12 settembre 2015

Ciao David, adesso non abbiamo più paura

Tutto quello che non sapremo mai e che ci ruota intorno. Possiamo parafrasare Jovanotti per provare a descrivere che giorno è questo giorno come tutti gli altri nel quale cade, è il 12 settembre, il settimo anniversario della morte di David Foster Wallace. Certo, il verso successivo della canzone, che recita "mi tiene vivo" non fa al caso nostro, ma forse sì, perché dopo le celebrazioni, i santini, la commozione degli amici e dei lettori, intorno a Wallace e al suo genio, di cui davvero non sapremo mai nulla (e questa ignoranza è preziosa, nel suo distoglierci dallo spazio infinito dell'opinione e dell'opinabile per lasciarci concentrare sul testi, sulla altrettanto complessa ma fattuale bibliografia di David) comincia a diradarsi la nebbia dell'incenso, i semplici curiosi si stancano di stare a guardare e se ne vanno, il tempo edulcora il pudore di chi, a cadavere ancora caldo, non voleva rischiare il cattivo gusto di una critica… La Storia insomma fa il suo corso, come sempre incurante degli intercambiabili attori. Questi sette anni ci ricordano, con una bella dose di peloso senso comune, che siamo tutti utili e nessuno indispensabile, e che prima o poi toccherà a tutti la fortuna di venire dimenticati. 


 Nel caso di Wallace l'oblio è ancora lontano, ma la sensazione oggi è che comunque si sia passato un confine e che, riguardando alla figura dello scrittore-depresso-con-la-bandana, si possa sentire meno riverenza e meno paura di non averlo capito (e di non averlo letto, chi è senza peccato scagli il primo volume di Infinite Jest). Sette anni dopo quel giorno a Claremont non è più necessario pensare che avremmo tutti potuto fare qualcosa per non farlo impiccare, oppure che la scelta del suicidio fosse scritta da sempre nella sua biografia. Entrambe le posizioni potrebbero anche essere vere, ma è ora che cadano in prescrizione. L'Essere è, il Non Essere non è, diceva il filosofo greco Parmenide un sacco di secoli fa: per una volta conviene non fare i sofisticati (ma attenti, intellettuali dalle mente sottile, nel rinunciare alla sofisticheria si può anche arrivare a sublimi vertici della stessa, che sono però quasi sempre segreti, quindi poco spendibili in società) e attenerci a questi piccoli e semplici fatti. DFW non è più, i suoi libri sono ancora. Alcuni straordinari, alcuni più datati, alcuni tuttora irraggiungibili, altri a tratti del tutto illeggibili. Come la vita normale di uno scrittore che riusciva a essere fuori dal comune. Tutto il resto non lo sapremo mai, per fortuna (non voglio sentirmi addosso la sensazione dell'elettroshock per esempio, né ricordarlo su altri) ed è giusto lasciarlo andare. A preservare la memoria di David ci pensa con i muscoli e la grinta – a volte eccessiva e vagamente integralista – la devota vedova Karen, a noi il compito ancora divertente e talvolta nuovo di leggerlo smettendo di pensare che ci debba piacere per forza ogni singola parola scritta da lui.


Non è un caso, o così almeno a me pare (mentre ci rifletto sperduto in mezzo alla folla dell’Esposizione universale e sento franare il piccolo mondo dorato del mio preziosissimo ombelico da scrittore) che Jonathan Franzen, l’amico e simil alter-ego di DFW, abbia pubblicato in questi giorni intorno alla data dell’anniversario wallaciano il suo ultimo romanzo Purity, che la stampa di tutto il mondo ha immediatamente celebrato come finalmente "popolare", mettendo con velocità strabiliante una pietra sopra a un capolavoro "intellettuale" come Le correzioni. Tanto da farmi venire il dubbio che gli elogi di un tempo fossero, se non proprio falsi, almeno figli di una postura non esattamente spontanea… Quale che sia la verità, e se parliamo di letteratura ce ne sono sempre di diverse ed ugualmente valide, resta il fatto che adesso le ceneri di David sparse nell’Oceano sono davvero scomparse alla nostra vista. E finalmente gli possiamo volere bene senza appigli, senza scuse e senza sconti.

