12 dicembre 2008

Diuturna Laus

I caterpillar, timidamente, regnano
sull'orizzonte angoloso della mia percezione
signori reticenti dello sviluppo metropolitano
di cui al pendolare sfugge la prospettiva
la Geometria, forse non euclidea, del Senso
la ritrosia dell'incertezza dominante
mentre la massa orrenda detta i suoi slogan
alle promoter natalizie
sponsorizzate da una catena di gioiellerie moldave
che ha brevettato il cuore umano
e ne ha prodotto un manufatto dozzinale
pregno di più significato di quanto non sappia

Io che sarò sempre ciò che non voglio
guardo senza fiatare il Leviatano
del dissesto finanziario globale
che stritola, serrando fauci multipolari,
l'ultimo oltraggio l'ultima celia
ed il respiro che trattengo esplode
come le foglie di un Flamboyant
come il maligno embolo mediale
che puntuale suppura dalla ferita dell'informazione

Mangeremo merda, disse il Colonnello

01 dicembre 2008

La follia, il destino, la morte: ancora Philip Roth

A settantacinque anni compiuti e svariate nomination, mai concretizzatesi, al Premio Nobel, Philp Roth continua a stupire con un nuovo romanzo: “Indignation”, uscito da poche settimane negli Usa e in Gran Bretagna. Una storia tragica, a metà strada tra Shakespeare e i film dell’orrore, che racconta la discesa all’inferno di una matricola universitaria, Marcus Messner, coinvolto suo malgrado in una serie di spiacevoli eventi che lo conducono inesorabilmente al suo destino. Con straordinaria capacità di rinnovarsi pur rimanendo se stesso, Roth reinventa il romanzo di formazione e lo declina in una lucida digressione sull’eterna lotta tra l’aspirazione alla libertà e il conformismo, in fondo sempre trionfante. Marcus paga la propria volontà di solitudine, la scelta di rifiutare gli scontri diretti, l’ambizione a essere se stesso alle proprie condizioni. La società non lo permette, e la sua giusta indignazione è proprio ciò che innesca gli eventi che lo distruggeranno.

A 13 anni da “Il teatro di Sabbath”, monumentale e forse sottovalutato romanzo che ha inaugurato una delle più stupefacenti maturità letterarie dei nostri tempi, Philp Roth continua magistralmente a raccontare l’universo ebraico, il sesso, la ribellione e, negli ultimi anni sempre più, la morte. E proprio Sabbath, il burattinaio perverso e disperatamente umano, sembra essere il personaggio più distante dal Marcus di “Indignation”, definito dalla New York Review of Books “il miglior ragazzo del mondo”. Eppure Roth, la cui capacità di raccontare gli abissi con apparente leggerezza lo rende sempre più shakespeariano, pagina dopo pagina colma la distanza tra i due, che in fondo appaiono come due facce di una stessa medaglia: uomini che hanno cercato furiosamente di marcare la propria strada, i propri amori, le proprie ossessioni e alla fine sono stati sconfitti. Da chi? Probabilmente dal mondo, ma forse pure dal destino e da qualcuno che si arroga il diritto e la pretesa di detenere la Verità.

La critica americana ha parlato di un libro “strano”, qualcuno anche di un “errore” di Roth, seppure “intrigante”. Ma “Indignation” sembra la naturale conseguenza del percorso rothiano degli ultimi anni, segnato dall’indagine sempre più profonda e lontana da ogni autocompiacimento dentro la decadenza, fisica, psicologica e morale degli uomini. Che tentano disperatamente di opporvisi con quel vitalismo che ha reso immortale un Nathan Zuckerman, ma non possono che arrendersi davanti all’orrore infinito con cui si trovano a dover fare i conti. E’ così per Sabbath, ma anche per Seymour Levov, il magnifico “svedese” di “Pastorale americana”, e per Coleman Silk, l’enigmatico docente de “La macchia umana”. E l’orrore, della morte, del vuoto, del silenzio pervade gli altri grandi romanzi degli anni Duemila come “L’animale morente”, “Everyman”, “Il fantasma esce di scena”. Ma è curioso e geniale che a chiudere il cerchio, almeno per ora, sia un ragazzo che si affaccia alla vita e non un anziano romanziere che racconta in prima persona la propria odissea nella vecchiaia. Marcus non vuole diventare scrittore, Marcus cerca soltanto di seguire la propria strada senza deludere chi crede in lui e senza rinunciare alle proprie convinzioni. Si troverà, fissato in una condizione di eterno narratore, a dover rinunciare a tutto tranne che ai ricordi. E l’unica via di salvezza a quel punto sarà il racconto, la narrazione. Che non basta a salvarci la vita, ma è forse l’unica strada che Roth ci può indicare per provare a superare, almeno in parte, la paura dell’orrore che nei suoi romanzi riusciamo a intravedere sotto la patinatura della realtà.

18 settembre 2008

A Mantova, con Lewis e Schiele

Una vita tormentata, un'arte provocatoria e una Vienna cupa e decadente: sono questi gli ingredienti della biografia romanzata del pittore espressionista Egon Schiele che segna l'esordio letterario di Lewis Crofts, giornalista e scrittore inglese 31enne. "Il pornografo diVienna", edito in Italia da Marco Tropea, è un romanzo appassionante che ricostruisce la vita e l'opera di Schiele, partendo dalla inquietante luna di miele dei genitori e arrivando fino alla morte dell'artista. Nel mezzo scorrono i demoni dell'arte e della passione, che il pittore declina in opere essenziali e scandalose, che gli costeranno lunghi periodi di miseria e anche la prigione prima di ricevere la consacrazione accademica. Ma anche questo trionfo sarà intonato al periodo decadente in cui l'impero Asburgico vive i suoi ultimi anni.

"Volevo catturare la forza dei dipinti nella scrittura - ci ha detto Lewis Crofts in uno stimolante incontro a Mantova -. Probabilmente non si può fare arte sull'arte, ma almeno ci si può provare". Il romanzo di Crofts unisce felicemente storia e invenzione ("Da un lato sei costretto dai fatti, ma poi sei anche libero di immaginare le persone che stanno dietro ai quadri") e si richiama alla grande tradizione mitteleuropea del XIX secolo. In particolare il rapporto tra Schiele e il padre fa pensare aKafka, ma Crofts allarga il campo: "Ho preso ispirazione da Kafka, ma in maniera generica. Se vuoi capire l'Europa di quel periodo hai molti modelli: Kafka, ma anche Schnitzler, Freud, Wittgenstein, Mahler, Klimt, Kokoschka. L'ambiente in cui sono nati i loro lavori era molto importante". E anche ne "Il pornografo di Vienna" l'ambiente della città, cupa come non mai, svolge una parte essenziale, tanto da esserne protagonista quasial pari del pittore.

Se l'ambientazione del libro è tardo-ottocentesca, i modelli cui si ispira Crofts sono pietre miliari del Novecento: in primis Wladimir Nabokov, cui lo unisce la ricerca "nella linguistica e nello stile. Quando pensi a 'Lolita' - ci ha detto Crofts - è incredibile come si possa restare affascinati, anche dopo cento pagine, da un personaggio che molto probabilmente è un pedofilo. Schiele non è un pedofilo, ma è un personaggio controverso e io sono molto affascinato da lui. E' una grande abilità rendere interessanti i cattivi personaggi". Una dote simile Crofts la individua anche in Milan Kundera, "bravo a trovare i lati oscuri e a renderli attraenti". Quando gli chiediamo se sente un legame con i grandi romanzieri sociali del XIX secolo, alla Dickens o alla Balzac, Crofts spiega: "Volevo catturare la società diVienna prima della Prima Guerra mondiale, ma non volevo fare come Dickens o Dostoevskij che scrivono centinaia di pagine e creano centinaia di personaggi. Loro avrebbero fatto un grande affresco, il mio libro si ispira ai dipinti di Schiele, che sono molto semplici e circoscritti. Io ho usato piccoli paragrafi, come brevi pennellate".

Il romanzo di Lewis Crofts descrive gli ultimi giorni di un'epoca, che andava verso la decadenza senza che molti se ne rendessero conto. "La decadenza - ci ha spiegato a proposito della Vienna dell'epoca - veniva fuori segretamente, per esempio quando la gente andava di notte con le prostitute. Oggi la decadenza è pubblica. Per Schiele la decadenza si manifestavas oprattutto nella disonestà e nell'ipocrisia". Eppure, quella società in crisi arriverà a celebrarlo come un grande artista:"Il paradosso straordinario degli artisti - ha aggiunto Crofts - è che loro attaccano l'establishment di cui sono parte. Ed Egon Schiele risolve il problema diventando parte del sistema". Ma i suoi quadri restano - disturbanti, seducenti ed enigmatici - a dirci che alla fine non tutto può essere normalizzato. E il romanzo di Crofts ce lo conferma.

03 agosto 2008

Madurai

Il battito di piatti e mani accompagna la ragazzina
Che vola spaurita sulla folla
A piedi nudi su quel filo teso
Tra il medioevo e il dopodomani dell’Occidente
Nel caos dei motorisciò che compostamente anarchici
Punteggiano la Town High Road pomeridiana

Le vacche dormono negli anfratti del futuro
I pali della luce strozzati da mille cavi
Pronti ad esplodere in un singulto sovraccarico

Qui, dove nessuno ha idea di chi sia il suo vicino
Qui, dove qualcosa è già successo
- pareva impossibile -
Dove qualcosa ancora succederà
Forse un pedone travolto, forse un riverbero
Di un altro mondo
Che manda cablogrammi gracchianti
Dal fonografo ai piedi del tempio

Ma quale scempio è la modernità
Lo chiedo all’elefante sacro
Ai pellegrini nudi, sudati e scuri
Al venditore di ciambelle fosforescenti

Ma la bambina trapezista, ancora,
mi fissa seria e non risponde

17 giugno 2008

Rick Moody, ritratto dell'artista massimalista

Sì, io sono un massimalista. Rick Moody, scrittore newyorchese classe 1961, ha un bel sorriso e occhi rassicuranti, ma le sue pagine grondano di storie complesse, spesso vissute su un confine sottile e pericoloso, e sono sorrette da una lingua potente e multiforme, distante anni luce dagli standard del minimalismo. In Italia per presentare il suo nuovo libro – “Tre vite”, edito dalla stessa Minimum Fax che pubblica Raymond Carver -, Moody ammette di non aver mai voluto seguire l’esempio del grande minimalista: “Non ho mai voluto essere uno scrittore di questo tipo – ha spiegato a Kilgore in un piacevole incontro milanese -. Fin dal liceo non sono mai stato un bravo minimalista, non riesco a essere riassuntivo e semplificatorio”. E basta cominciare a leggere “Tre vite” per rendersene conto. La novella che apre il libro, “L’Armata Omega”, è infatti un lucido percorso dentro la follia di un anziano miliardario paranoico che, mentre si batte contro le malattie senili e i propri problemi personali, viene a conoscenza di uno spaventoso complotto e subito si impegna in prima persona per garantire la sicurezza nazionale contro dei misteriosi nemici “dalla carnagione scura”. La chiave per entrare in questo universo oscuro il dottor Van Deusen la trova in un romanzo di fantapolitica e il suo contatto con le forze di sicurezza è un altro anziano che finge di fare il pescatore, ma in realtà è un agente segreto. E questa è solo una lacunosa sintesi del racconto.

Niente di più distante dalle trame scarne di Carver dunque, e il pensiero che subito corre ai maestri del postmoderno, come per esempio l’inafferrabile Thomas Pynchon. “Accanto alla tradizione minimalista – ci ha detto Moody – c’è un’altra corrente letteraria fortemente influenzata dall’Europa e dalla letteratura sperimentale che comprende Pynchon, ma anche Don DeLillo, William Gaddis. Io mi sento più vicino a questi scrittori e mi sono formato con Angela Carter e John Hawkes, mi sento più affine al loro stile. Se questo è massimalismo allora io sì, sono un massimalista”. Per quanto le definizioni siano sempre un po’ limitative, è comunque indubbio che Rick Moody punti in alto, tanto per gli argomenti delle sue storie quanto per il modo in cui le racconta. Ma quando, sempre in “L’Armata Omega”, il protagonista capisce quale deve essere la sua missione, ecco che la storia vira dal semi grottesco in qualcosa di diverso, difficile da circoscrivere. Ed è la prosa di Moody che segna lo scarto con periodi come questo: “Mentre avanzavo, ho sentito il sibilo di un paio di palle da golf che mi sfrecciavano vicino, come piccoli asteroidi nel grande ignoto di questo presente apocalittico, ma non vi ho prestato la minima attenzione”. Oppure, e qui il legame con le tematiche più care a Pynchon e DeLillo è manifesto, poco più avanti leggiamo: “Forse la Fraulein piangeva perché sapeva che questa vita non manteneva niente di quello che prometteva, vale a dire che ogni interazione umana era mediata dai tristi fatti che ci circondavano”. Il contesto non è poi così importante, perché queste frasi brillano di luce propria.

Lo stile sta al centro del lavoro di Rick Moody, e quando gli chiediamo per lui quanto è importante il “come” si scrive, la risposta comincia con un “non ci si pone abbastanza questa domanda” che suona come una velata accusa a chi si focalizza troppo su trame e intrecci. “La mia idea – ci ha spiegato lo scrittore – è che ognuno abbia un suo stile raffinato, anche Carver ed Hemingway che puntavano, volutamente, al massimo della sobrietà. Il mio metodo è fatto di frasi lunghe, complesse, ricche di aggettivi e avverbi”. Una scelta di articolazione del linguaggio che si colloca anche nella dimensione musicale: “Io do grande importanza – ha aggiunto lo scrittore – al valore sonoro della lingua, che si affianca al semplice significato delle parole”. Suoni, ritmi, caleidoscopi di immagini che si sovrappongono anche nel lungo racconto che chiude il libro di Moody e che Dave Eggers ha selezionato per la propria antologia di storie d’avventura già apparsa in Italia qualche anno fa: “Albertine”. Una novella complessa e visionaria sulla memoria e sulla realtà che cita Proust nel titolo ma poi in qualche modo reinventa il genere fantascientifico in chiave allucinatoria, nel solco della migliore tradizione di Phil Dick. “La distinzione tra i generi della letteratura – ci ha detto Moody a proposito di chi considera minori certe tipologie di scritti e scrittori – è arbitraria e non sta scritta da nessuna parte. Io credo che la fantascienza abbia la stessa dignità della letteratura ‘tradizionale’ e ci sono grandi scrittori di fantascienza che io considero grandi scrittori pienamente letterari. C’è un continuum tra letteratura ‘alta’ e ‘bassa’ e romanzieri come Dick, William Gibson o J. G. Ballard non possono essere incasellati in definizioni di genere. Dick, per esempio, può essere criticato per qualche frase non perfetta, ma le sue idee sono fortissime”.

“Albertine”, nella tradizione della migliore science-fiction, è in ogni caso una novella che parla anche del nostro presente, in particolare di quello americano legato all’11 settembre. In una New York da “day after” spopola una droga, che ha lo stesso nome dell’amata di Proust, che fa ricordare il passato, quella vita che le esplosioni hanno spazzato via insieme alla città. Tutto è, ovviamente, ben più complesso e tra salti spazio temporali, anticipazioni di futuro, cartelli del narcotraffico, resistenti di Brooklyn e momenti in cui il protagonista riesce “a recitare a memoria tutte le poesie che avevo imparato nella vita”, si entra in un vortice di percezioni che scavalca ogni definizione di genere e sembra puntare decisa verso il cuore della letteratura, quel luogo nucleare dove lo scrittore manovra il proprio potere di demiurgo creatore. Un’interpretazione che forse scavalca le intenzioni di Rick Moody, che, pur apprezzandola, ci riporta su un piano di realtà: “L’elemento del ricordo – ha spiegato lo scrittore – deriva dalla sensazione che dopo l’11 settembre nell’opinione pubblica statunitense si tentasse di dimenticare molto del passato politico, ossia tutte le responsabilità americane che avevano contribuito a creare le condizioni per l’attacco terroristico. E al tempo stesso la gente voleva ricordare ciò che c’era prima degli attentati al World Trade Center. Si cercava di dimenticare intensamente alcune cose e di ricordarne intensamente altre, e la memoria era come un tesoro, ma molte parti venivano rimosse. In ‘Albertine’ ho cercato di rendere questa sensazione e questo paradosso”.

La paura, come ha sottolineato l’editor del libro Martina Testa, è uno dei fili rossi delle tre narrazioni e, a ben guardare, si ha la sensazione chi racconti fotografino un Paese alla deriva, perso nei meandri dei propri timori. “Un anno fa – ci ha detto Rick Moody – la situazione era esattamente questa, per come la vedevo io. Ma oggi sono molto più speranzoso per gli sviluppi che stiamo vedendo”. Sviluppi che hanno un nome e un cognome: Barack Obama. “Sarà un’elezione combattuta – ha spiegato con grande partecipazione Moody – ma Obama ha la possibilità di farcela e io lo sostengo. Ha ottime chance di vittoria, sarebbe meraviglioso se ce la facesse”. Obama piace anche ad altri scrittori, come Jonathan Safran Foer, che recentemente ha raccontato la propria passione politica per il senatore nero anche alla stampa italiana. Rick Moody si unisce all’appello di Safran e si dichiara convinto che non solo elite e intellettuali guardino con simpatia al candidato democratico. “La gente è con lui – ci ha detto – ha vere basi di appoggio popolare anche se una certa fascia di bianchi razzisti dei ceti più bassi potrebbe fare resistenza, soprattutto nel MidWest. Sono proprio quelli che sostenevano Hillary Clinton, ma se ora si farà il ticket anche questo problema potrà essere risolto”.

Moody si entusiasma quando parla di Obama, ma come scrittore crede più nello sguardo sociologico che in quello, potremmo dire, politologico. “Più che alla politica sono interessato a descrivere come le persone reagiscono alla paura, per esempio. Non cerco di raccontare l’atmosfera politica vera e propria, anche se la metafora riguarda effettivamente le condizioni del mio Paese”. Politica e letteratura, anche nel caso di uno scrittore appassionato come Moody, restano comunque oggetti diversi e distanti e lo si percepisce anche da come lo scrittore, pur raccontando di paranoie, violenze tra colleghi o di un presente alternativo e apocalittico, si prende cura dei suoi personaggi. Lo sguardo non è mai sprezzante e, anzi, sembra diventare più affettuoso a mano a mano che le loro situazioni si fanno più complesse e le loro condizioni peggiori. “Il momento della politica – ha voluto spiegare Moody – è uno strumento per evocare la psicologia dei personaggi, la loro interiorità e per questo sono meritevoli di attenzioni affettuose e non di disprezzo, anche se rappresentano idee politiche che io non condivido”. E poi, come Salinger ci ha magistralmente ricordato alla fine de “Il giovane Holden”, lo scrittore non riesce a non affezionarsi ai personaggi nati dal suo racconto: “Se lasci che un personaggio racconti la sua storia a lungo – ha ammesso Moody – diventa impossibile non provare compassione, e questo è proprio il ruolo dello scrittore”. Anche di uno che si dichiara fieramente massimalista.

10 giugno 2008

Tom McCarthy, un romanzo da ricordare

Un "romanzo dei ricordi perduti" che piomba sulla scena letteraria con la forza di una ventata d'aria fresca, che spariglia le carte e porta nuova linfa al romanzo contemporaneo. "Déjà vu" del 39enne artista inglese Tom McCarthy, edito in Italia per i tipi di Isbn, è la storia di un'ossessione, ma anche una sorta di manuale per guardare alla realtà, da un punto di vista che si richiama a Don Chisciotte e ad Amleto, ma anche a Francis Ponge e al leggendario Thomas Pynchon. Tutto ruota intorno a un protagonista, "un antieroe" nella definizione dello stesso McCarthy, che, colpito da un misterioso oggetto caduto dal cielo, perde la memoria. Incassato un enorme risarcimento, l'uomo senza nome comincia a esperire dei déjà vu e, usando i milioni di sterline di cui ora dispone, mette in scena delle ricostruzioni complesse dei suoi pochi ricordi, nelle quali intervengono figuranti e tutto viene ricreato nei minimi dettagli. La ricerca della naturalezza, della "fluidità" dei gesti, porterà il protagonista e il suo assistente, l'indiano Naz di professione "facilitatore", a spingersi sempre più avanti, in un'escalation di tensione e drammaticità che culminerà a bordo di un aereo dirottato.

"Ho finito di scrivere il romanzo - ha detto McCarthy a Kilgore in un incontro a Milano - nel luglio 2001 e quando ho visto cosa è successo l'11 settembre ho quasi pensato: mi hanno fregato il finale". Nonostante risalga a quasi sette anni fa, "Déjà vu" ha faticato a trovare un editore e, dopo una prima edizione a tiratura limitata del 2004, è uscito negli Stati Uniti nel 2006 e, la notizia è del 1 giugno, si è anche aggiudicato il Believer Book Award 2007. "Sono molto felice per questo premio - ci ha detto lo scrittore -, il mio libro non è destinato a vincere premi come il Pulitzer, è marginale rispetto al mainstream". In realtà però i temi toccati da McCarthy sono profondi e cruciali per il nostro tempo e fanno pensare anche al lavoro di Don DeLillo, romanziere che ha indagato sui flussi di informazione che attraversano la nostra vita. "Sono stato sicuramente influenzato anche da DeLillo - ha spiegato McCarthy - ma lui è più concettuale, io volevo che il mio libro fosse più materiale, non solo idee, ma anche cose concrete. Un'influenza più profonda - ha aggiunto lo scrittore britannico - mi viene da Francis Ponge per l'osservazione degli oggetti, per come li descrive. Ma anche dal cinema di Tarkovskij, che per sei minuti riprende un muro".

La storia narrata in "Déjù vu" è anche la cronaca del fallimento del tentativo di creare copie perfette della vita. "Il mondo – ci ha spiegato McCarthy - è sempre un passo avanti. Questo è un romanzo anti idealista, anti hegeliano. In termini filosofici c'è un grande combattimento tra Bataille ed Hegel e chi vince è Bataille. Ossia l'imprevedibilità delle situazioni, i conti che non tornano, quel qualcosa in più che disorienta e crea la sensazione inebriante che coglie l'antieroe nel finale del libro.

Il romanzo di McCarthy si focalizza dunque sul'arte di vedere, che si viene a configurare quasi come una performance della vita quotidiana. "Questa - ha detto lo scrittore - è l'essenza della
poesia e anche dell'arte visuale". Una pratica, quella di offrire una visione più profonda della realtà, che fa dell'arte una sorta di "negativo fotografico" della realtà, che si può duplicare - re-interpretare per usare il linguaggio di "Déjà vu" – migliaia di volte. "L'arte sopravvive alla realtà - ha detto McCarthy -, l'arte è ciò che rimane, il residuo". E il suo romanzo è un residuo di dimensioni fuori dal comune, destinato a lasciare traccia. Quando gli chiediamo se l'arte può salvare la nostra vita, la risposta è però inequivocabile: "No, grazie a Dio, no, no, no".

Di una cosa però Kilgore è convinto: "Déjà vu" è un romanzo importante, la cui grandezza forse riusciremo a capire appieno solo tra qualche anno, quando lo ricorderemo come un classico della nostra epoca confusa.

20 maggio 2008

Le tigri di luce di Bialobrzeski

Una città virtuale, fatta di tanti frammenti di varie città. E' questo l'obiettivo che il fotografo tedesco Peter Bialobrzeski si è posto al momento di documentare le nuove metropoli asiatiche. Un viaggio fotografico che è diventato un libro edito da Contrasto, "Tigri di luce", e oggi diventa una mostra che andrà in scena per le vie di Cinisello Balsamo nel Milanese dal 18 maggio al 13 luglio. Kilgore ha incontrato Bialobrzeski al Centro internazionale di Fotografia Forma di Milano, e il fotografo ci ha spiegato il suo modo di intendere la fotografia urbana: "Una città - ci ha detto in un impeccabile inglese - si fotografa in diversi modi, in base a quali sono i tuoi propositi. L'essenza è catturare il senso dei luoghi, non solo riguardo una specifica città, ma riguardo un'idea di città. Il mio sogno - ha aggiunto il fotografo – era trovare una qualità che unisse tutte le città, l'idea non di una sola città, ma una città virtuale fatta di frammenti di varie città". Un tentativo che, guardando le immagini di "Tigri di luce", a noi di Kilgore appare pienamente riuscito, tanto nella ricerca di un nesso comune tra Hong Kong, Shanghai, Bangkok o Singapore, quanto nella dimensione quasi onirica che la lunga esposizione e l'uso di una macchina fotografica di grande formato conferiscono agli scatti di Bialobrzeski.

L'Asia, con la frenetica crescita delle nuove metropoli, ha offerto al fotografo il materiale della sua ricerca, che l'artista legge anche da un punto di vista sociale: "E' un fenomeno soprattutto asiatico, perché qui c'è stata una grande crescita della classe media che non esisteva prima. E lo sviluppo delle città riflette la situazione economica di queste nazioni". Un dinamismo che si manifesta anche nella luce che prorompe dagli agglomerati urbani: "L'energia di una città - ha spiegato Bialobrzeski - è riflessa nell'emissione di luce. Io volevo trovare e trasformare in fotografia l'energia di queste città". E proprio il controllo della luce, che in certi scatti del fotografo tedesco è talmente perfetto da sembrare perfino semplice - quando in realtà è di enorme complessità - è uno dei motivi per cui lavora con il grande formato, che consente, attraverso pose di 4 o 8 minuti, di "raccogliere tutti i dettagli di luce".

La componente tecnica è uno degli elementi che caratterizzano il lavoro di ogni fotografo, ma per Bialobrzeski da sola non basta. "E' necessario - ha spiegato - conoscere le possibilità tecniche, ma devi anche saper piegare la tecnica a ciò che vuoi ottenere. Occorre avere in mente in anticipo quello che vuoi che venga fuori dalla fotografia. Il modo in cui lavoro io è quello di anticipare le possibilità".

Quando si pensa a immagini urbane in Italia il nome più popolare è quello di Gabriele Basilico, ormai divenuto una star internazionale grazie ai suoi lavori sui panorami di città. "Con Basilico - ha ammesso Bialobrzeski - condivido una forte idea di progetto. Lui è molto interessato alla struttura della città, una struttura pura, ma nella quale le persone non compaiono mai. Io invece lavoro in modo da rendere l'idea di città abitate, uso le coincidenze legate alla vita delle città. Ho lavorato anche come fotogiornalista - ha aggiunto l'artista - e ancora vado in cerca di cose inattese: quando trovo un punto di ripresa aspetto le possibilità della situazione". Anche nelle foto di Bialobrezski, comunque, gli edifici e il tessuto urbano sono al centro e la figura umana, per quanto presente, svolge un ruolo non di primo piano. "Io penso le persone - ci ha spiegato - come abitanti, non come individui. Ma anche come soggetti che vivono la loro vita all'interno delle strutture architettoniche avanzate che fotografo". Se però gli chiediamo se le sue città sono dei "non luoghi" la risposta è chiara: No, sono solo un tipo diverso di luogo, dei 'very much places'". Una definizione che ci piace molto.

14 maggio 2008

Aharon Appelfeld, testimone di speranza

La letteratura come speranza, la lingua ebraica come salvezza. Aharon Appelfeld, "decano" degli scrittori israeliani presenti alla Fiera del libro di Torino, ha raccontato così la propria storia e il proprio rapporto con la scrittura. La vocazione alla scrittura - ha detto a Kilgore - "è una specie di mistero. Sono arrivato in Israele nel 1946, dopo aver vissuto nel ghetto, nei campi di concentramento e nei boschi. Avevo 14 anni e avevo perso tutti i miei parenti". La scintilla per la scrittura è scattata una notte: "Presi un cartoncino e scrissi i nomi della mia famiglia. Ho fatto una lista e improvvisamente, mentre mettevo i loro nomi sulla carta, loro erano vivi e io potevo parlare con loro. E' stato il mio primo contatto con la scrittura". Un contatto che la lingua ebraica e la lettura della Bibbia hanno reso poi definitivo.

Reduce dai campi di concentramento, dai quali è fuggito bambino, oggi Appelfeld è un uomo di 76 anni che parla con voce lenta e gentile e racconta del suo modo trasognato di guardare alla vita, pur nelle circostanze più tragiche. "Ero un bambino - ha raccontato - durante quello che viene chiamato Olocausto. Ero solo, affamato e sentivo la solitudine mentre cercavo qualcuno che mi desse un po' di pane. Ma ero un bambino: giocavo con i rami, con i sassi e inseguivo gli uccelli nei boschi. Probabilmente ho assorbito questo mistero e l'ho portato in me. La meraviglia - ha proseguito il romanziere - era voglia di capire e di scrivere ancora e ancora. Per questo ho scritto delle lettere a mia madre, ogni notte. Sapevo che era morta, ma avevo dei sentimenti da trasmetterle. Sto ancora aspettando le risposte".

Lo sguardo di Appelfeld resta sempre improntato all'ottimismo: "Scrivere significa essere innamorati - ha spiegato con dolcezza - se non sei innamorato non puoi scrivere". E a proposito di ciò su cui non ha mai scritto, ossia il periodo nei campi di concentramento, è probabile che non ne scriverà mai. "Come scrittore - ha confidato - non mi interessa il momento in cui gli esseri umani perdono la propria faccia. Nel ghetto gli uomini erano ancora umani, ma nei campi di concentramento la capacità di essere un essere umano la perdi e diventi un animale. Non mi interessa scrivere degli esseri umani in questo stato". E nei suoi libri, pur nei giorni più cupi dell'umanità, riecheggia sempre la speranza. Una speranza sul futuro dell'umanità che viene riaccesa anche solo avvicinandosi a questo piccolo, straordinario testimone, che ci offre un altro modo di guardare alla storia e alla vita.

21 aprile 2008

Sera

Nella miopia di un riflesso nel vetro
Sembro un ritratto triste di El Greco
Spigoloso e asimmetrico nel pallore
Dell’impietosa luce al neon
Che irradia il campo profughi semiserio
Del treno ad alta frequentazione

Fuori, sotto le torri di Garibaldi,
Regna la pace mistica e assoluta
Aria di terra santa nella striscia incolta
Recintata d’alluminio
Che crea l’armonica separazione
Tra il glamour e la poesia dei luoghi

Le luci arancione hanno il profumo fresco
Della felicità in versione curtain-wall
E io assaporo, quieto fino all’ebbrezza,
L’incanto della città che smette di pulsare
E resta, nuda meravigliosa e assente,
A fissarmi come se fosse un sogno.
L’ultimo di un sonno pieno e generoso

21 marzo 2008

Domenica pomeriggio

Enormi palle di ghiaccio precipitano
Dal cielo
E suicidandosi come venti divini
Sull’asfalto
Il loro grido d’addio e di vendetta
Suona mostruoso e nuovo

Ho pensato fosse la guerra
Tra il pianeta e noi, guerra di rappresaglia
Inevitabile second strike
Ma in pochi istanti tutto è svanito
Nel silenzio
Grigio e rossastro del fine inverno

Rientrando in casa, sulle scale
Ho trovato mia moglie che piangeva
Lacrime copiose e lontane
Pensava a un’altra grandinata
A sangue, distruzione, forse fallimenti

Non so dire se il mio abbraccio l’abbia aiutata

Martedì

Tre mesi fa moriva Wally
Oggi una nuvola ha preso la sua forma
Correva nel cielo sgombro
Con quel suo indecifrabile mezzo sorriso

06 marzo 2008

DeLillo e la parola che (non) salva

Un nuovo romanzo di Don DeLillo di per sé è già una notizia, se poi l’argomento è il più grande evento della storia recente – gli attacchi dell’11 settembre 2001 – ecco che siamo di fronte a un evento letterario di prima grandezza. "L’uomo che cade", edito in Italia da Einaudi, è un romanzo potente, scritto magnificamente, senza morbosità e retorica. Un libro che, come accaduto con "Molto forte, incredibilmente vicino" di Jonathan Safran Foer (molto amato da Kilgore), segna una pietra miliare nella percezione letteraria dell’attacco al World Trade Center e su come è cambiata la vita (e forse il mondo, almeno per quanto riguarda l’interiorità delle persone) dopo quel giorno.

