19 luglio 2007

Metti una sera i Pet Shop Boys

Quando andavo al liceo avrei dato un dito per assitere dal vivo a un concerto dei Pet Shop Boys. Con, grosso modo, 20 anni di ritardo ieri sera ce l’ho fatta. Tra le centinaia di tipi un po’ strani in piedi sulle sedie di Villa Arconati per l’unico show della band londinese in Italia, c’ero anche io. In sala mi aspettavo di trovare più “mod”, con i loro occhiali di celluloide e le camice strette. Qualcuno a dire la verità c’era, insieme pure a giovani che non avrebbero certo sfigurato nella Factory di Andy Warhol. Ma il resto del pubblico era perlopiù gente “normale”, con qualche – sebbene non frequente - scivolata pure nel modello banalotto del muscoloso-con-barbetta-rasata-sottilissima. Gasp.

Ma una volta spente le luci – su una struttura, bisogna dirlo, per quanto bellissima come scenografia e tutto il resto non adatta a un concerto di questo tipo: da due terzi dei settori era impossibile vedere e bisognava arrangiarsi in altre maniere... – eccoli qui, nella loro luccicante sonorità, i mitici ragazzi del negozio di piccoli animali. Ve lo confesso: quando è partita “Left to my own devices”, primo brano in scaletta, mi sono emozionato. Neil Tennant, classe 1954, vuol dire oggi 53enne, e Chris Lowe, di cinque anni più giovane, si sono presentati sul palco rispettivamente con marsina e cilindro il primo e incredibile felpa giallo fosforescente con cappuccio il secondo. Quest’ultimo capo era pure in vendita nello shop ufficiale: mi ha trattenuto dal comprarlo solo il fatto che costasse 60 euri. Che fosse pressoché impossibile da indossare in qualunque altra situazione della vita non mi è neppure passato per l’anticamera del cervello.

Uno schermo mobile e molto optical fa da sfondo allo show dei due Psb, che ormai ammiccano con grande stile all’arte contemporanea, quasi da sembrare due novelli Gilbert&George. E le suggestioni di Rothko e di Beckett si fondono bene con i brani più famosi della band, da “Always on my mind” a “Domino dancing”, passando per la straordinaria “Rent” e per le mitiche “Suburbia” e “West end girl”. Grandissimi. Anche nel contaminarsi con un gruppo di musicisti afro, che oltre a una presenza scenica di forza latinoamericana, regalano al pubblico anche una versione inedita e low-tech di “So Hard”. L’apoteosi però è finale, con la doppietta che vale il biglietto: “It’s a sin” e, di seguito, anzi in crescendo, “Go West”. Folla impazzita, Tennant – grigio di capelli ma con la stessa voce di 20 anni fa – che gigioneggia col suo cappotto a coda e Lowe sempre superbamente impassibile. Io c'ero.

Per quanto forse passati di moda, i Pet Shop Boys restano una pietra miliare per un certo tipo di musica, che riesce ancora a creare sonorità dance, senza però rinunciare all'armonia. E contaminando le discipline artistiche ci mandano a casa con la gradevole sensazione, dopo tanto ballare e cantare, di aver preso parte a un’esperienza che è, a tutti gli effetti, cultura.

18 luglio 2007

La piscine, la dimanche

La morsicata di una zanzara impertinente
Ti ha punteggiato il corpo
Stretto nell’euforia domenicale e collettiva
Dell’estate di provincia
E il tuo sorridere si mescolava
Al luccichio di slip argentei
Al tramestio segreto dei giochi dei bambini
All’orizzonte cremoso di una giornata
Che abbiam tentato di prolungare

Avrebbe voluto chiederle
Mi passi il sale per favore
Soltanto per sentire ancora nella nuca
Quel brivido d’intimità infantile
Che fosse scudo a tutto ciò che non sapeva
Ma lei, sfuggendo alle regole del gioco,
lo sorprendeva con una bracciata
a tradimento
ed una gara che già era incominciata