Ciao!

20 agosto 2015

La guerra in Iraq e l'indicibile: la missione di Phil Klay

“Sparavamo ai cani”. Si apre con tre parole, già capaci di creare un’atmosfera di inquietudine, la raccolta di racconti Fine missione di Phil Klay, 32enne scrittore statunitense che con questo suo primo libro ha vinto il National Book Award 2014. Un premio che, leggendo le storie che raccontano, forse davvero per la prima volta, gli ultimi anni della guerra in Iraq, appare quasi un naturale coronamento di un lavoro letterario che sa unire la precisione carveriana nella gestione della misura della short-story a un’indagine sul tema dell’umano – perché di questo si tratta – capace di raggiungere, senza morbosità né eccessi spettacolari, profondità sconvolgenti. Al punto da lasciare disorientato il lettore, che esce dalla pagina di Klay con la sensazione di avere ammirato un’opera d’arte e, al tempo stesso, di essersi completamente persi all’interno di un mondo che, ingenuamente, credevamo di conoscere.


Ufficiale dei Marine, Klay ha servito in Iraq come capitano, nella provincia di Anbar, tra il gennaio del 2007 e il febbraio del 2008, in un momento molto difficile per le truppe statunitensi, prima di congedarsi nel 2009 e quindi conseguire un Master in scrittura creativa. E la mano tecnica, nella sua pagina, si nota, è, militarmente verrebbe da dire, dichiarata. Ma ciò non basta a fare di storie come Il denaro come sistema di armamento o Preghiera nella fornace quegli oggetti letterari primordiali che nei fatti sono. La scrittura di Phil Klay, che in Italia è pubblicato da Einaudi, induce a domande sul senso della stessa letteratura o su che cosa significhi realmente trovarsi in guerra. Domande che, necessariamente, ammettono solo risposte parziali, quando non completamente oscure, e alle quali Klay non vuole fornire alcun tipo di soluzione, se non quella, preziosissima nella sua fragilità, della creazione artistica in se stessa. “In realtà – dice a un certo punto un personaggio – in Iraq è successo quello che è successo, niente di più”. Una frase solo apparentemente scontata, ma che cela l’abisso di orrore – parola intorno a cui ruota, tanto per fare un paragone che indica qual è l’ambito qualitativo in cui ci si sta muovendo, la follia di Kurtz in Cuore di tenebra di Joseph Conrad – rappresentato dallo stare in mezzo a una cosa di fatto indicibile nella sua totalità, ossia la violenza che porta con sé l’ombra, purtroppo non bergmaniana ma semplicemente brutale e biologica, della morte.

Morte che viene celata, più che sotto la retorica, che nei racconti di Klay non compare quasi mai, nemmeno dove ce la aspetteremmo, ricorrendo a un gergo anestetico per acronimi che trasforma i morti in azione in KIA, gli ordigni nascosti sulle strade in IED, le squadre di artificieri in EOD e via di seguito. Un gergo che Klay usa con raggelante indifferenza artistica, arrivando a comporre il racconto OIF, ossia Operation Iraqi Freedom, quasi utilizzando solo queste sigle aliene. La vita umana passa nella distinzione tra i KIA e i WIA (feriti in azione, ma sopravvissuti), ma anche nella disturbante consapevolezza “che KIA significa che loro hanno dato tutto. WIA significa che io invece no”.


Che cosa sappiamo davvero di noi stessi. Potrebbe essere questo il motivo per il quale queste short-story glaciali e lontanissime interrogano ciascuno di noi anche a migliaia di chilometri dall’Iraq in tono incalzante e avvolgente. Perché, come dice il Marine del primo racconto che dà il titolo alla raccolta prima di sparare al suo cane malato terminale, bisogna concentrarsi “sulla tacca di mira, non sul bersaglio. Il bersaglio deve essere sfocato”. In questa sfocatura di fronte al mondo si muove la grande letteratura, da sempre. Un movimento di cui oggi Phil Klay fa legittimamente e spaventosamente parte.

13 aprile 2015

Bolaño, le puttane e la ricerca della verità (impossibile)

Che cosa c'è di più indicibile di ciò che accade alla fine di una scazzottata violenta in un sordido bordello di Acapulco, lontano dagli alberghi per i turisti internazionali, in piena notte, dopo una lunga partita a carte nella quale uno straniero, che avrebbe dovuto rivestire il ruolo di vittima predestinata, ha vinto l'intera posta e ora se ne vuole andare, insieme al giovane figlio, portandosi via la vincita. Tutti possiamo immaginare le scene peggiori: lame di coltello, spari, se volete anche degli spaventosi sacchi nei quali fare sparire dei corpi, abbandonati in un cortile che con il buio è antro di sesso e mistero, ma che, con la luce dell'alba, non potrà fare altro che rivelarsi nella sua infinita miseria e inutile bruttezza, un posto ridicolo nel quale morire, un posto in cui morire sembra inevitabile. Già perché stiamo parlando di un racconto di Roberto Bolaño, Ultimi crepuscoli sulla Terra, testo meraviglioso, enciclopedico (nel senso delle suggestioni poetiche del suo autore), astuto, costruito, reticente. Insomma perfetto, anche e soprattutto nel decidere di fermarsi allo scoppio della rissa, lasciando, dopo averlo corteggiato in maniera quasi intollerabile per lunghe pagine, che nei fatti l'indicibile resti tale. 

Di Bolaño, ormai a tutti gli effetti una leggenda anche per il mainstream (e qui si dovrebbe aprire una parentesi infinita per provane a -non- capire la storia di un poeta abbastanza scadente che a un certo punto della propria vita e della propria malattia decide di mettersi a scrivere dei romanzi e dei racconti per 'fare soldi' e mantenere i propri figli, e così facendo segna una pietra miliare nella letteratura contemporanea... E' una storia lunga e soprattutto nota, ma ricordarla, specialmente se si sta parlando dei racconti di Bolaño è sempre utile), si è scritto moltissimo e ora che Adelphi ripubblica tutte le opere dello scrittore cileno il rischio è quello di pensare di essere arrivati, di avere capito tutto ciò che c'era da capire. E aprendo l'ultimo arrivato, la raccolta di racconti Puttane assassine del 2001, nella traduzione di una bolaniana doc come Ilide Carmignani, molte manifestazioni del talento e del mestiere dello scrittore appaiono chiaramente leggibili. Le storie sono trappole per il lettore, gorghi letterari nei quali si sprofonda in virtù della concessione di plausibilità che noi, con ingenua onestà, concediamo a Bolaño. Sia chiaro, trappole splendenti, nelle quali finire prigionieri è liberatorio e felice, ma pur sempre meccanismi narrativi in molti casi esposti, che il nostro occhio però, troppo impegnato a combattere contro il senso di minaccia incombente e a divorare il racconto, potrebbe scegliere di non vedere.

E quando il lettore smaliziato, seppur innamorato di Bolaño, incappa in una fase come "Le ore successive sono confuse", sa, lo sa con certezza, che queste cinque parole sono figlie dell'abilità affabulatoria del cileno. Ma poi, fermandosi un attimo a riflettere (centellinare la lettura di Bolaño può essere una buona strategia, prendersi delle pause, per quanto difficile), può capitare di accorgersi che, in realtà non si tratta solo di quell'utile fumo che si spara in aria per creare senso di mistero, bensì qualcosa che va più in fondo, che ha a che fare con l'effettiva difficoltà di percepire e vivere ciò che chiamiamo realtà... Insomma, vista sotto una certa angolazione e - direbbe W.G. Sebald - in certe condizioni di luce, la frase diventa assolutamente "vera", e Bolaño, come fanno gli scrittori di razza (provate a pensare per un secondo a Franz Kafka, solo per fare un esempio clamoroso) risponde attraverso una narrazione che potrebbe sembrare quasi di genere a domande che riguardano le esperienze private e individuali (spesso segrete, crediamo ingenuamente) di tutti noi. E soprattutto, e qui sta il meglio, lo fa alla maniera di Bolaño. Se fosse una operazione di marketing pianificata sarebbe il capolavoro definitivo. Ma, per fortuna (?), è solo letteratura.

