27 dicembre 2011

Jennifer Egan, un Pulitzer memorabile

Il Pulitzer, ben più del Nobel, è un premio che molto spesso viene assegnato a opere di grande qualità. Basti pensare, negli ultimi anni, agli straordinari Pastorale americana di Philip Roth (1998) , Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon (2001) e Middlesex di Jeffrey Eugenides (2003). Resta un mistero come Richard Russo nel 2002 abbia potuto battere il Franzen de Le correzioni, ma forse era necessario per evitare che lo schivo Jonathan venisse immediatamente beatificato. Non fa eccezione, nel panorama delle scelte azzeccate, il premio 2011, assegnato allo splendido romanzo di Jennifer Egan Il tempo è un bastardo, pubblicato in Italia da Minimum Fax sotto l’appassionata supervisione di Martina Testa.

Il libro è, apparentemente, composto di racconti distinti, uniti dalle storie de personaggi che vi ricorrono. Il tempo – vero cuore pulsante di tutto il romanzo e delle riflessioni della Egan – si muove attraverso le pagine con andamento quantistico, restituendo quel meraviglioso senso di disconnessione (e al tempo stesso coerenza assoluta, quasi mistica) che il pubblico globale ha imparato a conoscere dai tempi di Pulp Fiction (e una piccola citazione per Babel di Alejandro Gonzalez Inarritu è doverosa). Le pagine di Jennifer Egan, però, hanno un potere evocativo e sentimentale che le rende, se possibile, ancora più vivide rispetto al cinema e hanno la forza letteraria di restituire quel senso del tempo che si potrebbe definire tolstojano (e che il grande russo ha mirabilmente reso attraverso i suoi romanzi fluviali). