12 settembre 2020

Quegli eterni anni Novanta

ovvero 12 anni senza David Foster Wallace

La storia, in qualche modo, è cominciata alla Libreria 121+ di Milano, con una cosa che avevamo chiamato AperiWallace. C’erano drink, cannucce e salatini; c’erano persone interessanti e sorridenti e, intorno, tanti bei libri di letteratura e di design; fuori dalle finestre passava la vita di Porta Genova parecchi anni prima del Covid, in una città che puntava decisa verso la grande opportunità dell’Expo. Sono cambiate tante cose da quel tardo pomeriggio, ma la giacca blu di felpa che indossavo allora se ne sta ancora nel mio armadio e ho ancora pure quel paio di Converse bianche modello alto. La storia è cominciata così, parlando delle Brevi interviste e de La ragazza dai capelli strani. Non ho molti altri ricordi, se non quella sensazione di avere intorno persone che, almeno per i 50 minuti della chiacchierata pubblica, davano l’idea di una comunità. Eterogenea e improbabile, per l’amor del cielo, ma comunque comunità. Un gruppo di wallaciani sparsi, qualche imbucato di sicuro, qualcuno chiaramente indifferente al tema letterario, bastava la parola aperitivo a convincerlo. E forse erano i più sani, mi viene da credere oggi.

Ognuno però è ciò che è e ciò che può, quindi io ero lì, questo è provato, a parlare di David, della sua lingua, delle sue ossessioni attraverso le mie; della sua carica ironica e della sua disperazione; del suo talento di saggista e della mia sconfinata ammirazione per il modo in cui aveva fatto il mio mestiere di giornalista (o giornalaio, come mi dicono a Pistoia). A un certo punto, questo è l’altro dato di fatto incontrovertibile in una storia che oggi è piena di ricordi mancati, io ho smesso di parlare, la platea ha educatamente applaudito e ci siamo tutti concentrati sul bere, scambiandoci commenti eterodossi sottovoce, sputacchiando piccoli frammenti di taralli imbevuti di Aperol. Qualcosa è cominciato da lì, ha avuto uno sviluppo, una crescita, poi dei cambiamenti, altre platee, altri soggetti, altre modalità. La vita insomma, si dice, ha fatto il suo corso. Ma senza quella sera, senza quell’AperiWallace, sarebbe stato un corso diverso, che avrebbe portato - non ci sono prove, perché non ce ne sono mai, come ci insegna Kundera - a un presente diverso, magari per poco, magari per moltissimo. Chi lo sa.


Oggi David Wallace resta una parte importante della mia storia di lettore e performatore di racconti letterari; lo scaffale dei suoi libri, nella taverna-bunker, è sempre pieno, con tante edizioni doppie e qualcuna tripla. Alcuni libri restano fenomenali, altri hanno perso un po' di smalto con il passare del tempo. Ma credo che ciò sia dovuto anche a cambiamenti del gusto complessivo, a nuovi strumenti di comunicazione che sono emersi in modo prepotente: tutte cose che David non ha visto e non ha, ovviamente, potuto raccontare. È chiaro che dare la colpa ai nuovi gusti dei lettori può sembrare una difesa molto debole, perché i gusti sono manifestazione dei bisogni, e i bisogni sono a loro volta la manifestazione più radicale (e complessa) di un tempo. Wallace ha costruito una sorta di eterni anni Novanta, ma gli anni Novanta veri, nei fatti, non sono durati nemmeno un decennio. Così va la vita, potremmo scrivere citando Vonnegut (e senza uno sforzo particolare di originalità).

Ma possiamo anche girarla in maniera leggermente diversa: David era così bravo da trasportare nella sua pagina eccessiva e onnivora (pienissima, come quelle dei libri altrui che lui annotava ossessivamente con biro di diversi colori) tutto il suo tempo e pertanto quello che non era il suo tempo (e dunque il futuro, e dunque noi oggi) restava fuori dalla cornice, magari intuibile, magari in qualche modo già previsto, ma fuori. Lontanissimo.


(Non vale, questo discorso, per tutto Wallace. Non vale per quasi la totalità della sua non fiction, non vale per un libro imprendibile come Oblio, non vale per Il re pallido, forse, alla fine, il suo capolavoro segreto e definitivo, pur essendo per forza provvisorio, in quanto postumo e assemblato dall’editor Michael Pietsch. Forse vale un po' per le pagine su Federer, ma solo perché è invecchiato il tennista svizzero. Forse non vale in nessun caso oppure invece vale sempre e io sono solo un impostore, come in quel pazzesco racconto di Philip Dick, Impostor, che finisce con un’esplosione vista fino su Alpha Centauri).


Oggi, nel giorno del dodicesimo anniversario del suicidio di David, trovo in una cosa detta da Jonathan Franzen a Michele Masneri un momento di problematicità interessante: “Da vivo - ha ammesso l’autore di Purity - Wallace non è mai arrivato neanche in finale del premio più sfigato. Poi muore, e all’improvviso diventa un genio”. E poi Franzen, severissimo, ma sempre drammaticamente onesto con se stesso, aggiunge: “David non è mai riuscito a scrivere da adulto per gli adulti. O non ne ha avuto il tempo”. Pausa (le interminabili e ormai leggendarie pause di Franzen). “O forse siamo noi che stiamo diventando vecchi”. Un po’ scontato? Sì, probabile. Un po’ vero? Sì, molto probabile. Contraddittorio? Beh, questo sempre, per definizione.  E mai scordare cosa diceva Oscar Wilde: ogni critica letteraria è una forma di autobiografia.


Goodbye, David.


Leonardo Merlini

© Kilgore Magazine

24 maggio 2020

Una lettera su Céline



Caro Marco,

Quando mi sono messo a pensare a Cèline e alla sua sinistra grandezza di scrittore di destra e antisemita, mi è subito venuto in mente un altro libro, scritto da un ebreo, un classico e probabilmente uno dei più importanti libri di storia che io abbia letto: La strana disfatta di Marc Bloch. Nel suo ricostruire, nelle vesti di “vinto” e “testimone”, la repentina caduta della Francia nel 1940, lo storico accusava senza mezzi termini lo Stato maggiore, i comandanti militari: capaci di sbagliare praticamente tutte le mosse (una situazione che, divago, possiamo capire bene oggi durante la gestione dell’emergenza Covid…). La testimonianza di Bloch è diretta, documentata, non ideologica, ma molto precisa. Poi però arriva il capitolo terzo del libro: Esame di coscienza di un francese. Ecco, a quel punto il discorso si allarga e le responsabilità, si vede, coinvolgono tutta la società, in modi diversi, ma diffusi. Siamo tutti colpevoli in varia misura, dice Bloch a se stesso e a noi, è colpevole il nostro modo di avere vissuto la società. La sua scrittura è così precisa e misurata da fare sentire responsabili anche noi, oggi, perché le dinamiche alla base della strana disfatta francese sono in un certo senso universali e lo storico, in quelle pagine, fa una sua forma di letteratura. 