11 luglio 2007

Un giovane Holden postmoderno

Un ragazzo del Wyoming parte per arruolarsi nell’esercito e finisce coinvolto in una serie di eventi incredibili che lo porteranno fino a essere accusato di terrorismo e recluso a Guantanamo, prima che qualcosa di molto simile al “deus ex machina” del teatro greco classico arrivi a regalare un ultimo colpo di scena. Molto in breve è questa la storia che ci racconta “Callisto”, romanzo scoppiettante firmato dal misterioso autore Torsten Krol, che viene pubblicato in questi giorni in Italia da Isbn edizioni. Un libro inconsueto, potente e magnetico, costruito attorno al suo protagonista, Odell Deefus, un ragazzone che viene dalla periferia degli Usa, non è istruito e guarda al mondo con un’ingenuità disarmante. Insomma, un personaggio difficile da dimenticare e che sembra la versione aggiornata dell’Holden Caulfield di Salinger.

Come il suo illustre predecessore, anche Odell deve in qualche modo cercare di farsi largo nel caos del mondo, ma l’universo di cui si occupa Krol è quello impazzito e paranoide degli Stati Uniti del dopo 11 settembre, un Paese spaventato nel quale si muovono presunti terroristi, agenti corrotti, predicatori televisivi, spacciatori e misteriosi uomini della Sicurezza nazionale. Il tutto sotto una cappa di controllo tecnologico e di esasperata paranoia che fa pensare a Don Delillo e, ancor di più, a Thomas Pynchon. Un autore che possiamo accostare a Krol anche per la scelta di invisibilità: l’autore di “Callisto” vive infatti nell’interno selvaggio dell’Australia e comunica solo via e-mail.

Una scelta di solitudine che non sembra però danneggiare la fantasia di Torsten Krol, che nelle 400 pagine del romanzo immagina situazioni rocambolesche, talvolta al limite del ridicolo, ma che trovano una loro giustificazione nella personalità semplice e universale di Odell. Che se anche non sa parlare molto bene – e Krol è straordinario nel creare una lingua su misura per lui, rendendo terribilmente complicato il lavoro del traduttore Francesco Pacifico – riesce sempre a riportare la vicenda su un piano più umano. “Succedevano troppe cose – dice a un certo punto il protagonista – e tenere dietro a tutto quanto stava diventando molto difficile. Io cosa volevo, una vita semplice, io, Lorraine e un paio di figli in questa casa qui che è perfetta per allevare bambini non c’è praticamente traffico per strada è molto sicuro per i bambini”.

Nella trama abnorme, che serve a Krol anche per creare una satira pungente degli Stati Uniti, si intrecciano molti dei temi d’attualità più scottanti: oltre al terrorismo, il problema del dialogo con il diverso: i personaggi di “Callisto” – che è il nome della contea dove si svolge il romanzo – credono che bin Laden si chiami Sammy e danno per scontato il parallelismo musulmano-terrorista. E poi le congreghe di cristiani rinati che svolgono un ruolo ambiguo, i metodi poco ortodossi della polizia, i centri di detenzione segreta, gli intrighi per spingere un candidato alla Casa Bianca, le misteriosi propaggini di un potere che sembra vedere e sapere tutto. L’ingenuità ottusa di Odell, che stravede per Condoleezza Rice tanto da tenere una sua foto nel passaporto, fatica a trovare un suo spazio in questo mondo impazzito. “Penso che sei caduto dal cielo l’altro ieri – gli dice Lorraine, la sbrigativa e losca ragazza di cui Odell si innamora – Nessuno si comporta come dovrebbe comportarsi. Né i politici che ingrassano con i soldi dei lobbysti, né i predicatori televisivi a caccia di donne, né gli sbirri e neppure io, per questo non mi lamento come dovrei”.

Non si lamenta neppure Odell, nonostante l’incredibile serie di sventure che gli capitano. E nel suo essere in qualche modo vicino al “buon selvaggio” di Rousseau forse possiamo trovare una possibile speranza per il futuro. In un mondo falso e violento, un uomo di un metro e novanta che si commuove leggendo sempre lo stesso libro per ragazzi è un patrimonio da tutelare. Così come il talento di Krol.