"L’uomo che cade" – titolo ispirato a un artista performer che si esibisce saltando dai palazzi vestito come un impiegato e ricorda il tragico gesto di chi si è ritrovato mortalmente intrappolato nelle due torri – è una storia circolare, che inizia e finisce nello stesso momento, quando il protagonista Keith esce da una delle due torri e, ferito ma vivo, torna dalla sua ex moglie Lianne. "Stava accadendo ovunque intorno a lui, un’automobile mezzo sepolta dai detriti, finestrini sfondati e rumori che fuoriuscivano, voci radiofoniche che sfioravano i calcinacci". La lingua di DeLillo ricrea la realtà e la rimodella, inventando quella distanza, quasi una sorta di ebbrezza del lettore, che è ormai diventata un marchio di fabbrica dello scrittore del Bronx, sempre più monumento vivente della letteratura americana. Così come una sua firma sembrano essere diventate le frasi interrotte e le domande senza punti interrogativi: elementi che contribuiscono a fare anche di questo romanzo un oggetto di dimensioni difficili da delimitare.

La storia erompe sulla scena della vita di persone più o meno comuni, ed è con i loro occhi che il romanzo procede, seguendo le loro ansie (i bambini che scrutano il cielo attendendo altri aeroplani, il nome di Bin Laden storpiato in Bill Lawton, la necessità di ritrovare qualcuno che abbia condiviso i momenti impossibili dentro le torri, la mania di contare le cose) e la loro difficoltosa strada per il ritorno alla normalità. Che alla fine Lianne trova quando si rende conto che "Dio è la voce che dice: Io non ci sono", ma che la struttura stessa del romanzo - che in chiusura ci riporta all’impatto degli aerei e al caos nell’ufficio di Keith - sembra dirci che non è davvero possibile raggiungere.

Accanto alla vicenda dei due ex sposi che (forse) si ritrovano "dopo gli aeroplani", DeLillo racconta anche di un dirottatore, questa volta partendo da lontano e arrivando solo alla fine all’11 settembre. Lo scrittore padroneggia di nuovo la materia del terrorismo (come nei precedenti romanzi "I nomi", "Giocatori" e "Mao II") con la profondità consueta, ma la forza de "L’uomo che cade" risiede forse più nello sguardo minimo che in quello globale. E quando Keith e la sopravvissuta Florence ricordano insieme lo stesso uomo che, mentre loro scendevano, saliva nella torre con un palanchino, DeLillo mette sulla pagina un paragrafo memorabile: "Qualunque cosa fosse successa a quell’uomo, si collocava al di fuori del fatto che entrambi l’avessero visto, in punti diversi della discesa, eppure in un certo senso era importante, in maniera indefinibile, che l’uomo fosse stato conservato in quei ricordi incrociati, portato giù, fuori dalla torre e in quella stanza". Per il Nobel della Letteratura precedenza anagrafica a Philip Roth, ma Don DeLillo c’è.

27 febbraio 2008

L'uomo che fotografava i vagabondi (e le star)

“La fotografia, per sua natura, è ‘veritiera’, ma Avedon insegna che una fotografia può mostrare o rivelare molto più di una verità superficiale”. Helle Crenzien, curatrice internazionale della mostra di Richard Avedon che sta facendo il giro del mondo e ora è arrivata a Milano, esprime in questa frase la sensazione di vertigine e spaesamento che coglie gli spettatori quando osservano i ritratti che il grande fotografo americano ha scattato tanto alle star che popolano l’immaginario collettivo (Marilyn Monroe o Bob Dylan) quanto ad anonimi camionisti o agricoltori incontrati sulle strade d’America. Guardando gli scatti di Avedon si ha la sensazione di cogliere qualcosa in più, anche quando il soggetto è una vera e propria icona, di entrare in uno spazio privato dove il mito svela la persona che gli sta dietro, dove le barriere sono cadute sotto la pressione di una fotografia che si è fatta arte. Il catalogo della mostra, “Richard Avedon Fotografie 1946-2004” edito da Contrasto, rappresenta una straordinaria opportunità di entrare in questo universo dello sguardo dove, nota lo scrittore inglese Geoff Dyer in uno dei numerosi saggi che corredano le immagini, “le pieghe dei volti delle persona hanno un’aria da durata geologica”.

Il libro ripercorre naturalmente anche l’attività di Avedon come fotografo di reportage – con le sue prime magiche immagini della Sicila nel 1946 – e come rivoluzionario interprete della fotografia di moda, nella quale ha introdotto il movimento e l’irriverenza con tanto stile da farne un marchio di fabbrica. Ma il cuore dell’opera sono i ritratti, magnetici e inusuali, forse perfino sgradevoli, ma sorprendentemente vicini al cogliere l’essenza dell’umano. Che, in ultima analisi, è una delle missioni fondamentali dell’arte, qualunque sia il suo mezzo d’espressione.

Charlie Chaplin che, prima di lasciare l’America nel 1952, gioca a fare il toro con le dita al posto delle corna, Katherine Hepburn che sembra imprecare stupita, il poeta Ezra Pound con gli occhi chiusi e il senso della disfatta addosso, Isak Dinesen – meglio nota con lo pseudonimo Karen Blixen – che, scrive ancora Dyer, “in uno dei suoi ritratti più famosi sembra la donna più bella del mondo, circa duemila anni fa”. Il gotha dell’arte, dello spettacolo, del potere (tra le “vittime” di Avedon ci sono Eisenhower, Bush padre e Kissinger) e della cultura sfila disarmato davanti all’obbiettivo del fotografo, che ne sfrutta gli attimi di spaesamento per far scattare l’otturatore. E così nasce lo straordinario ritratto di una Marilyn meravigliosamente distante dalla sua icona e sorprendentemente umana, come forse non si era mai vista prima né si vedrà dopo.