Sembra un pistolotto inutile, ma il punto a cui volevo arrivare è che Céline sta dentro la società che è arrivata a quel punto, sta dentro la Terza Repubblica, un esperimento politico in fondo fragile come Weimar, ma durato molto di più, cementato anche dall’idea del Fronte Popolare di Léon Blum, che per molta sinistra è stato a lungo un mito. Ma un mito che ha partorito un fallimento, venuto dopo decenni di giochi politici di secondo piano, insomma una grigissima medietà, probabilmente doverosa come reazione a due avventure bonapartiste finite come sappiamo (e la sconfitta di Sedan del 1870 è stata terribile come lo sarà quella del 1940), ma comunque medietà. La letteratura francese sta uscendo dalla grande stagione del Naturalismo e non trova un altro filone dominante, un’altra narrazione di se stessa, diremmo oggi. La sinistra difende un esistente che non ha più attrattive, la cultura ufficiale ci si appiattisce sopra, e al genio letterario puro, grezzo, non compromissorio come è quello di Cèline resta solo il rifugio nella follia dei suoi libri e in una insofferenza estrema verso quel mondo. Come tutti i pensatori di destra crede nella necessità di una catarsi (spesso violenta), che ha lo scopo di spazzare via quel grigiore infinito, nemico di ogni grande scrittura. Ma, e qui io colloco, per rispondere alla tua domanda, la sua grandezza “di destra”, senza che la catarsi implichi una redenzione. Non c’è nessuna redenzione, non è nemmeno pensabile la redenzione nel mondo di Bardamu nel Viaggio al termine della notte, anzi, non termina nemmeno la notte, mai. Perché un’Europa che ha fatto quello che ha fatto in Africa, per esempio, rende impossibile anche la sola idea di redenzione. E sul Colonialismo, è amaro dirlo da progressisti, ma temo sia così, sono stati i conservatori, per non dire i reazionari, a dare le analisi più spietate, pensiamo al Congo di Joseph Conrad… solo una profonda mancanza di slanci ideali progressivi ha permesso di guardare con spaventosa lucidità a quello che succedeva nelle colonie, al modo mostruoso in cui l’essere umano occidentale ha trasformato se stesso… per questo, come accade a Kurtz in Cuore di tenebra, l’unica strada resta la follia. “L’orrore, l’orrore”, ripete anche Marlon Brando in Apocalypse Now.

E dunque la follia è il terreno di coltura del genio di Céline, la sua arma contro tutto e tutti, credo che il suo essere di destra o antisemita (non giustifico, provo a immaginare) nasca innanzitutto come una reazione a un mondo, che era la Francia nel suo caso, che appariva del tutto inadeguato a contenere la sua letteratura, un mondo così compreso nell’aggiustare, nel giustificare, nello smorzare da dovergli apparire del tutto e totalmente insopportabile (così come in Italia appariva insopportabile Giolitti, insomma), ma in Francia il senso della grandeur appartiene anche a chi contesta, e così, per fortuna, Céline ha scelto di non porre limiti alla sua scrittura, se non la scrittura stessa. In quel mondo era di destra essere assoluti, rifiutare i compromessi e pagare il prezzo di tutto ciò. Era di destra usare la letteratura al massimo della propria crudeltà (nel senso tecnico, crudeltà della scrittura, non solo dei fatti raccontati, e per questo non credo che Houellebecq stia su questo piano), era di destra rinunciare a una moralità, cioè essere amorale, come la ricerca della perfezione letteraria richiede quasi sempre. È come se non ci fosse mai stata alcuna alternativa, perché lo scrittore non voleva compromessi (e infatti ha ricoperto di insulti fino alla fine l’editore Gallimard che pure lo ha portato nell’Olimpo della cultura francese), neppure quando avrebbero potuto fargli comodo.

Non so se tutte le perle letterarie transalpine sono venute da questo humus di destra, che è lo stesso che porta le banlieu a votare per il Fronte Nazionale, ma con frequenze più basse e istinti che guardano alla sopravvivenza e a un’idea di appartenenza, mentre un Céline guardava prima di tutto all’estrema follia dell’estrema scrittura. So però che c’era in lui una libertà radicale che agli scrittori più integrati (anche e forse soprattutto nella grande stagione degli Anni Sessanta) non era concessa per via della militanza o cose simili. C’era in lui un’ossessione che ricorda quella degli scrittori nazisti di Bolaño, e che, unita al suo talento assoluto, ha portato ai risultati che leggiamo ancora oggi. Che sono risultati sporchi, brutti e cattivi, ma in un universo amorale e “puro”, come era il suo, devoto alla purezza della scrittura e solo a quella, questi sono aggettivi che perdono di senso. Forse il cinema del primo Godard potrebbe essere in qualche modo un paragone sensato, ma questo non è davvero il mio campo.

Non so se ho risposto alla tua domanda, ma in ogni caso ti abbraccio
Leo

01 agosto 2019

Nel Presente a venire

 (Disperazione e letteratura in Toscana, con Ben Lerner e i Coma_Cose)

 

E’ quasi mezzanotte, ho spento da poco la luce sul comodino della stanza da letto nell’appartamento in una piccola località di mare nel Livornese, dove da qualche anno passo le estati da padre. Sto completando la quarta (se non erro) rilettura di Nel mondo a venire di Ben Lerner: questa sera ho affrontato le pagine da 222 a 256 dell’edizione Sellerio. Ora sono steso al buio, girato sul fianco, la mano sinistra sospesa nel vuoto, oltre il bordo del letto; sento che il sonno sta arrivando, quel momento buono in cui le cose prendono una forma che sembra sensata, che sembra rotonda. Prima del sonno, però, arriva improvvisa un’altra sensazione, quella che stavo cercando - è vero, senza troppa convinzione, più sotto traccia - da oltre due settimane: il modo per entrare in una storia che parlasse di ansia, di perdita, di scomparsa del presente, di una frase che un collega serioso aveva scritto in una mail a tutta la redazione qualche tempo fa: “Siamo sull’orlo del baratro e il tempo è scaduto da un pezzo”. Mi era parsa, fin dall’inizio, lo spunto perfetto per scrivere, in queste notti toscane, qualcosa che parlasse di me, ma anche di altro, qualcosa che avesse una struttura in qualche modo utile a comprendermi dentro le grottesche circostanze lavorative degli ultimi due anni. Ancora però non avevo trovato una maniera per farlo che mi sembrasse almeno decente. Adesso invece un modo mi pare che ci sia, e allora mi alzo, apro il Mac, metto a scaldare un po’ d’acqua per il tè e mi siedo a scrivere quello che segue, ossia il vero inizio di questo pezzo.

Ogni mattina qui a Vada mi sveglio sudato, maleodorante, con addosso una sensazione di angoscia che una parte di me si compiace di definire “devastante”. E’ un fenomeno relativamente comune per la mia stagione estiva: la luce che entra prestissimo dalle finestre, le vacanze, la perdita della routine-droga nella quale fingere che tutto-abbia-un-senso, o perlomeno una forma riconoscibile. Però ultimamente il quadro peggiora, o, meglio, diventa più schizofrenico: alti e bassi inspiegabilmente vicini, montagne russe emotive, dalle quali, comunque, scendo con una nausea quasi insopportabile, prima di tuffarmi, come se niente fosse, in realtà praticamente ubriaco, nella luce bianchissima che unisce la pineta al mare. Quella stessa luce che mi fa pensare all’idea di realtà che, pur con un certo impegno (anche fisico, pedalando carico di borse su improbabili salite, per esempio) alla fine continuo a non riuscire mai ad afferrare. No, non è vero che non ci riesco proprio mai: se sto scrivendo questa cosa ora (qualunque cosa sia) è perché leggere Ben Lerner è il momento in cui un evento reale, per una volta, (mi) succede davvero.

