia molto buona per Israele, che così potrà dire che tutti i palestinesi sono favorevoli al terrorismo e la situazione rimane del tutto bloccata. L’islamismo, comunque, è un elemento che entra solo ora nella questione palestinese”. Interrogato sulle possibili vie d’uscita da questo stallo, Tahar Ben Jelloun ripropone la parola dialogo: “E’ difficile trovare una soluzione, l’Europa dovrebbe obbligare Israele a negoziare con Hamas, perché comunque questo partito è un’espressione della volontà popolare”. Facile a parole, forse un po’ più complesso nei fatti.
Certo è che continuare a sottolineare parole come “dialogo”, “comprensione”, “tolleranza”, “cultura”, "diversità" è sicuramente un modo per provare a rendere il mondo un posto migliore. Che poi ci si riesca è un altro discorso, ma, come diceva Socrate, “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.
Cuore del libro è il dialogo tra le culture, con le difficoltà che questo comporta e i limiti d’approccio con cui si deve fare i conti. “Gli occidentali – ha detto Ben Jelloun – vogliono riformare l’Islam, ma non si può riformare una religione rivelata, si dovrebbe invece riformare la mentalità delle persone. Perché il Corano non prescrive il terrorismo o l’oppressione delle donne, ma sono gli interpreti a voler fare passare queste idee. E sulla società civile è possibile intervenire per spingere le persone a essere migliori”. In questo senso lo scrittore di Fes sottolinea il ruolo centrale delle donne per il cambiamento: “In tutto il mondo islamico sono le donne a portare avanti le innovazioni. In Iran si sono battute contro l’oscurantismo, in Marocco per il nuovo Codice della famiglia”. Un’opinione che Kilgore sottoscrive in toto.
Il libro tocca molti argomenti d’attualità e Ben Jelloun parla anche del conflitto israelo-palestinese: “Il problema dei palestinesi non ha niente a che vedere con l’Islam, è un problema politico, nazionale, di occupazione di un territori, di coesistenza tra due Stati, ma non è un problema religioso. Nella resistenza palestinese – mi ha spiegato lo scrittore – ci sono i laici di Fatah, l’estrema sinistra guidata da un cristiano e poi ci sono gli islamici di Hamas. La vittoria elettorale di un partito estremista è una notizia molto buona per Israele, che così potrà dire che tutti i palestinesi sono favorevoli al terrorismo e la situazione rimane del tutto bloccata. L’islamismo, comunque, è un elemento che entra solo ora nella questione palestinese”. Interrogato sulle possibili vie d’uscita da questo stallo, Tahar Ben Jelloun ripropone la parola dialogo: “E’ difficile trovare una soluzione, l’Europa dovrebbe obbligare Israele a negoziare con Hamas, perché comunque questo partito è un’espressione della volontà popolare”. Facile a parole, forse un po’ più complesso nei fatti.
Certo è che continuare a sottolineare parole come “dialogo”, “comprensione”, “tolleranza”, “cultura”, "diversità" è sicuramente un modo per provare a rendere il mondo un posto migliore. Che poi ci si riesca è un altro discorso, ma, come diceva Socrate, “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.
14 giugno 2006
Born in the USA
Dodici voci potenti per raccontare la nuova America, dodici sguardi poetici su un Paese in movimento, attraversato da drammi e tensioni che riguardano sia la sfera pubblica sia quella personale. Con “Nuovi poeti americani”, antologia di autori poco conosciuti dal pubblico italiano, l’editore Einaudi ha mandato in libreria un nuovo tassello per la comprensione della cultura e, per estensione, dell’intera società statunitense. Un libro che, precisa la curatrice Elisa Biagini, “è un tentativo di raccontare la ricca e diversa realtà poetica americana: è una rappresentazione inevitabilmente parziale e partigiana fatta da un poeta che sceglie altri poeti”.
Vero specchio del crogiuolo etnico degli States, l’antologia einaudiana è una finestra aperta su traumi e problematiche, ma anche su aspirazioni e orgogli, che solcano la realtà culturale americana. Quello che emerge è un universo poetico ricco di stimoli, capace di alimentarsi anche di fenomeni “off”, come il rap e i reading di strada, senza per questo rinunciare alla lezione dei grandi maestri della poesia statunitense, come Whitman e Dickinson, oppure, in tempi più recenti, Robert Lowell e Sylvia Plath.
I temi toccati nelle poesie dell’antologia sono vari, ma comunque sempre significativi del clima sociale degli Stati Uniti. Si trovano dunque i bellissimi versi di orgoglio afroamericano di Lucille Clifton, che sogna di trasformarsi in una donna bianca (“i capelli uno svolazzare di / foglie autunnali/ che volteggiano sul perfetto / profilo del mio naso, / niente labbra / niente didietro”), ma poi constata che “non c’è futuro / in quei vestiti” e allora “me li tolgo e / mi sveglio / ballando”). Dalle tematiche razziali al dramma dell’aids. Mark Doty racconta così, con dolcezza e lucidità, la scomparsa del compagno: “Io che sto sostenendo Wally, che se ne sta andando. / Dove non è la domanda, / anche se pensiamo che lo sia, / non sappiamo neanche dove siano i viventi, / in questo confuso ‘qui’ che si dipana”.
L’amore omosessuale è raccontato anche dalla poetessa Olga Broumas, che riscrive con originalità e ironia le fiabe della tradizione classica. Particolarmente efficace il suo racconto del risveglio della bella addormentata: “Centro della città, in mezzo / al traffico: io / mi sveglio al tuo pubblico bacio. Il tuo nome / è Judith, il tuo bacio un segnale / per i pedoni sconvolti, raccolti / sotto la luce che vuol dire / stop / nella nostra cultura”. Direttamente dalla strada, dalle rime e dai calembour dei rapper, arrivano i versi, implacabili e vagamente ispirati alla tradizione simbolista, di Willie Perdomo: “Un giorno / sulla 123esima strada / va un po’ / in questo / modo: / Pallottole di automatica / rimbalzano sui gradini della veranda / E’ tempo di pagare / tutti i miei debiti / Le campane della chiesa rintoccano per / gli accompagnatori ubriachi del funerale”.
Un Paese complesso, dunque, quello che emerge dalle poesie dell’antologia, carico di ansie e paure, ma anche sempre alla ricerca di barlumi di speranza e capace, ancora una volta, di ironia. Che negli Stati Uniti del dopo 11 settembre è già una cosa non da poco. Così come non va trascurata la forza che la poesia continua ad esercitare, anche nel mondo digitalizzato e sempre più banale in cui ci troviamo a vivere ogni giorno.
Vero specchio del crogiuolo etnico degli States, l’antologia einaudiana è una finestra aperta su traumi e problematiche, ma anche su aspirazioni e orgogli, che solcano la realtà culturale americana. Quello che emerge è un universo poetico ricco di stimoli, capace di alimentarsi anche di fenomeni “off”, come il rap e i reading di strada, senza per questo rinunciare alla lezione dei grandi maestri della poesia statunitense, come Whitman e Dickinson, oppure, in tempi più recenti, Robert Lowell e Sylvia Plath.
I temi toccati nelle poesie dell’antologia sono vari, ma comunque sempre significativi del clima sociale degli Stati Uniti. Si trovano dunque i bellissimi versi di orgoglio afroamericano di Lucille Clifton, che sogna di trasformarsi in una donna bianca (“i capelli uno svolazzare di / foglie autunnali/ che volteggiano sul perfetto / profilo del mio naso, / niente labbra / niente didietro”), ma poi constata che “non c’è futuro / in quei vestiti” e allora “me li tolgo e / mi sveglio / ballando”). Dalle tematiche razziali al dramma dell’aids. Mark Doty racconta così, con dolcezza e lucidità, la scomparsa del compagno: “Io che sto sostenendo Wally, che se ne sta andando. / Dove non è la domanda, / anche se pensiamo che lo sia, / non sappiamo neanche dove siano i viventi, / in questo confuso ‘qui’ che si dipana”.
