12 settembre 2020

Quegli eterni anni Novanta

ovvero 12 anni senza David Foster Wallace

La storia, in qualche modo, è cominciata alla Libreria 121+ di Milano, con una cosa che avevamo chiamato AperiWallace. C’erano drink, cannucce e salatini; c’erano persone interessanti e sorridenti e, intorno, tanti bei libri di letteratura e di design; fuori dalle finestre passava la vita di Porta Genova parecchi anni prima del Covid, in una città che puntava decisa verso la grande opportunità dell’Expo. Sono cambiate tante cose da quel tardo pomeriggio, ma la giacca blu di felpa che indossavo allora se ne sta ancora nel mio armadio e ho ancora pure quel paio di Converse bianche modello alto. La storia è cominciata così, parlando delle Brevi interviste e de La ragazza dai capelli strani. Non ho molti altri ricordi, se non quella sensazione di avere intorno persone che, almeno per i 50 minuti della chiacchierata pubblica, davano l’idea di una comunità. Eterogenea e improbabile, per l’amor del cielo, ma comunque comunità. Un gruppo di wallaciani sparsi, qualche imbucato di sicuro, qualcuno chiaramente indifferente al tema letterario, bastava la parola aperitivo a convincerlo. E forse erano i più sani, mi viene da credere oggi.

Ognuno però è ciò che è e ciò che può, quindi io ero lì, questo è provato, a parlare di David, della sua lingua, delle sue ossessioni attraverso le mie; della sua carica ironica e della sua disperazione; del suo talento di saggista e della mia sconfinata ammirazione per il modo in cui aveva fatto il mio mestiere di giornalista (o giornalaio, come mi dicono a Pistoia). A un certo punto, questo è l’altro dato di fatto incontrovertibile in una storia che oggi è piena di ricordi mancati, io ho smesso di parlare, la platea ha educatamente applaudito e ci siamo tutti concentrati sul bere, scambiandoci commenti eterodossi sottovoce, sputacchiando piccoli frammenti di taralli imbevuti di Aperol. Qualcosa è cominciato da lì, ha avuto uno sviluppo, una crescita, poi dei cambiamenti, altre platee, altri soggetti, altre modalità. La vita insomma, si dice, ha fatto il suo corso. Ma senza quella sera, senza quell’AperiWallace, sarebbe stato un corso diverso, che avrebbe portato - non ci sono prove, perché non ce ne sono mai, come ci insegna Kundera - a un presente diverso, magari per poco, magari per moltissimo. Chi lo sa.


Oggi David Wallace resta una parte importante della mia storia di lettore e performatore di racconti letterari; lo scaffale dei suoi libri, nella taverna-bunker, è sempre pieno, con tante edizioni doppie e qualcuna tripla. Alcuni libri restano fenomenali, altri hanno perso un po' di smalto con il passare del tempo. Ma credo che ciò sia dovuto anche a cambiamenti del gusto complessivo, a nuovi strumenti di comunicazione che sono emersi in modo prepotente: tutte cose che David non ha visto e non ha, ovviamente, potuto raccontare. È chiaro che dare la colpa ai nuovi gusti dei lettori può sembrare una difesa molto debole, perché i gusti sono manifestazione dei bisogni, e i bisogni sono a loro volta la manifestazione più radicale (e complessa) di un tempo. Wallace ha costruito una sorta di eterni anni Novanta, ma gli anni Novanta veri, nei fatti, non sono durati nemmeno un decennio. Così va la vita, potremmo scrivere citando Vonnegut (e senza uno sforzo particolare di originalità).

Ma possiamo anche girarla in maniera leggermente diversa: David era così bravo da trasportare nella sua pagina eccessiva e onnivora (pienissima, come quelle dei libri altrui che lui annotava ossessivamente con biro di diversi colori) tutto il suo tempo e pertanto quello che non era il suo tempo (e dunque il futuro, e dunque noi oggi) restava fuori dalla cornice, magari intuibile, magari in qualche modo già previsto, ma fuori. Lontanissimo.