La forza della fotografia di Avedon però si manifesta se possibile ancor più nei ritratti della gente comune, i cui volti asimmetrici e le cui espressioni sono talmente fuori dal comune da farci chiedere se queste persone esistano davvero. Il vagabondo che ricorda Chet Baker, l’ex schiavo dai capelli bianchi, il camionista dal volto così affilato da sembrare una maschera, il lavoratore petrolifero che è in realtà un fauno direttamente fotografato in un altro universo: c’è qualcosa di magnetico e impossibile in queste immagini che ci parlano dell’umanità con un alfabeto nuovo. E collocano a buon diritto Avedon accanto a Kafka, a Picasso, a Hitchcock (per fare qualche nome a caso) e a tutti quei grandi artisti che ci hanno insegnato a decifrare il presente.

21 febbraio 2008

Kiefer e Mao

La prima impressione, entrando nella sorprendente struttura della Triennale Bovisa in una fredda sera di febbraio, è che ci si trovi davanti a una datata e un po’ stomachevole celebrazione postuma del maoismo. In realtà bastano pochi minuti, e uno sguardo meno approssimativo alle enormi tele che Anselm Kiefer ha dedicato a Mao e alla sua frase sui cento fiori per rendersi conto che siamo di fronte ad Arte con la A maiuscola, una cosa che non ha praticamente mai nulla a che vedere con la propaganda. E allora ecco che dai quadri di Kiefer emerge un Mao iconico ma immobile, immutabile nella sua posa da conducator cinese, imbrigliato nella rigidità della statua che prosciuga l’energia vitale e rende l’uomo solo uno strumento nelle mani di qualcun altro, o anche di se stesso.

Gli enormi girasoli che incombono su questo Mao eterno in una delle tele più d’impatto sono fiori mostruosi, che ricordano i Sogni di Kurosawa, virgulti dell’inquinamento nucleare. E il Presidente appare minacciato da queste propaggini infernali, che sembrano rivolgergli sguardi rancorosi, come un ‘Idra che si appresta a colpire il malcapitato naufrago... E’ vero, con la “Campagna dei cento fiori” Mao, ci dicono gli esegeti a lui più affezionati, voleva introdurre più democrazia e pluralismo. Ma i frutti di quel processo sono state altre repressioni, e, in ultima istanza, l’aberrazione della Rivoluzione culturale, scatenata dieci anni dopo i cento fiori. E nelle tele di Kiefer ecco che le rose diventano frecce che trafiggono il corpo di Mao, la cui espressione non può mutare, congelato com’è nel suo indicare la via, e lo rendono un San Sebastiano postmoderno, quasi vittima di un contrappasso dantesco. Come se i fiori, che in fondo a Kilgore sembrano rappresentare chiaramente le libertà e le vite soffocate dal totalitarismo (qualunque esso sia) che usa immagini suggestive per mascherare la morte, si prendessero finalmente la loro rivincita, ripagando il tiranno con la stessa moneta, seppur con una grazia innata che il potere non conosce.

Il potere, appunto. Altro arcano che la mostra della Triennale porta all’attenzione delle nostre coscienze. Il suo essere così marmorizzato lo rende spaventoso e incomprensibile, distante dal mondo che le tele lasciano intuire alle spalle di Mao, sempre alla ricerca di un primo piano sulla scena della storia, a qualunque prezzo. Ma i fiori che bucano la tela e qui numeri che Kiefer applica sui quadri e che ricordano tanto le famigerate cifre che identificano gli internati (anch’essi eterni, come le dittature che li producono), ci fanno capire una grande verità, almeno secondo Kilgore. Delle statue dei tiranni non abbiamo più bisogno, ma finché che ne saranno avremo bisogno di una grande arte che ci aiuti a guardarle anche con altri occhi.

20 febbraio 2008

Il dentifricio

Oggi è finito il dentifricio
Che avevamo comprato insieme all’aeroporto in Qatar
Lungo tubetto verde fosforescente con scritte arabe
E americane

Esanime sul lavandino, senza più tracotanza
Ridotto all’ombra di ciò che era stato
Una fitta di dolore mi ha lacerato il petto

Ho ripensato a te, nel letto, un istante prima della sveglia

Il lato oscuro dell'economia

Un mondo governato da forze oscure, nel quale la democrazia genera schiavitù e impoverimento e il consumismo assurge a unico valore. Loretta Napoleoni, economista ed esperta internazionale di terrorismo, traccia un quadro fosco dell’attuale situazione globale in un importante saggio, Economia canaglia edito da Il Saggiatore, che solleva il velo su una realtà fatta di schiavitù, sfruttamento e violenza nel quale la politica è stata accantonata per lasciare spazio a una fase di transizione selvaggia che stiamo ancora attraversando.

Un’operazione, quella portata avanti da Napoleoni, che ricorda il film Matrix, nel quale il protagonista scopre che la realtà nella quale ha sempre vissuto è un falso, e tutta l’umanità è solo un ingranaggio nelle mani di esseri alieni mostruosi. Lo stesso, secondo Loretta Napoleoni, accade a noi: l’economia canaglia ci vende bugie, la democrazia produce schiavitù, l’oro dei nostri gioielli gronda del sangue dei bambini congolesi. Uno scenario da incubo, pauroso come l’immagine del demone alato che campeggia efficace sulla copertina del libro, che forse sarebbe più facile fingere di ignorare. “Ma io credo che adesso ci si voglia svegliare – ci ha detto Napoleoni in un incontro a Milano – è un buon momento per svegliarsi, non cambieremo il mondo, ma possiamo almeno cominciare a proteggerci”.