L’amore omosessuale è raccontato anche dalla poetessa Olga Broumas, che riscrive con originalità e ironia le fiabe della tradizione classica. Particolarmente efficace il suo racconto del risveglio della bella addormentata: “Centro della città, in mezzo / al traffico: io / mi sveglio al tuo pubblico bacio. Il tuo nome / è Judith, il tuo bacio un segnale / per i pedoni sconvolti, raccolti / sotto la luce che vuol dire / stop / nella nostra cultura”. Direttamente dalla strada, dalle rime e dai calembour dei rapper, arrivano i versi, implacabili e vagamente ispirati alla tradizione simbolista, di Willie Perdomo: “Un giorno / sulla 123esima strada / va un po’ / in questo / modo: / Pallottole di automatica / rimbalzano sui gradini della veranda / E’ tempo di pagare / tutti i miei debiti / Le campane della chiesa rintoccano per / gli accompagnatori ubriachi del funerale”.
Un Paese complesso, dunque, quello che emerge dalle poesie dell’antologia, carico di ansie e paure, ma anche sempre alla ricerca di barlumi di speranza e capace, ancora una volta, di ironia. Che negli Stati Uniti del dopo 11 settembre è già una cosa non da poco. Così come non va trascurata la forza che la poesia continua ad esercitare, anche nel mondo digitalizzato e sempre più banale in cui ci troviamo a vivere ogni giorno.
09 giugno 2006
Filosofia ribelle
“La società occidentale non è barbara o più barbara di altre ma oggi è piena zeppa di ‘barbari’, di uomini e donne che fan parte di quella vastissima e cupa compagnia cantante la superiorità della nostra cultura e del nostro modello di sviluppo, gente con la verità in tasca che crede seriamente e fermamente che il proprio punto di vista sia l’unico possibile, valido e accettabile e non è in grado di comprendere e nemmeno di concepire tutto ciò che è altro da sé”. Massimo Fini è straordinario. Giornalista, scrittore, polemista di lungo corso e ora anche attore, Fini non usa mezzi termini per esprimere le proprie convinzioni e anche in questo caso, parlando di “relativismo culturale”, attacca frontalmente la nostra società e i suoi epigoni in un dizionario filosofico che raccoglie una summa della sua visione del mondo. “Il ribelle”, questo il titolo della sua ultima fatica edita da Marsilio, è un saggio articolato per voci che rappresenta un fortissimo antidoto al “pensiero unico” ed è un volume con cui è salutare confrontarsi. Anche per chi, a differenza di chi scrive, non stravede per l’ottimo Massimo.
“In questo libro – spiega Fini nella prefazione – ho cercato di condensare il pensiero che sono venuto elaborando nei miei libri e in centinaia, forse migliaia, di articoli”. Un pensiero che, nonostante la forma di dizionario, si muove lungo linee giuda molto chiare: la critica dell’Illuminismo e del concetto di modernità; la sfiducia totale verso il sistema della democrazia occidentale; la strenua difesa del concetto di relativismo culturale, cui è dedicata la prima voce del suo dizionario, fuori dalla distribuzione alfabetica; l’ammirazione per i sistemi primitivi e per il “medioevo sostenibile” del mullah Omar; la critica, durissima, alla globalizzazione.
Isolato, eretico, “ribelle, in una certa misura, anche a se stesso”, Massimo Fini sostiene che “non esistono sistemi morali, né religiosi, né principi universali. [...] Anche il relativista ha le sue preferenze, ma è consapevole che sono semplicemente sue, non una verità oggettiva valida anche per altri, o addirittura per tutti”. E la responsabilità del singolo, in questa prospettiva, diventa addirittura titanica: crearsi una tavola di valori autonoma che lo rende “individualmente e totalmente responsabile dei propri atti e se ne assume tutte le responsabilità davanti alla comunità in cui vive, senza esitazioni, senza piagnucolamenti, senza autocommiserazioni e autogiustificazioni”.
Sfogliando il dizionario si incontrano spunti straordinari, che spaziano un po’ in tutti i campi del sapere. Prendendo qualche voce a caso possiamo citare “antropomorfismo” (“Che Dio, questo Essere perfettissimo, abbia creato l’uomo a su immagine e somiglianza è un’idea assai bizzarra e vagamente blasfema”) o “consenso” (“Pirrone, filosofo scettico, una volta che la folla lo applaudiva mormorò: Che abbia detto qualche sciocchezza?”). O ancora “ong” (“Sono più pericolose degli ogm”) o “Bush, George W.” (“Non è necessario vestire una scimmia, per vedere una scimmia vestita”). In tempi di omologazione televisiva – su standard pietosamente bassi – certe letture provocatorie sono una vera boccata d’aria fresca.
Il cuore del ricchissimo libro di Fini si trova probabilmente nella lettera “D”, dove confluiscono le voci “democrazia”, “destra/sinistra”, “dignità” e “donne”. A proposito del nostro sistema politico si può leggere: “La ‘democrazia reale’, quella che concretamente viviamo, è una parodia, una finzione, un imbroglio, una truffa. [...] Le democrazie sono quindi delle aristocrazie mascherate”. Per Fini “Destra e Sinistra non sono più in grado di comprendere una realtà che le ha scavalcate” anche perché – secondo lo scrittore – liberalismo e marxismo sono comunque due facce dello stesso “pensiero unico”. A proposito della dignità se ne piange la scomparsa, mentre sui diritti delle donne il buon Massimo, da estimatore del mullah Omar, va abbastanza controcorrente. Si può dissentire, e su quest’ultimo punto Kilgore lo fa, ma lo ribadiamo: Fini, come Stirner, è Unico.
“In questo libro – spiega Fini nella prefazione – ho cercato di condensare il pensiero che sono venuto elaborando nei miei libri e in centinaia, forse migliaia, di articoli”. Un pensiero che, nonostante la forma di dizionario, si muove lungo linee giuda molto chiare: la critica dell’Illuminismo e del concetto di modernità; la sfiducia totale verso il sistema della democrazia occidentale; la strenua difesa del concetto di relativismo culturale, cui è dedicata la prima voce del suo dizionario, fuori dalla distribuzione alfabetica; l’ammirazione per i sistemi primitivi e per il “medioevo sostenibile” del mullah Omar; la critica, durissima, alla globalizzazione.
Isolato, eretico, “ribelle, in una certa misura, anche a se stesso”, Massimo Fini sostiene che “non esistono sistemi morali, né religiosi, né principi universali. [...] Anche il relativista ha le sue preferenze, ma è consapevole che sono semplicemente sue, non una verità oggettiva valida anche per altri, o addirittura per tutti”. E la responsabilità del singolo, in questa prospettiva, diventa addirittura titanica: crearsi una tavola di valori autonoma che lo rende “individualmente e totalmente responsabile dei propri atti e se ne assume tutte le responsabilità davanti alla comunità in cui vive, senza esitazioni, senza piagnucolamenti, senza autocommiserazioni e autogiustificazioni”.
Sfogliando il dizionario si incontrano spunti straordinari, che spaziano un po’ in tutti i campi del sapere. Prendendo qualche voce a caso possiamo citare “antropomorfismo” (“Che Dio, questo Essere perfettissimo, abbia creato l’uomo a su immagine e somiglianza è un’idea assai bizzarra e vagamente blasfema”) o “consenso” (“Pirrone, filosofo scettico, una volta che la folla lo applaudiva mormorò: Che abbia detto qualche sciocchezza?”). O ancora “ong” (“Sono più pericolose degli ogm”) o “Bush, George W.” (“Non è necessario vestire una scimmia, per vedere una scimmia vestita”). In tempi di omologazione televisiva – su standard pietosamente bassi – certe letture provocatorie sono una vera boccata d’aria fresca.
Il cuore del ricchissimo libro di Fini si trova probabilmente nella lettera “D”, dove confluiscono le voci “democrazia”, “destra/sinistra”, “dignità” e “donne”. A proposito del nostro sistema politico si può leggere: “La ‘democrazia reale’, quella che concretamente viviamo, è una parodia, una finzione, un imbroglio, una truffa. [...] Le democrazie sono quindi delle aristocrazie mascherate”. Per Fini “Destra e Sinistra non sono più in grado di comprendere una realtà che le ha scavalcate” anche perché – secondo lo scrittore – liberalismo e marxismo sono comunque due facce dello stesso “pensiero unico”. A proposito della dignità se ne piange la scomparsa, mentre sui diritti delle donne il buon Massimo, da estimatore del mullah Omar, va abbastanza controcorrente. Si può dissentire, e su quest’ultimo punto Kilgore lo fa, ma lo ribadiamo: Fini, come Stirner, è Unico.
07 giugno 2006
La letteratura inglese, alla Borges
Nel 1966 un professore pressoché cieco tenne un corso completo di lezioni sulla letteratura inglese all’Università di Buenos Aires. L’insegnante, che quasi come Omero declamava a memoria un gran numero di versi e citazioni, era Jorge Luis Borges, oggi riconosciuto come una dei più grandi scrittori di tutto il Novecento. Quelle lezioni, che spaziano dalle origini della lingua inglese al tardo romanticismo, furono registrate e quindi trascritte dagli studenti e ora sono diventate un libro, curato da Martìn Arias e Martìn Hadis ed edito in Italia da Einaudi: “La biblioteca inglese”.
“Quel che Borges professore pretende – spiega Arias nell’introduzione – più che far progredire gli studenti, è suscitare il loro entusiasmo e condurli alla lettura delle opere e alla scoperta degli scrittori”. Si capisce dunque che le lezioni presentate, lungi dall’essere una fredda analisi storico-tematica, si presentano, proprio come molte delle opere narrative di Borges, come un viaggio affascinante e ricco di richiami alla letteratura universale.
Le 25 legioni tenute dal grande scrittore argentino toccano i temi più svariati, e sono sempre animate da passione e capacità di offrire letture originali dei testi. A proposito del poema epico medievale “Beowulf”, Borges ne mette in luce l’attenzione per “l’ospitalità, la cortesia, i regali, i giullari: insomma, quello che attualmente chiameremmo la vita sociale”. Parlando di Samuel Johnson, e del suo carattere non facile, Borges sfodera anche la propria proverbiale ironia: “Per un certo periodo fu interessato al tema dei fantasmi. E ne fu interessato a tal punto che trascorse alcune notti in una casa deserta per riuscire a incontrarne qualcuno. Sembra che non vi riuscì”.
Straordinarie, poi, le pagine dedicate a Samuel Taylor Coleridge e al sogno che gli ispirò i versi del poema “Kubla Khan”. Dopo aver ricevuto in sogno un intero poema, racconta Borges agli studenti che immaginiamo rapiti, Coleridge si accinse a trascriverlo: “Scrisse una settantina di versi, e giunto a quel punto ricevette la visita di un signore della vicina fattoria di Porlock. [...] La visita durò un paio d’ore, e quando Coleridge riuscì finalmente a liberarsi di lui e cercò di riprendere la scrittura del poema che il sogno gli aveva dato, si rese conto di averlo dimenticato”. E così l’opera rimase incompleta. Ma non saremmo al cospetto di Borges se la storia non avesse un seguito: e infatti lo scrittore argentino ci racconta anche che parecchi anni dopo la morte di Coleridge venne pubblicato il libro di uno storiografo persiano – che il poeta inglese non poteva avere letto – nel quale era scritto che “l’imperatore Kublai Khan aveva costruito un palazzo e che lo aveva fatto erigere secondo un progetto che gli era rivelato in sogno”.
Al termine dell’itinerario inglese di Borges un ultimo consiglio agli studenti, che ci dà la cifra dell’insegnante: “Se un libro vi annoia – scrive – abbandonatelo; non leggete un libro perché è famoso, non leggete un libro perché è moderno, non leggete un libro perché è antico. Se per voi un libro è noioso, lasciatelo, anche se si tratta del ‘Paradiso perduto’ o del ‘Chisciotte’ – che per me non sono noiosi. Ma se per voi un libro è noioso, non leggetelo; significa che quel libro non è stato scritto per voi”. La conclusione possibile è una sola: Borges, anche in questa veste inedita di vate-docente, fa bene alla nostra vita. (l.me.)
“Quel che Borges professore pretende – spiega Arias nell’introduzione – più che far progredire gli studenti, è suscitare il loro entusiasmo e condurli alla lettura delle opere e alla scoperta degli scrittori”. Si capisce dunque che le lezioni presentate, lungi dall’essere una fredda analisi storico-tematica, si presentano, proprio come molte delle opere narrative di Borges, come un viaggio affascinante e ricco di richiami alla letteratura universale.