02 luglio 2007

Le braccia forti di Phil

“Ciò che fa grande una storia è l’elemento umano”. Phil LaMarche, 31enne scrittore statunitense che debutta in Italia con il suo primo romanzo “American Youth – Un omicidio involontario” (Bompiani), ha le idee chiare su ciò a cui deve puntare la letteratura: descrivere la condizione umana. Timido e pacato, ma con braccia forti - nella tradizione dei più solidi scrittori dell’America rurale – Phil LaMarche, a Milano per il lancio del suo libro, ha scritto un romanzo di formazione d’impianto classico, che però prova a fare luce su alcuni aspetti controversi della realtà americana come la diffusione delle armi e le bande giovanili politicizzate. “American Youth” è infatti il nome di un’associazione di giovani conservatori che avvicinano il protagonista del romanzo, l’adolescente Ted LeClare, dopo che questi viene messo sotto inchiesta per l’omicidio di un coetaneo, ferito a morte da un colpo partito dal fucile del padre di Ted, seppur sparato dal fratello della vittima. Ma su Ted pesa il sospetto di avere mostrato l’arma ai due amici e di avere caricato il proiettile fatale. Nel periodo necessario per lo svolgimento delle indagini di polizia il ragazzi attraverserà la propria linea d’ombra e, non senza sofferenze, arriverà a diventare più maturo e consapevole.

Le recenti stragi nei campus universitari degli Stati Uniti hanno portato una volta di più sotto i riflettori della cronaca il tema del possesso delle armi. Nel romanzo di LaMarche però emerge anche un aspetto di cui in Europa si sa poco, ossia il forte legame che unisce molta gente comune, non dei fanatici estremisti, alle proprie armi. “Quando mio padre ha lasciato casa nostra per trasferirsi per lavoro – ha raccontato LaMarche – mi ha messo un fucile sotto il letto e mi ha detto di usarlo nel caso la nostra famiglia fosse stata minacciata. Vivevamo soli in una casa di campagna e l’arma rappresentava una forma di protezione”. Dalle pagine del romanzo, poi, emergono altri aspetti di cui dall’altro capo dell’Atlantico forse si parla poco, come il senso di legame con il passato che le armi trasmettono. “C’è un’idea di tradizione – ha aggiunto LaMarche – quando Ted prende in mano il fucile del nonno e sente di avvicinarsi alle proprie radici”. Un altro tema d’attualità nel romanzo sono i gruppi giovanili ultra-conservatori che si muovono tra richiami allo spirito originario degli Stati Uniti e atti di vandalismo. “Questi gruppi – ci ha detto LaMarche – sono comunque delle piccole minoranze e nel mio romanzo volevo mettere in evidenza il loro essere in fondo impotenti, vorrebbero essere violenti ma non sono abbastanza capaci per riuscirci davvero”.

Accostato dalla critica a Cormac McCarthy, LaMarche si avvicina all’illustre collega nella capacità di raccontare un mondo fatto per gli adulti che è però popolato di ragazzini. “McCarthy – dice il romanziere – ha uno stile più forte e accattivante del mio, e al momento scrive cose ideologicamente più interessanti. Quando leggo i suoi libri, o quelli di Hemingway, Faulkner o Flannery O’Connor, cerco di prendere qualcosa da loro e di rielaboralo a modo mio. In fondo – ha ammesso LaMarche – credo che sia vero l’aforisma che dice che i libri sono fatti di altri libri”. Ma accanto alle suggestioni dei grandi autori il romanzo nasce anche dall’esperienza diretta dello scrittore che, da buon docente di scrittura creativa, ha ben chiari i processi che portano alla creazione di personaggi attendibili: “Ho attinto dalla mia esperienza personale – ha spiegato LaMarche – ma poi ho dovuto permettere ai personaggi di diventare qualcosa di diverso e indipendente. Ho alzato il volume delle mie emozioni per dare maggiore drammaticità alla storia. In pratica ho esteso la mia vita”.