Il legame con Lerner, che non ho mai neppure visto di persona (mentre, lasciatemi l’Angolo della Vana Vanteria, ho scambiato qualche parola con Don DeLillo, ho scritto e ricevuto email da Jonathan Lethem, ho incontrato diverse volte Jonathan Safran Foer e ho preso una lunga birra di notte con Geoff Dyer a Torino, quasi fossimo in un romanzo di Tom McCarthy, intervistato pure lui) è un legame strano, ma è stato indissolubile fin dall’inizio, quando il suo nome, a me in quel momento del tutto ignoto, ha fatto capolino più volte in un altro libro, figlio di una serie di coincidenze pazzesche che adesso non starò a elencare (credo peraltro di averlo già fatto altrove, ripeto sempre le stesse cose, mi rendo conto, e questo è quasi l’unico motivo per cui una parte di me continua a pensarmi come uno scrittore; parentesi nella parentesi, la definizione ufficiale che uso è: “Sono uno scrittore, non faccio lo scrittore”), dicevo, il libro era How Literature Saved My Life di David Shields e lì Lerner, definito “un giovane studioso”, giocava una parte di rilievo fin dalle prime pagine, per me assolutamente magnetiche, nelle quali era cruciale la citazione di una poesia di John Ashbery - Paradoxes and Oxymorons - di cui alcuni versi definivano esattamente, per Lerner, Shields e anche per me, la relazione con la letteratura come uno specchio nel quale riflettersi è necessario (è l’unica cosa da fare), ma ovviamente è anche impossibile (in maniera completa):

You have it but you don’t have it.
You miss it, it misses you. You miss each other.


(Riflettersi nella letteratura è pure il motivo di questo pezzo, è la strategia che tenta di combattere l’angoscia… E’ ovviamente una roba da Don Chischiotte, superba e ridicola al tempo stesso, il sogno di un matto reale che diventa una specie di religione, la religione del romanzo, per dirla con Franco Cordelli, che resta uno molto bravo). In questo continuo mancarsi, in questa reciprocità della sensazione di perdita, Ben Lerner e David Shields (che insieme a Vonnegut, ma ai tempi ero troppo giovane, resta l’unico scrittore vero a cui abbia scritto una lettera da fan, vonnegutianamente delirante come quelle che Eliot Rosewater scriveva a Kilgore Trout: non avere scritto a Trout è stato un errore colossale, mi rendo conto, una macchia che mi porterò dietro per sempre) costruiscono la cornice di riferimento che, mentre stavo decollando per lasciare New York (dove, ovviamente da Strand Books, avevo trovato la mia copia - autografata - di How Literature) nell’autunno del 2013 (tutto succede sempre dopo), mi ha permesso di decrittare, almeno in parte, tre parole per me abbastanza rilevanti: “La mia vita”.
A partire dall’incipit wildeiano di Shields: “All criticism is a form of autobiography”, dove ho sempre inteso la critica proprio come critica letteraria. Esattamente così. L’unica autobiografia possibile, per me, era questo riflettersi nei libri altrui, che però è una tautologia impossibile, e cià che resta è solo la sensazione di mancarsi ogni volta. Che poi, Mancarsi, è anche il titolo della canzone dei Coma_Cose che dice “Ma ci pensi mai, a noi due, agli sbagli, a chi ci ha preso in giro, agli sbalzi d’umore che ci causano drammi” e che ho ascoltato compulsivamente negli ultimi mesi. Però questo sul volo Delta dal JFK che mi riportava in Europa quasi sei anni fa non lo sapevo ancora, ma in ogni caso, retrospettivamente, anche questa era perfetta, un altro specchio cieco per le famose tre parole di prima, coniugate comunque al presente, nel passato.

(Qualche tempo fa avevo pensato, anche con un certo entusiasmo, di scrivere un pezzo su California, la femcee - ossia una rapper o freestyler donna - dei Coma_Cose, che ha una voce pazzesca, sembra quella di un bambino, ma al tempo stesso è chiarissimo che non è la voce di un bambino, e questo genera uno scarto che rende tutto piuttosto interessante, mettendola in relazione a Megan Rapinoe, la calciatrice statunitense con i capelli viola che ha guidato la sua nazionale alla vittoria dei Mondiali femminili e che regolarmente esterna contro Trump a favore dei diritti, del dialogo, delle varie diversità. Due donne abbastanza particolari in mondi tendenzialmente maschili, ma soprattutto due facce e due corpi pubblici che dicono qualcosa… Mi sembra ancora una bella idea, ma so di avere perso il momento buono per farla diventare vera, pazienza).


New York, dicevo. Ci sono tornato nella primavera di quest’anno, per l’opening di due mostre di Piero Manzoni da Hauser & Wirth (roba talmente figa che la scrivo proprio per sembrare figo a mia volta) e, oltre a importunare il portiere del palazzo su Park Avenue dove viveva J.D. Salinger da bambino, ho cercato di usare proprio Lerner e Nel mondo a venire per fare cortocircuitare la mia letteratura e la mia realtà, sperando, novello dottor Frankenstein, di dare vita a una esperienza che fosse effettivamente vera per me (e la cosa poteva funzionare solo attraverso un libro che, tutto intero, mette in discussione ogni possibile esperienza di questo tipo: “Tutto questo me lo ricordo - scrive il buon Ben - il che vuol dire che non è mai successo”). Così, in una mattina particolarmente soleggiata sono partito all’alba da East Harlem, all’altezza della 125th Street, e ho camminato attraverso una discreta quantità di paesaggi urbani diversi per arrivare fino a Central Park e poi al Metropolitan Museum (sull’82nd Street) e, con il romanzo di Lerner nello zainetto (ma indossando la mia giacca migliore, blu a pois blu più scuri e con una spilla a forma di orsetto di gelatina verde di cui vado fiero) sono andato a cercare la Giovanna d’Arco di Jules Bastien-Lepage (trovata solo dopo avere chiesto aiuto a un custode delle sale secentesche che, con grande tatto, mi ha fatto notare che si trattava di un dipinto dell’800, che quindi avrei potuto ammirare nell’altra ala del museo), quadro davanti al quale si svolge una scena chiave di Nel mondo a venire nella quale il narratore di Lerner ragiona della mano di Giovanna che “sembra dissolversi nel nulla. […] E’ come se la tensione fra il mondo metafisico e quello fisico, fra due ordini di temporalità, producesse un’imperfezione nella matrice pittorica: lo sfondo inghiotte le dita”. Al protagonista del romanzo l’immagine richiama alla mente il film Ritorno al futuro e la fotografia della sua famiglia che Marty portava con sé e che, a mano a mano, cambiava per via degli scombussolamenti arrecati al loro passato. “Lui e i suoi fratelli - prosegue Lerner - cominciano a svanire dall’istantanea. Solo che qui, nel dipinto di Giovanna, è una presenza, non un’assenza, a mangiare la mano della donna: la stanno trascinando dentro il futuro”.
Sono stato diversi minuti davanti al quadro, ho scattato foto, anche con il libro e la pagina aperta proprio in quel punto in cui avveniva la storia raccontata nelle frasi dello scrittore. Lui pensava al futuro, io cercavo, goffamente, di prendere la mano della santa guerriera per ancorarmi al presente. Però, lo sapete già, la mano si dissolveva nel nulla e con essa il mio tentativo di appiglio. Per la realtà vera, dunque, mi sono rimasti solo gli hotspot di Starbucks dove fare soste regolari (anche fuori dai caffè) per rubare qualche minuto di wifi e controllare Whatsapp. Non un granché come risultato, in effetti. Però c’è un però: aver provato con Giovanna d’Arco a fare un passo in più dentro il presente, sebbene con scarso o nullo successo, è stato un passo in più dentro il presente. Anche se non lo è stato.

(“E poi - dice più avanti nel romanzo la specie di fidanzata del protagonista, Alena, mentre nei fatti i due si stanno lasciando - in futuro potrò desiderare che torni quel passato in cui desideravo che arrivasse il futuro in cui avrei desiderato che tornasse il passato”. Ecco, avrei voluto scriverla così anche io, ma Lerner lo aveva già fatto).

Adesso, che provo a rileggere quello che sto scrivendo, mi rendo conto che, nonostante la serie di sproloqui, non parlo della cosa da cui sono partito: l’angoscia e l’orlo del baratro. O almeno, sembra che non ne parli. Perché invece quello che - senza grande originalità, ne sono consapevole - alimenta tutta questa cosa verbosa è proprio la sensazione che lo specchio della letteratura, sotto forma degli episodi di pianto sulle panchine di Brooklyn nel libro di Lerner (panchine sulle quali io mi sono seduto) o piuttosto dell’ammissione di David Foster Wallace di essersi sentito totalmente disperato mentre raccontava, nel suo libro più leggero, l’incubo turistico di una crociera extralusso, sia l’unica superficie, scivolosa by definition, cui aggrapparmi nel tentativo di fornire a me stesso l’immagine di una mancanza che in qualche modo mi somigli, l’unica strada, come dice Alex, la migliore amica del protagonista di Nel mondo a venire, per “trovare un modo per vivere il presente”. E come? Grazie al fatto che in quella immagine che non c’è, in quella relazione tutta mentale con persone che fanno gli scrittori di mestiere, che non sanno nulla di me (benché spesso sembri chiaramente vero esattamente il contrario), che spesso vanno in cerca ossessivamente solo del modo migliore per scrivere una frase, indipendentemente da tutto quello che c’è fuori (nel mio piccolo, anche ora, fuori non c’è nulla, e questo è un altro aspetto del punto, adesso quello che sta succedendo mentre digito queste parole sulla tastiera alle 02.01 del mattino è il Presente), questi estranei e sconosciuti trovano modi per influire sulla mia vita nel quadro di uno scenario più ampio, che restituisce un minimo di senso alle cose. Se qualcuno la sta raccontando - mi dico nel mio mondo a venire, che riguarda anche il passato - è perché significa qualcosa, anche se non lo sai. Non smettere di cercarlo e ricordati sempre la differenza: una disperazione da sola è il vuoto assoluto, una disperazione raccontata può essere una strada per tentare di andare altrove. Siamo sull’orlo del baratro, certo, e il tempo è scaduto da un pezzo, sì. Ne sono abbastanza consapevole. Ma anche questa è una storia che si può raccontare, è un abisso dentro il quale gettare uno sguardo dal quale magari ricavare perfino qualche informazione nuova. Se lo capovolgo, il baratro diventa una montagna e posso cominciare a scalarla, per andare un po’ più in alto, e guardare e raccontare e fare magari che la disperazione sia, per qualche breve momento, solo una strategia per arrivare a qualcosa d’altro. A una storia diversa.

“Mentre tornavo a Brooklyn attraversando il Manhattan Bridge, tutto ciò su cui si posavano i miei occhi sembrava irrecuperabile nel miglior senso della parola: impossibile da riprodurre e riproporre, dotato di un’esistenza assoluta e conclusa in se stessa, totale. Era ancora pieno pomeriggio, ma sembrava l’ora d’oro, quel momento della giornata in cui la luce appare insita nelle cose illuminate. Ogni volta che attraversavo a piedi il Manhattan Bridge, nel ricordo ero convinto di avere attraversato il ponte di Brooklyn. E’ perché dal primo si vede il secondo, e il secondo è più bello”. Quanto è bravo Ben, santo cielo.



Il presente, insomma, è già successo, in mille modi, da Ulisse a Shakespeare, da Jay Gatsby a Lisa Halliday, perfino nei racconti di Aimee Bender; le storie sono sempre state lì davanti: immobili e però pure sfuggenti. Pensare di combattere ad armi pari con il Tempo è quello che non voglio più fare (anche perché la fisica mi insegna che il tempo non esiste in nessuna delle equazioni che scrivono la nostra realtà, per essere brutali non esiste tout court, quindi farlo sarebbe, per l’appunto, tempo sprecato). 
Ma andare a ritrovate quei presenti, in qualche altro mondo a venire, per provare a farli un po’ miei, stanotte, tuffandomici dentro come in una piscina di un racconto di Peter Cameron, mi sembra una buona idea. Chissà.

Leonardo Merlini 
© Kilgore Magazine


26 marzo 2019

Il mio problema di Fedeltà con il romanzo italiano

Missiroli, il mainstream e un’idea di letteratura


1.
“Non incoraggiate il romanzo” diceva qualche anno fa Alfonso Berardinelli in una delle sue ricognizioni sullo stato delle lettere italiane. Ricordo, all’epoca, di avere provato un moto di fastidio verso il critico, verso questa esortazione che andava contro le mie aspirazioni di lettore (e, probabilmente, anche di scrittore mancato - leggete pure “frustrato” -, almeno nella mia personalissima autoproiezione). Quello che speravo era che il romanzo venisse incoraggiato, che trovasse una sua nuova dimensione nello spazio pubblico, che prendesse forme aggiornate al tempo presente, non solo della lingua. È successo, per fortuna; lo hanno fatto, per esempio, Emmanuel Carrère o Ben Lerner. In qualche modo lo ha fatto anche Franzen con Purity, forse l’esempio più clamoroso di come un autore complesso (e piuttosto snob) possa arrivare a scrivere un romanzo popolare senza perdere la propria identità.
Berardinelli, però, parlava dell’Italia. E qui, insomma, sta il (mio) problema. Ma serve andare con ordine.

2. 
La copertina è intrigante e artistica. La citazione in esergo ai comunicati stampa (“Che parola sbagliata, amante. Che parola sbagliata, tradimento”) è perfetta, anche nel magnifico uso della virgola, una di quelle arti di cui non se ne ha mai abbastanza. L’editore (Einaudi) e la collana (i Supercoralli) sono praticamente il meglio per qualunque lettore nostrano che si definisca “sofisticato”, seppur magari a bassa voce, sperando che gli altri non lo sentano, quel gorgoglio di autocompiacimento. Fedeltà di Marco Missiroli è il romanzo italiano del momento, un oggetto letterario che vuole ampliare il terreno del mainstream: insomma ci si aspetta che piaccia al bel mondo del sistema editoriale patrio e che pure venda bene. Poi arriverà il Principale Premio Letterario e la fascetta rossa per la quinta edizione e, come in ogni premiazione che si rispetti, un inserviente proveniente dal Subcontinente indiano sparerà coriandoli iridescenti che ricadranno festosi sugli uomini longilinei e le signore eleganti che danzano, mentre lo Scrittore sorseggia il suo liquore paglierino con lo sguardo confuso e felice davanti alle telecamere della Grande Televisione Nazionale. Che cosa si può volere di più. “Preparatevi a leggere la vostra storia”, ribadisce la quarta di copertina digitale del romanzo. E il punto è che la cosa è davvero così. Ma il problema è in che modo ce la racconta. Il problema, potrebbe dire una specie di Savonarola del Sistema Letterario, è a quale prezzo.