“L’economia canaglia – scrive Napoleoni nell’introduzione del libro - è un fenomeno ricorrente nella storia, spesso legato a grandi e improvvise trasformazioni delle società. E’ proprio nel corso di questi mutamenti radicali che i politici tendono a perdere il controllo dell’economia. E quest’ultima diventa una sorta di entità autonoma, di strumento banditesco nelle mani di attori nuovi e spregiudicati”. Mutamenti, nel nostro caso specifico, che hanno preso avvio con la caduta del muro di Berlino e con l’ondata di lavoratori a basso costo che si è riversata in Occidente. Da quel momento, rotti i freni politici, l’economia canaglia ha preso il sopravvento e governerà la fase di transizione fino a quando si riuscirà, secondo l’economista, a stabilire un nuovo contratto sociale. “E’ difficile dire quali saranno i termini di questo contratto – ha spiegato Loretta Napoleoni a Kilgore – ma io credo che ci sarà una maggiore distanza tra politica ed economia rispetto allo Stato-nazione. In particolare credo che lo Stato manterrà il controllo sulla politica estera e monetaria, ma non ci sarà più la redistribuzione territoriale del reddito”. Un nuovo contratto sociale che, secondo l’analisi di Napoleoni, sarà siglato lontano dall’Occidente, ormai in decadenza, e avrà il volto della Cina (“l’unico Paese completamente diverso da noi” secondo l’economista destinato proprio per questo a prevalere anche sul modello indiano) e della finanza islamica, fenomeno che si imporrà all’interno del “tribalismo economico”, proprio per il suo richiamo a dei valori etici che l’economia canaglia ha abbandonato.

“La Sharia – ci ha detto Loretta Napoleoni – è una legislazione altamente etica, è ovvio che le sue degenerazioni nel talebanismo sono negative, ma non c’è nulla nella Sharia che stabilisca, per esempio, l’inferiorità delle donne”. E delle regole etiche insite nella legge islamica secondo Napoleoni abbiamo bisogno: per esempio perché impedisce di praticare l’usura o sfruttare la prostituzione, che invece sono due delle degenerazioni più comuni e devastanti dell’economia canaglia. Quello che è certo è che leggendo le pagine di Loretta Napoleoni si ha una fortissima percezione della decadenza dell’Occidente, che sembra essere irreversibile.

29 gennaio 2008

Madurai, la città futuro

La machina del tempo esiste, e ogni giorno centinaia di persone se ne servono. Si tratta del treno Guravaya Express delle Indian Railways, in servizio tra Chennai e l’estremo sud del subcontinente indiano. Un convoglio ben tenuto, anche se dall’apparenza un po’ vecchiotta, che mi porta da Trichy a Madurai – circa 161 km in tre ore e mezza – ma al tempo stesso mi proietta in quello che, se saremo fortunati, sarà il nostro mondo nei prossimi trent’anni, quando l’India sarà serenamente diventata la prima potenza mondiale. Madurai è la città futuro, la dimostrazione tangibile di tutto quello che si legge su libri e riviste che ci raccontano del boom asiatico, la percezione di come la storia, con i suoi cicli e la sua inesorabile processione, si manifesti in maniera semplice ed inequivocabile. Per le strade della città, un’aspirante metropoli che conta – secondo la Lonely Planet edizione 2005 – 1.190.000 abitanti, si percepisce tutto il caos vitalistico dell’India: un crogiuolo di smog, auto, motorisciò, mucche, capre, cani, venditori ambulanti, ciclisti, motocarri e quant’altro che mi fanno capire realmente che il dominio occidentale è stata solo una breve parentesi nella storia del mondo e che la forza, la dinamicità, lo sviluppo – il futuro insomma – passano dall’Asia e non più dalle nostre parti. E in particolare in questa Asia dinamica, in questo motore del mondo che fa riferimento alla Cindia di Sisci e Rampini, il vitalismo sorridente di Madurai mi fa chiaramente capire che il modello indiano, fatto di caotica democrazia, boom demografico e profonde radici spirituali, è destinato a prevalere su quello cinese, perché se anche la storia non è finita nel 1989, Fukuyama ha descritto una legge vera sullo sviluppo dell’umanità: la libertà, con tutte le sue imperfezioni e incompletezze, alla fine prevale sul dispotismo. E l’autoritarismo cinese, per quanto sul breve periodo possa pagare, alla distanza non potrà che soccombere di fronte alla sfida indiana, sostenuta dalle non poche implicazioni positive della globalizzazione. E tutto il mondo, tra qualche anno, probabilmente assomiglierà un po’ di più a Madurai. Non dobbiamo averne paura, anzi. E’ probabile che la salvezza del nostro sistema di vita e dei nostri diritti passi proprio dall’affermazione del modello indiano, oasi di democrazia (per quanto naturalmente complessa e problematica) in uno scacchiere mondiale segnato dal fondamentalismo e dal ritorno delle grandi potenze autoritarie.

Il futuro che scopro a Madurai è invece profondamente intriso di una libertà che sfiora l’anarchia, come nel caso del folle traffico che impazza nelle città indiane. Impossibile da capire per il viaggiatore occidentale, che se è saggio lo accetta per come è, ma al tempo stesso straordinariamente efficace e sorretto, pur nel delirio con cui si manifesta, da regole di collaborazione e solidarietà tra i soggetti in strada, che non lasciano mai il piede dall’acceleratore ma segnalano quando si può superare, annunciano a colpi di clacson ogni nuova iniziativa e praticamente mai litigano con gli altri autisti. Insomma, non si capisce come faccia, ma funziona. E funziona nello stesso modo il modello indiano, capace di offrire un’alternativa più serena a noi e ai nostri supposti nemici, capace di coniugare la tradizione più antica e spirituale alla ricerca scientifica e al progresso, capace di offrire processioni religiose a ogni ora e nel frattempo produrre, crescere, migliorarsi per competere (quanti anni luce è distante l’Italia?) sulla scena globale.

Nel cuore di Madurai c’è uno dei templi più famosi dell’India lo Sri Meenakshi, dove ogni giorno – sempre secondo la Lonely Planet – si recano in pellegrinaggio 10mila fedeli. Quando per la prima volta lo vedo dal tetto del mio albergo mi rendo conto di essere in pieno Blade Runner: le dodici torri a tronco di piramide (i gopuram) che ne segnano gli accessi sono fantascienza pura, ma una fantascienza costruita su basi millenarie, che conta su milioni e milioni di giovani vogliosi di emergere e che al tempo stesso mi permette di trovare un pappagallo verde ubriaco che mi legge il futuro nei ritagli di giornale. Santo cielo, è ora di lasciare le nostre poltrone europee che cominciano a emanare un odore stantio e provare a guardare nel caleidoscopio del mondo di domani e a pensare che la fantascienza classica ci ha sempre parlato in fondo del presente, collocandolo più in là nel tempo perché trovassimo la forza di valutarlo con più serenità. Se questa Madurai, se questa India che ancora si dibatte tra mille difficoltà ma che guarda decisamente verso un punto che è al di là delle nostre spalle saprà mantenere la promessa di futuro che ho intravisto dopo essere sceso dalla lenta carrozza del Guravaya Express, forse il mondo continuerà a essere un posto in cui è interessante vivere.