"Mentre mangiano il padre di B guarda B come se cercasse una risposta. B regge il suo sguardo. Telepaticamente gli dice: non c'è risposta perché la domanda non è valida. La domanda è idiota". Quali che siano i contenuti di questo dialogo silenzioso è irrilevante, quello che conta è che il dialogo esiste e che, in buona parte, ci riguarda. Sempre.

04 aprile 2015

José Revueltas e l'invenzione della prigione: Le scimmie

La prigione era ovunque, raccontava Italo Calvino nel suo memorabile racconto Il conte di Montecristo, e ogni tentativo di evasione del suo abate Faria era surreale e grottesco, oltre che impossibile. Di questa impossibilità e dell'idea stessa di prigione, ha scritto in un testo del 1969 il messicano José Revueltas: Le scimmie, che ora viene pubblicato in volume in Italia dalle edizioni Sur. Un libro, breve ma poderoso, che diventa dimostrazione inoppugnabile e sconvolgente del modo in cui la lingua letteraria, una lingua in questo caso ricchissima, quasi tronfia di subordinate che ridanno senso a una parola come "discorso" (nell'accezione più profonda del termine), possa essere a tutti gli effetti una forza creatrice. "In principio era il Verbo", recita uno degli incipit più celebri e venerati di sempre, lo stesso vale per Revueltas e per questo suo libro, che sa essere fondativo anche se in realtà è arrivato alla fine della carriera dello scrittore, cinque anni prima della sua morte, a 62 anni, nel 1976.


La storia è minima: tre detenuti disperati, tre tossici in isolamento - Polonio, Albino e il Coglione - architettano un piano per farsi recapitare della droga. Finirà male, con un piccolo massacro, nel quale tanto i detenuti quanto i secondini - le scimmie del titolo, prigionieri a loro volta nel sistema detentivo di cui sono chiamati a farsi garanti - usciranno devastati e, inevitabilmente, sconfitti. Ma quello che conta, oltre alla prospettiva dello sguardo di Revueltas, è l'universo che il narratore riesce a creare, l'allucinazione indefettibile che sorregge ogni singolo passaggio del libro, quella spaventosa precisione realistica, che insiste sul dettaglio anche anatomico (come nel caso delle perquisizioni intime inflitte alle parenti dei detenuti al momento di entrare in carcere), ma che in fin dei conti crea un effetto complessivo straniante e, si direbbe dall'altra parte del continente americano, larger than life, più grande della stessa realtà che si propone, riuscendoci, di descrivere dall'interno.


José Revueltas, come senza essere molto originali si può anche supporre dal suo cognome, aveva la ribellione nel sangue e la sua biografia, di cui nel libro di Sur è presente una sintesi efficace firmata dalla curatrice Alessandra Riccio, è costellata di dissidenze e detenzioni. Comunista convinto, anche degli errori dei suoi, è rimasto a lungo una figura altra a ogni tipologia di sistema, fosse quello del potere in Messico oppure l'altra chiesa, quella che viveva all'ombra dell'ortodossia marxista, sovietica o castrista che fosse. E allora ecco la galera, anche in tarda età, dalla quale esce con il racconto Le scimmie, senza livore, senza sfoghi, ma solo con un oggetto letterario che è, come il suo autore, pura alterità, meraviglia inattaccabile, a suo modo verità definitiva. Scritta da un autore che, ovviamente, non crede in nessun modo che esista una verità definitiva. Qui sta il trucco e qui anche la vittoria, postuma quanto volete, di José Revueltas. Di lui la scrittrice e giornalista sua conterranea Elena Poniatowska, scrive che era una "immagine angelica che riflette sempre un Lucifero cangiante". Una definizione che si adatta perfettamente, volenti o nolenti, alla stessa Letteratura, e la elle maiuscola non è un refuso.


Ultima nota: leggendo Revueltas si sente vibrare la stessa energia che anima le pagine di un altro grande sudamericano venuto dopo di lui, il cileno esule Roberto Bolaño che a lungo a vissuto in Messico. Senza scomodare il mistero borgesiano dell'influenza, resta la certezza che i semi letterari gettati anche nei modi più eterodossi prima o poi daranno un frutto.