3.
Sono anni che ripeto, ormai come un disco rotto e senza troppa originalità, che la buona letteratura, così come l’arte in generale, ha lo straordinario potere di creare dei mondi più “veri” del cosiddetto “mondo reale”. In questa nuova dimensione della “verità” capita spesso di trovare frasi che ci appaiono scritte, come accadeva con la foresta del Barone rampante di Italo Calvino, solo perché io lettore ci potessi passare davanti, accorgendomi che, per quanto strana sia la trama, quel libro sta parlando esattamente di me (di te, di noi, di voi, quello che vi piace di più, come pronome). Questo riconoscimento “da lontano” è il punto chiave: qui scatta qualcosa di, perdonate la prosopopea, universale. Qui si attiva il dispositivo artistico, è un click che cambia le carte in tavola e sposta la sfida a un livello più alto. E lo fa con metodi imprevisti, mettendoci in difficoltà, disturbando la nostra quiete pubblica, perché normalmente ci costringe a vedere nero su bianco sensazioni che erano sempre rimaste nel privato; dentro, non fuori. Opzioni segrete e personalissime.
Di primo acchito Fedeltà sembra fare esattamente la stessa cosa, sul terreno di quell’idea di avventura che, anche grazie alla persona di Monica Vitti, è diventata una sorta di spinoso luogo dello spirito. Il romanzo di Missiroli si legge, attrae, a volte perfino abbraccia chi sta dall'altro lato della pagina. Lo riconosciamo, ci è noto. A volte sembra un’esplosione, una specie di tempesta perfetta. Tutto bene, allora? Eh, forse non proprio.

4.
“Leggere bene - ha scritto il critico George Steiner - significa correre grossi rischi. Significa rendere vulnerabile la nostra identità, il nostro autocontrollo”. Roberto Calasso, nel suo incredibile e indefinibile libro L’innominabile attuale, parla della digitalizzazione come di un’operazione che sposta il focus dalla coscienza (un tempo luogo del “continuo”, quindi dell’universale, dell’assoluto) all’informazione (luogo del “discreto”, del definito, del circoscritto) e in questo modo punta a “smussare ogni residuo tragico dell’esistenza”.
Sono due giganti, Steiner e Calasso, è vero, ed è praticamente impossibile per chiunque essere messo a confronto con loro. Lo so. Ma ciò non significa che non si debba provare comunque, non significa che basti scrivere di un argomento rischioso, come quello che si suole chiamare “tradimento” - peraltro sottocategoria di un’altra parola difficile come “amore” - per mettersi realmente in gioco. La sensazione, leggendo Missiroli (che è e resta comunque iscritto nella colonna di quelli “bravi” sulla scena italiana), è che la sua letteratura non pensi se stessa, si limiti a esistere, si limiti a battere un terreno impervio, ma senza avere assunto dentro di sé questa impervietà. Prima si parlava del riconoscimento “da lontano”, che genera universali, in Fedeltà tutto è troppo, troppo vicino invece.
Mi spiego: Fedeltà si apre con una citazione di Philip Roth (“Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando”), ma basta prendere una qualsiasi pagina de Il teatro di Sabbath per rendersi conto che il campo di gioco su cui ha scelto di stare Missiroli (ripeto, ha scelto) non è quello di Roth, perché nella storia di Mickey Sabbath ogni passo, ogni respiro, avviene su un terreno ignoto, con una densità tragica e grottesca che scaturisce dallo stesso modo di essere (e quindi, perdonate la ridondanza, ma è fondamentale, del pensarsi) del personaggio. Un antieroe che non ha nessuna intenzione di cambiare il proprio stile di vita, ma che al tempo stesso sa benissimo che la sua è solo e sempre una danza con la morte, niente altro. Lasciamo pure perdere le pagine di assoluta visionarietà che il Grande Realista Roth ha disseminato qua e là, sono fuori concorso, ma anche limitandosi alla semplice gestione ordinaria, per così dire, del romanzo, tutto è pervaso da un’idea di grandezza implacabile, anche nella dissolutezza, che è la cifra di come il libro abbia pensato se stesso, costantemente. Senza indulgenze e senza ammiccamenti, avventurandosi, come consiglia Calasso, sempre, pervicacemente, attraverso un terreno ignoto.

Fedeltà, invece, innesca, come si diceva, una sorta di esplosione, ma è una esplosione controllata (“sembra un’esplosione”). La trama ha snodi problematici e solleva dilemmi forti, ma sono problemi e dilemmi che restano pienamente e totalmente riconoscibili, non c’è traccia di ignoto, tutto è riconducibile a noi stessi, cui resta l’ebbrezza di un’avventura fuori dal terreno del lecito, senza però in nessun modo sporcarsi le mani. Non c’è rischio, in questa lettura, caro il professor Steiner, non c’è la ricerca di qualcosa di realmente nuovo. “La vostra vita a voi”, diceva il pastore errante di Leopardi: restituircela è quello che il romanzo di Missiroli prova a fare, senza però mai andare un passo oltre. E la sensazione che resta è quella di avere assistito a uno spettacolo, per l’amor del cielo: accattivante e fruibile senza dubbio, ma nel quale si è voluto tenere lontano l’abisso vero (abisso che è anche grottesco) che la storia messa in campo avrebbe potuto evocare. Come se fossimo alla serata finale del Festival di Sanremo, come se vivessimo sempre su Rai Uno, dove tutto deve essere sì un po' pruriginoso, ma dovutamente rassicurante e plastificato, alla fine. Adelante, con juicio, Pedro
Invece io credo che da un romanzo, come ci hanno insegnato Cervantes o Flaubert, sia lecito e, aggiungo, doveroso sperare in qualcosa di più. Perché altrimenti dopo la bevuta resta solo un vuoto a rendere.

5. 
Il problema, inutile fare finta di nulla, è comune a tanti degli scrittori italiani più letti e premiati. Come se solo nella sfera del noir (che i benpensanti continuano a guardare alzando entrambe le sopracciglia, quindi posto comunque al di fuori della “ letteratura” ufficiale, con poche sceltissime eccezioni) fosse concesso scavare a fondo nell’umano e nelle sue sfaccettature oscure. Come se fosse indispensabile utilizzare situazioni violente per giustificare una scrittura tecnicamente violenta o, meglio, feroce: questo è il mio problema con la letteratura italiana (anche qui ci sono eccezioni, naturalmente, ma sono per vari motivi ai margini della Grande Corrente), l’assoluta sordità che risuona quando pongo la domanda sulla scrittura che pensa se stessa come quell’ascia per scavare dentro il ghiaccio dello scrittore, per citare Kafka, e che come ascia deve comportarsi anche nei confronti del lettore, soprattutto quando parla del consueto, del quotidiano, delle tenerezze. Rendere sconosciuto l’ordinario e conosciuto lo straordinario: questo mi hanno risposto molti artisti quando ho chiesto loro a che cosa servisse l’arte. Questo credo sia anche uno degli obiettivi della letteratura che crede in se stessa in quanto letteratura. Se non ci riesce un Marco Missiroli, e qualche caduta (però gestita e superata) in questo senso l’ha avuta anche una altro scrittore di certo valore come Marco Rossari, vuol dire che farlo in Italia sul terreno più classico del romanzo è davvero difficile. (Non parlo del caso Elena Ferrante, perché questa è ancora un’altra storia, che ha a che fare con la saga e, comunque, non è l’oggetto di questa riflessione).