(Non vale, questo discorso, per tutto Wallace. Non vale per quasi la totalità della sua non fiction, non vale per un libro imprendibile come Oblio, non vale per Il re pallido, forse, alla fine, il suo capolavoro segreto e definitivo, pur essendo per forza provvisorio, in quanto postumo e assemblato dall’editor Michael Pietsch. Forse vale un po' per le pagine su Federer, ma solo perché è invecchiato il tennista svizzero. Forse non vale in nessun caso oppure invece vale sempre e io sono solo un impostore, come in quel pazzesco racconto di Philip Dick, Impostor, che finisce con un’esplosione vista fino su Alpha Centauri).


Oggi, nel giorno del dodicesimo anniversario del suicidio di David, trovo in una cosa detta da Jonathan Franzen a Michele Masneri un momento di problematicità interessante: “Da vivo - ha ammesso l’autore di Purity - Wallace non è mai arrivato neanche in finale del premio più sfigato. Poi muore, e all’improvviso diventa un genio”. E poi Franzen, severissimo, ma sempre drammaticamente onesto con se stesso, aggiunge: “David non è mai riuscito a scrivere da adulto per gli adulti. O non ne ha avuto il tempo”. Pausa (le interminabili e ormai leggendarie pause di Franzen). “O forse siamo noi che stiamo diventando vecchi”. Un po’ scontato? Sì, probabile. Un po’ vero? Sì, molto probabile. Contraddittorio? Beh, questo sempre, per definizione.  E mai scordare cosa diceva Oscar Wilde: ogni critica letteraria è una forma di autobiografia.


Goodbye, David.


Leonardo Merlini

© Kilgore Magazine

24 maggio 2020

Una lettera su Céline



Caro Marco,

Quando mi sono messo a pensare a Cèline e alla sua sinistra grandezza di scrittore di destra e antisemita, mi è subito venuto in mente un altro libro, scritto da un ebreo, un classico e probabilmente uno dei più importanti libri di storia che io abbia letto: La strana disfatta di Marc Bloch. Nel suo ricostruire, nelle vesti di “vinto” e “testimone”, la repentina caduta della Francia nel 1940, lo storico accusava senza mezzi termini lo Stato maggiore, i comandanti militari: capaci di sbagliare praticamente tutte le mosse (una situazione che, divago, possiamo capire bene oggi durante la gestione dell’emergenza Covid…). La testimonianza di Bloch è diretta, documentata, non ideologica, ma molto precisa. Poi però arriva il capitolo terzo del libro: Esame di coscienza di un francese. Ecco, a quel punto il discorso si allarga e le responsabilità, si vede, coinvolgono tutta la società, in modi diversi, ma diffusi. Siamo tutti colpevoli in varia misura, dice Bloch a se stesso e a noi, è colpevole il nostro modo di avere vissuto la società. La sua scrittura è così precisa e misurata da fare sentire responsabili anche noi, oggi, perché le dinamiche alla base della strana disfatta francese sono in un certo senso universali e lo storico, in quelle pagine, fa una sua forma di letteratura. 