Le 25 legioni tenute dal grande scrittore argentino toccano i temi più svariati, e sono sempre animate da passione e capacità di offrire letture originali dei testi. A proposito del poema epico medievale “Beowulf”, Borges ne mette in luce l’attenzione per “l’ospitalità, la cortesia, i regali, i giullari: insomma, quello che attualmente chiameremmo la vita sociale”. Parlando di Samuel Johnson, e del suo carattere non facile, Borges sfodera anche la propria proverbiale ironia: “Per un certo periodo fu interessato al tema dei fantasmi. E ne fu interessato a tal punto che trascorse alcune notti in una casa deserta per riuscire a incontrarne qualcuno. Sembra che non vi riuscì”.
Straordinarie, poi, le pagine dedicate a Samuel Taylor Coleridge e al sogno che gli ispirò i versi del poema “Kubla Khan”. Dopo aver ricevuto in sogno un intero poema, racconta Borges agli studenti che immaginiamo rapiti, Coleridge si accinse a trascriverlo: “Scrisse una settantina di versi, e giunto a quel punto ricevette la visita di un signore della vicina fattoria di Porlock. [...] La visita durò un paio d’ore, e quando Coleridge riuscì finalmente a liberarsi di lui e cercò di riprendere la scrittura del poema che il sogno gli aveva dato, si rese conto di averlo dimenticato”. E così l’opera rimase incompleta. Ma non saremmo al cospetto di Borges se la storia non avesse un seguito: e infatti lo scrittore argentino ci racconta anche che parecchi anni dopo la morte di Coleridge venne pubblicato il libro di uno storiografo persiano – che il poeta inglese non poteva avere letto – nel quale era scritto che “l’imperatore Kublai Khan aveva costruito un palazzo e che lo aveva fatto erigere secondo un progetto che gli era rivelato in sogno”.
Al termine dell’itinerario inglese di Borges un ultimo consiglio agli studenti, che ci dà la cifra dell’insegnante: “Se un libro vi annoia – scrive – abbandonatelo; non leggete un libro perché è famoso, non leggete un libro perché è moderno, non leggete un libro perché è antico. Se per voi un libro è noioso, lasciatelo, anche se si tratta del ‘Paradiso perduto’ o del ‘Chisciotte’ – che per me non sono noiosi. Ma se per voi un libro è noioso, non leggetelo; significa che quel libro non è stato scritto per voi”. La conclusione possibile è una sola: Borges, anche in questa veste inedita di vate-docente, fa bene alla nostra vita. (l.me.)
Kilgore Trout is alive
Un blog per parlare di letteratura, cinema, arte, fotografia. Nel segno di Kilgore Trout, l'autore di fantascienza più bistrattatto del mondo, e della sua inesausta dedizione alla letteratura. Come Trout anche noi vaghiamo in un mondo popolato di alieni di tutti i tipi (dai tronisti ai personal trainer, dagli analisti di mercato ai Jonathan del Grande Fratello) dai quali abbiamo poche armi per difenderci, una delle quali è la cultura. Che inevitabilente sfuma nel Pop e nel Postmoderno, ma che, perlomeno, lo fa consapevolmente.
Libri, film, mostre, incontri con autori... Kilgore Magazine cercherà di occuparsi di tutto questo da un punto di vista inevitabimente e orgogliosamente parziale, come è nello spirito dissacratore del nume a cui ci ispiriamo. Lunga vita dunque a Trout, ai suoi romanzi di serie B, alle sue prediche moralistiche, alla sua invocazione all'Autore: "Fammi giovane". Convinti come siamo che la giovinezza sia una questione (anche) di testa, cercheremo di trattare di argomenti che siano un'efficace palestra per i pochi neuroni sopravvissuti all'assalto dei grandi Banalizzatori mediatici. E che Kilgore ce la mandi buona.
Libri, film, mostre, incontri con autori... Kilgore Magazine cercherà di occuparsi di tutto questo da un punto di vista inevitabimente e orgogliosamente parziale, come è nello spirito dissacratore del nume a cui ci ispiriamo. Lunga vita dunque a Trout, ai suoi romanzi di serie B, alle sue prediche moralistiche, alla sua invocazione all'Autore: "Fammi giovane". Convinti come siamo che la giovinezza sia una questione (anche) di testa, cercheremo di trattare di argomenti che siano un'efficace palestra per i pochi neuroni sopravvissuti all'assalto dei grandi Banalizzatori mediatici. E che Kilgore ce la mandi buona.
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