Per fortuna, però, questo è anche un Paese eclettico, che ha partorito grandissimi scrittori di testi poco incasellabili (di Calvino si è già detto, ma pensate alla triade Morselli-Manganelli-Flaiano, per esempio) e, forse anche per colpa dell’eredità del Colosso Manzoniano, la cultura del romanzo ha vissuto un Novecento non facilissimo, puntellato però di varianti eterodosse (Gadda-Pasolini-Arbasino?), la cui eco si sente ancora e si manifesta in Walter Siti, in Nicola Lagioia, in Teresa Ciabatti, in Chiara Valerio, in Gianluigi Ricuperati, in Letizia Muratori, a volte in Giuseppe Genna. Il romanzo italiano sta lì, dove sembrava non ci fosse, dove la scrittura si libera quasi sempre del resto, dove il coltello viene usato per lunghi tratti come tale. Un’ascia che ha il coraggio dell’osceno, nel senso di ciò che è fuori dalla scena, celato, temuto, ma fatto letteratura. Pensate a Troppi Paradisi di Siti, solo per citare un titolo.
Da queste parti il Festival di Sanremo è un soggetto di cui si può scrivere, ma non è la forma mentis della scrittura stessa.

6. 
Chiaramente tutto quanto scritto finora deve fare i conti con il tema del mainstream, e con l’idea sacrosanta che i libri sono anche intrattenimento (e sono oggetti che stanno sul mercato). Credo che Missiroli abbia voluto sinceramente scrivere un romanzo che potesse unire la popolarità e la qualità. In parte ci è riuscito, ma mi rimane il dubbio, di nuovo, che l’elemento che non mi torna stia a monte, ossia nel modo in cui lo scrittore, o per meglio dire, il libro, per comprendere tutta la filiera che alla fine partorisce l’oggetto che infine arriva sullo scaffale delle librerie, ha stabilito come essere popolare, il modo in cui ha pensato il proprio essere mainstream. La mia personale sensazione è che sia stata una scelta al ribasso, un conformarsi al già digerito, un ritenere sostanzialmente necessario non cambiare la cornice di riferimento, cercando di farci entrare un oggetto letterario che, di suo, non ci sarebbe dovuto stare lì dentro. Insomma, anziché allargare la cornice, ha rimpicciolito il quadro, le sue potenzialità e le sue ambizioni. E questo è un peccato strategico, che rispecchia un modo di fare editoria sul quale potremmo a lungo discutere.

Il mainstream è, senza dubbio, la sfida culturale del nostro presente, ed è anche una grande occasione da tanti punti di vista. La torre d’avorio, ci piaccia o no, è stata distrutta da un pezzo, sebbene ci sia sempre qualche negazionista proattivo. Ma che cosa possiamo creare al suo posto? Come possiamo portare la letteratura dentro la società, dentro la testa delle persone? Come dice Calasso il presente è diventato “innominabile”: potrebbe essere una mutazione irreversibile, ma forse anche l’occasione per trovare un modo nuovo (e lo stesso Calasso lo fa, come dimostra il libro che di questo tema ragiona) per dire e scrivere il nostro tempo.
Senza fedeltà se non alla letteratura.

Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

27 dicembre 2018

La fine del mondo è già avvenuta: i libri da ricordare del 2018

L'articolo pubblicato su ArtsLife

“La fine del mondo è già avvenuta. Ciò che gli esseri umani hanno davanti agli occhi in questo momento è proprio la fine del mondo, determinata dagli iperoggetti”. Non è una citazione tratta da un libro di fantascienza (per lo meno non nel senso in cui siamo abituati a pensare la fantascienza, concetto che andrebbe forse ora riformulato, anche alla luce di libri come Annientamento di Jeff VanderMeer), ma da uno dei saggi filosofici più stimolanti, visionari e problematici che siano apparsi in Italia nel 2018: Iperoggetti, del pensatore britannico classe 1968 Timothy Morton, pubblicato nel nostro Paese da Nero edizioni. Un libro per lunghi tratti illuminante, che analizza come queste “entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo” - gli iperoggetti, non umani e non conoscibili mai fino in fondo - influenzino da sempre la nostra vita e ora abbiano decretato la fine del mondo nel senso dell’idea di mondo, che per altro era già una problematica “antinomia della ragione” nella filosofia di Kant a fine settecento. Il più clamoroso caso di iperoggetto, e in un certo senso il punto chiave della riflessione di Morton, è il cambiamento climatico. Al netto di qualsiasi considerazione filosofica più o meno sofisticata - e benché pubblicamente Morton osteggi la visione di Kant, nei fatti è lui stesso a dare nuova linfa al concetto di noumeno, ossia la “cosa in sé” che né nell’idealismo tedesco, né in questa visione ipercontemporanea e post punk possiamo raggiungere - al netto di tutto ciò, resta un fatto: il cambiamento climatico è il Tema del nostro presente, e libri come Iperoggetti servono, oltre a molto altro, anche a ricordarci quanto sia impellente pensarlo (e ovviamente poi agire, ma senza pensiero non c’è azione) in modi nuovi. Perché se la fine del mondo è già successa, e in un certo senso anche Wim Wenders o qualunque scienziato specializzato in robotica ce lo possono confermare, noi siamo ancora qui. Aggiungo anche una piccola postilla: per chi ha amato i libri di VanderMeer appare anche chiarissimo che l’Area X della sua Trilogia di grande successo, altro non è che un iperoggetto divenuto materia di letteratura. Qui però dobbiamo fermarci, perché entrando nell’Area le regole cambiano completamente, ed è un’altra storia che racconteremo un’altra volta.

A fare in un certo senso il paio con Morton c’è un altro saggio sul nostro presente, questa volta inserito nel circuito mainstream dei bestseller internazionali, più accessibile e amato perfino da Bill Gates, che lo ha consigliato come regalo natalizio (in una lista di cinque titoli): sono le 21 lezioni per il XXI Secolo dell’israeliano Yuval Noah Harari, pubblicato in Italia da Bompiani. Una sorta di manuale del presente per macrotemi, che vanno dall’immigrazione alla religione, dal lavoro all’idea di civiltà. In tempi di slogan e odiatori, il libro di Harari ha il grande merito di usare una ragionevolezza  di stampo razionalista (anche ironica e autoironica, ma senza corrosività, come è giusto che sia in un libro da milioni di copie nel mondo) che gli permette di affrontare questioni globali e urticanti in modo, lo scrivo ma un po’ al tempo stesso provo imbarazzo, gentile. Ma la gentilezza, intesa in senso non solo di galateo ovviamente, è in fondo una delle chiavi per il cambiamento vero, che Harari con le sue lezioni sembra auspicare, prima che sia troppo tardi e gli algoritmi prendano il potere (sta già succedendo, anche in Italia, quindi non si sta parlando di qualcosa di altro o astruso). “Moralità - scrive Harari nella lezione 13. Dio - non significa ‘seguire precetti divini’. Significa ‘ridurre la sofferenza’. Per agire moralmente, non avete bisogno di credere in qualche mito o storia. avete solo bisogno di sviluppare una precisa percezione della sofferenza. Se davvero capite come un gesto possa provocare inutile sofferenza a voi stessi o agli altri, sarà naturale astenervi dal farlo”. Troppo facile? Forse, ma vale la pena di rileggerla più volte, questa frase, e poi pensarci un po’ su.

La non fiction, come accade da un po’ di anni, forse perché i suoi confini si sono comunque molto allargati e comprendono spesso oggetti che sono letterari a tutti gli effetti pur non essendo romanzeschi (il buon proposito di lettori e recensori per il 2019 potrebbe - tardivamente - essere quello di chiudere definitivamente con questa associazione esclusiva letteratura-romanzo). Uno di questi è il magnifico e spaventoso reportage di Mark O’Connell nel mondo del transumanesimo, del post umano, del “download del cervello”. Essere una macchina, che è uscito nella “Collana dei casi” dell’editore Adelphi, è un libro, come i due citati prima, molto contemporaneo, e anch’esso, come capitava con Timothy Morton, ci parla di qualcosa che sembra futuro fantascientifico, ma in realtà è solo il presente, in molti casi gli scenari che il giornalista descrive sono “già successi”, anche se a volte solo per una finora piccola comunità di adepti. Ma il post umano, la “vita” oltre la morte, sono oggetto di investimenti colossali dei protagonisti del Big Business e in molti luoghi che sembrano usciti dalla penna dell’ultimo Don DeLillo si trovano veramente le teste ibernate di persone che si sono fatte decapitare subito dopo la morte in attesa delle tecnologie che, prima o poi, permetteranno loro di risvegliarsi. Magari, e qui c’è probabilmente la parte più originale e inquietante del racconto di O’Connell, sotto forma di “altro”, sotto forma di software cosciente, senza più la soma del corpo. Ma sarà ancora vita? Sarà ancora umana?