Sembra un pistolotto inutile, ma il punto a cui volevo arrivare è che Céline sta dentro la società che è arrivata a quel punto, sta dentro la Terza Repubblica, un esperimento politico in fondo fragile come Weimar, ma durato molto di più, cementato anche dall’idea del Fronte Popolare di Léon Blum, che per molta sinistra è stato a lungo un mito. Ma un mito che ha partorito un fallimento, venuto dopo decenni di giochi politici di secondo piano, insomma una grigissima medietà, probabilmente doverosa come reazione a due avventure bonapartiste finite come sappiamo (e la sconfitta di Sedan del 1870 è stata terribile come lo sarà quella del 1940), ma comunque medietà. La letteratura francese sta uscendo dalla grande stagione del Naturalismo e non trova un altro filone dominante, un’altra narrazione di se stessa, diremmo oggi. La sinistra difende un esistente che non ha più attrattive, la cultura ufficiale ci si appiattisce sopra, e al genio letterario puro, grezzo, non compromissorio come è quello di Cèline resta solo il rifugio nella follia dei suoi libri e in una insofferenza estrema verso quel mondo. Come tutti i pensatori di destra crede nella necessità di una catarsi (spesso violenta), che ha lo scopo di spazzare via quel grigiore infinito, nemico di ogni grande scrittura. Ma, e qui io colloco, per rispondere alla tua domanda, la sua grandezza “di destra”, senza che la catarsi implichi una redenzione. Non c’è nessuna redenzione, non è nemmeno pensabile la redenzione nel mondo di Bardamu nel Viaggio al termine della notte, anzi, non termina nemmeno la notte, mai. Perché un’Europa che ha fatto quello che ha fatto in Africa, per esempio, rende impossibile anche la sola idea di redenzione. E sul Colonialismo, è amaro dirlo da progressisti, ma temo sia così, sono stati i conservatori, per non dire i reazionari, a dare le analisi più spietate, pensiamo al Congo di Joseph Conrad… solo una profonda mancanza di slanci ideali progressivi ha permesso di guardare con spaventosa lucidità a quello che succedeva nelle colonie, al modo mostruoso in cui l’essere umano occidentale ha trasformato se stesso… per questo, come accade a Kurtz in Cuore di tenebra, l’unica strada resta la follia. “L’orrore, l’orrore”, ripete anche Marlon Brando in Apocalypse Now.

E dunque la follia è il terreno di coltura del genio di Céline, la sua arma contro tutto e tutti, credo che il suo essere di destra o antisemita (non giustifico, provo a immaginare) nasca innanzitutto come una reazione a un mondo, che era la Francia nel suo caso, che appariva del tutto inadeguato a contenere la sua letteratura, un mondo così compreso nell’aggiustare, nel giustificare, nello smorzare da dovergli apparire del tutto e totalmente insopportabile (così come in Italia appariva insopportabile Giolitti, insomma), ma in Francia il senso della grandeur appartiene anche a chi contesta, e così, per fortuna, Céline ha scelto di non porre limiti alla sua scrittura, se non la scrittura stessa. In quel mondo era di destra essere assoluti, rifiutare i compromessi e pagare il prezzo di tutto ciò. Era di destra usare la letteratura al massimo della propria crudeltà (nel senso tecnico, crudeltà della scrittura, non solo dei fatti raccontati, e per questo non credo che Houellebecq stia su questo piano), era di destra rinunciare a una moralità, cioè essere amorale, come la ricerca della perfezione letteraria richiede quasi sempre. È come se non ci fosse mai stata alcuna alternativa, perché lo scrittore non voleva compromessi (e infatti ha ricoperto di insulti fino alla fine l’editore Gallimard che pure lo ha portato nell’Olimpo della cultura francese), neppure quando avrebbero potuto fargli comodo.

Non so se tutte le perle letterarie transalpine sono venute da questo humus di destra, che è lo stesso che porta le banlieu a votare per il Fronte Nazionale, ma con frequenze più basse e istinti che guardano alla sopravvivenza e a un’idea di appartenenza, mentre un Céline guardava prima di tutto all’estrema follia dell’estrema scrittura. So però che c’era in lui una libertà radicale che agli scrittori più integrati (anche e forse soprattutto nella grande stagione degli Anni Sessanta) non era concessa per via della militanza o cose simili. C’era in lui un’ossessione che ricorda quella degli scrittori nazisti di Bolaño, e che, unita al suo talento assoluto, ha portato ai risultati che leggiamo ancora oggi. Che sono risultati sporchi, brutti e cattivi, ma in un universo amorale e “puro”, come era il suo, devoto alla purezza della scrittura e solo a quella, questi sono aggettivi che perdono di senso. Forse il cinema del primo Godard potrebbe essere in qualche modo un paragone sensato, ma questo non è davvero il mio campo.

Non so se ho risposto alla tua domanda, ma in ogni caso ti abbraccio
Leo