Sempre in casa Adelphi e sempre nel terreno del ragionamento sulla coscienza e l’intelligenza, il 2018 ha portato in libreria un altro saggio difficile da trascurare: Altre menti di Peter Godfrey-Smith, dedicato alla cosa “più vicina all’incontro con un alieno intelligente che ci possa capitare”. Questa volta però la fantascienza (nella solita accezione un po’ scontata) non c’entra: gli alieni in questione sono seppie e polpi. Il libro, secondo volume della collana Animalia, è dedicato ai cefalopodi e alla loro via alternativa allo sviluppo cosciente e offre, da un punto di vista spesso filosofico, ma con moltissima interazione reale con gli animali, un avvicinamento al concetto vero di “alterità”. Oltre che una finestra capace di allargare le nostre prospettive e offrirci occhiali migliori per guardare a quello che, Morton e Kant ci perdonino, continuiamo a chiamare “il mondo”.

La non fiction come letteratura si diceva, e allora ecco la nuova raccolta di “idee, visioni, ricordi” di una delle scrittrici più importanti del mondo: Zadie Smith, che per Sur edizioni ha portato in Italia il suo Feel Free. Per capire di cosa stiamo parlando (e conviene ricordare, in quest’epoca di certezze assolute da sbandierare sui social ogni 18 minuti, che la precedente raccolta di non fiction della Smith si intitolava Cambiare idea), basta una piccola citazione: “A mio parere un vero ‘creativo’ non dovrebbe accontentarsi di soddisfare una domanda preesistente, ma dovrebbe modificare la nostra idea di ciò che desideriamo. Al cuore della creatività si trova un rifiuto. Perché un’opera veramente creativa evita sempre di vedere il mondo come lo vedono gli altri, o come viene generalmente descritto. Rifiuta le opinioni convenzionali e generiche: rinnova”. Bum. Mi vengono in mente le battaglie culturali del presidente della Biennale Paolo Baratta, che da anni insiste sul tema di ridefinire il desiderio, sia di arte sia di architettura. Insomma, quando c’è un’intelligenza mobile, e quella di Zadie Smith è mobilissima e diventa scrittura altrettanto imprendibile, tutto alla fine si tiene, in modo assolutamente precario se volete (parliamo pur sempre di cultura, suvvia), ma chiarissimo.

Chiudiamo questa ricognizione annuale nella non fiction, prima di riaprire la porta del romanzesco, con un’altra scrittrice, Michela Murgia, non per la sua battaglia contro il fascismo, bensì per un piccolo libro dedicato a un altro libro. Grazie all’intuizione editoriale di Chiara Valerio (la scrittrice italiana che se non ci fosse andrebbe subito inventata di nuovo), Marsilio ha creato la collana PassaParola e qui Murgia ha raccontato la propria scoperta de Le nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley, la versione al femminile (e al femminista) della storia di Re Artù. L’inferno è una buona memoria -  questo il titolo del racconto di lettrice della Murgia - è un oggetto minuscolo ma travolgente, intimo e accecante a tratti. Anche qui, arriviamo a vedere cose che prima non vedevamo (o forse facevamo finta di non vedere) e lo sguardo della scrittrice, impietoso in primo luogo con se stessa, è una guida che si fatica a lasciare.

Ultimissime note: all’insegna della contaminazione tra le forme di scrittura bisogna citare altri due titoli che sono difficilmente classificabili come genere. Il primo è Storia dello sguardo di Mark Cousins (Il Saggiatore), un viaggio multiforme dentro il nostro modo di guardare alle cose, alle persone, alla storia, all’arte, agli stessi nostri occhi. Il secondo è fresco di stampa ed è Vite brevi di tennisti eminenti di Matteo Codignola (Adelphi): nel racconto di personaggi del tennis che fu (e questo sport per l’autore è una vera ossessione, di cui il libro parla in modo diffuso e spesso esilarante) si riscopre il modo in cui la letteratura, quando è nelle mani di uno in gamba, e Codignola lo è oltremodo, può fare di tutto, anche parlando di Goering o del sarto di Wimbledon. Con un’avvertenza: dimenticatevi le cose alla Open di Agassi, ma ricordatevi che queste vite brevi sono altrettanto forti come oggetto letterario (e se il buon Andre spara un suo classico e micidiale dritto da fondo campo, l’elegante Matteo gli risponde, sul terreno dei libri, con un raffinatissimo drop shot in controtempo. E il pubblico si spella le mani).

Il 2018 in campo letterario, e ora parliamo di fiction e di romanzi, è stato soprattutto l’anno della scomparsa di un gigante come Philip Roth, morto a fine primavera a 85 anni. Lui, che l’Accademia di Svezia ha snobbato per decenni, se ne è andato proprio nell’anno in cui il premio Nobel per la Letteratura non è stato assegnato in seguito a uno scandalo a sfondo sessuale (classico elemento rothiano), tanto che viene da pensare e, perché no, anche da essere sicuri, che, alla chetichella, se lo sia portato via proprio il buon Philip, ultimo segreto gesto di ribellione (ma anche di fedeltà a una vocazione assoluta alla scrittura, che è tutto ciò che conta sul serio). Per salutarlo nel migliore dei modi Einaudi ha concluso la pubblicazione di tutti i suoi libri con il volume Perché scrivere?, che contiene “saggi, conversazioni e altri scritti”, insomma buona parte di ciò che Roth ha visto intorno ai libri, suoi e degli altri scrittori. Una sorta di autoritratto per frammenti, che si chiude con il discorso per i suoi ottant’anni, pronunciato nel 2013 al Newark Museum, a casa sua insomma, e dove per una sorta di congedo ha scelto le parole del suo personaggio più grande e insondabile: il burattinaio, satiro e sconfinato Falstaff contemporaneo, Mickey Sabbath. “Una vita di incessante dissenso - ha detto Roth alla platea quel giorno - è la miglior preparazione alla morte che lui conosca. Nella sua incompatibilità, Sabbath trova la sua verità”. Arrivederci Philip, e grazie di tutto.

Restando sulle sponde americane e, guarda caso, con il personaggio di un anziano scrittore, ci siamo imbattuti in un romanzo d’esordio fuori dal comune: Asimmetria di Lisa Halliday, pubblicato da Feltrinelli. Una storia in due macro-capitoli dedicati il primo alla relazione tra il leggendario premio Pulitzer Ezra Blazer e la giovane Alice, lei sì personaggio straordinario per il modo in cui Halliday lo ha immaginato e messo in pagina, il secondo ad Amar, economista iracheno-americano che viene trattenuto a lungo in aeroporto a Londra e così c’è l’occasione di trama per raccontare la sua vita. Bisogna dire che, anche per originalità, il botto lo fa la prima parte del romanzo, il botto è Alice, intorno a lei si stendono tutte le altre ramificazioni di storia, lingua, costruzione letteraria. Ma quando la ragazza dice a Blazer “Facciamo qualcosa di terribile”, è lei che serve il perfetto assist allo scrittore per rispondere: “Mary-Alice, questa è la cosa più intelligente che tu abbia mai detto”. Se non è amore così, non saprei cosa altro potrebbe essere. Tra i due personaggi, ma questo è relativo, e soprattutto tra noi e il romanzo. E questo conta.

Una parola, in questa lista, la merita poi un romanzo che, facendo finta di essere qualcosa d’altro - per esempio una specie di romanzone di inizio Novecento oppure una classica storia di formazione - in realtà fa davvero quello che promette il risvolto di copertina: racconta “in tutta la sua perturbante evidenza il nostro tempo, quello che viviamo ogni giorno”. Si tratta di Tutto quello che è un uomo del canadese-ungherese David Szalay (Adelphi), libro che - banalizzando molto, è chiaro - sceglie un passo che potremmo definire classico, con il quale batte un percorso ipercontemporaneo, la cui riconoscibilità però appare poco a poco, come se ce la dovessimo guadagnare, ma, sia chiaro, non certo in senso punitivo, solo di consapevolezza progressiva, di lento autosvelamento attraverso gli oggetti, i pensieri, le tristezze e le geografie, della nostra stessa vita. Non arriveremo, per fortuna, a un approdo definitivo, ma, come hanno detto in tanti e penso soprattutto a David Foster Wallace che parla di Kafka (David Foster Wallace che parla di Kafka, due universi completi, non uno solo) e dice più o meno: lo stesso assurdo viaggio verso casa era già casa.

Poi c’è il romanzo italiano. Che piange la morte di Andrea G. Pinketts, ma continua, seppure con tanti limiti che è perfino noioso stare a ricordare, a esistere e ci sono autori che, al di fuori del genere stretto del giallo-noir dove il vento soffia sempre in poppa, provano a fare cose diverse e interessanti. E’ il caso di Gianluigi Ricuperati, che ha pubblicato per Tunué il proprio quarto romanzo, EST, che segna una tappa significativa nella sua carriera, un’opera di maturità sia nel senso delle tematiche che affronta (l’arte, la finzione, ma soprattutto l’inestricabile e irrinunciabile mistero dell’amore, a molti livelli diversi compreso quello più diretto) sia nel senso dell’apertura a una letteratura meno ostinatamente di rottura, più accessibile potremmo forse dire (ma non sono certo che sia esattamente questa la formulazione migliore), più fatta di “carne e sangue”, come ha detto il suo editor, Vanni Santoni. Partendo da una clamorosa installazione d’arte contemporanea, una specie di film segreto (e gli echi di Don DeLillo, ma anche di Thomas Pynchon ci fanno subito drizzare le orecchie, ma alla fine sarà tutto diverso, sarà un romanzo italiano e non americano, come è giusto che sia), il racconto poi prende molte altre pieghe, nelle quali anche la personalità irrefrenabile dell’autore-narratore si diluisce nei confronti, trova modo di rendersi più completa, con grande beneficio per il libro, che oggi appare, appunto, un lavoro maturo, rotondo, pronto per arrivare a un pubblico più vasto senza rinunciare troppo alla ricerca della complessità o del continuo stupore.

L’altro libro italiano che segna la maturità di uno scrittore che negli anni ha continuato a progredire è Nel cuore della notte di Marco Rossari (Einaudi). Pur con ancora qualche limite, che peraltro hanno anche i romanzi di Joseph Conrad, relativo al fatto che è indubbio che il libro abbia una sua voce, fortissima, potente e chiara, ma talvolta i “portatori” di questa voce sono più deboli, “Nel cuore della notte” è un’opera importante, che spazza via quasi tutti i luoghi comuni di quei romanzi italiani in fotocopia e che sa prendere la lezione di certi maestri stranieri e ricondurla sulle strade patrie (del resto Rossari è sia un gran lettore sia un ottimo traduttore, entrambi elemento che lo qualificano bene e gli offrono strumenti di chiaro valore aggiunto), con un prodotto letterario originale e vicino. Al quale è bello pensare di avvicinarsi usando proprio una delle immagini pop intorno alle quali ruota il romanzo, ossia la scena del film Paris, Texas di Wim Wenders nella quale Harry Dean Stanton parla con Nastassja Kinski attraverso il vetro di un peepshow. Quel vetro è, in un certo modo, il senso del romanzo, del nostro stare “al di qua”, riconoscendo però, nel caso del film con enorme struggimento, anche chi (o cosa, il libro, per esempio) sta “al di là”. E come dice a un certo punto il protagonista della storia, “credo di avere scritto più pagine memorabili in chat che in tutto il resto della mia vita”. Qui, chiaramente, c’è qualcosa che parla di noi, e che decifreremo probabilmente solo con il passare del tempo.


Leonardo Merlini
Kilgore Magazine

10 agosto 2018

Andy 90, è arrivato (forse) il momento di salutare Warhol

Il suo più famoso motto recita che "nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti". La celebrità di Andy Warhol, di cui in questo 6 agosto del 2018 cadrebbe il 90esimo compleanno, è durata di più, ma anche per lui, padre della Pop Art americana e di un certo modo di pensare tutto il contemporaneo, oggi è forse venuto il momento di un salutare passo verso lo scadere di quel quarto d'ora sotto i riflettori globali.

Proviamo a spiegarci: la lezione dell'artista nato a Pittsburgh nel 1928 è stata cruciale, non solo a livello di pittura e fotografia, ma anche per il cinema e perfino ha avuto un peso nella letteratura. Come ha scritto il filosofo Arthur Danto, "se dal Brillo Box di Warhol sottraiamo la scatola Brillo del supermercato, ciò che rimane è quello che la rende arte. Qualcosa di invisibile come l'anima". E, qualche anno fa, in occasione di una retrospettiva a Milano, il critico Francesco Bonami ha chiarito la posizione di Andy nel nostro presente. "Warhol - mi aveva spiegato Bonami - è affascinate perché 50 anni fa, anche inconsapevolmente ci parlava del mondo in cui saremo vissuti. Forse è il più fantascientifico artista che possiamo immaginare".

Tutto vero. Anche la fantascienza però, a un certo punto viene raggiunta e superata dagli eventi (soprattutto nel mondo della Grande Accelerazione) e per Warhol si è, in un certo senso, compiuto quel destino che era già insito nella sua scelta rivoluzionaria degli Anni Sessanta: unire la pubblicità e l'arte, in un grumo inestricabile. E oggi un po’ la sua arte è tornata a essere sostanzialmente pubblicità.

C'è però anche un aspetto dell'approccio warholiano che resta cruciale, ancora oggi nel mondo degli iperoggetti teorizzato dal filosofo Timothy Morton, che tanta parte sta avendo nel modo in cui le frange più avanzate del contemporaneo pensano se stesse e l'idea di arte. E riguarda soprattutto il concetto di factory, di produzione collettiva, di scomparsa dell'artista, pur a fronte di una evidente, almeno per Warhol, sovraesposizione e sovranarrazione mediatica. Qui, nella sua scomparsa, Andrew Warhola Jr., trova crediamo il proprio pieno compimento.

E dunque, al termine di quei lunghi 15 minuti, mentre l'arte assume sempre di più l'aspetto di processi collettivi, di azioni estranee al suo sistema e di perdita, o meglio, di sublimazione della natura oggettuale dell'opera, Warhol resta con noi, ma con meno, per dir così, ansia da prestazione. 
Buon compleanno, Andy.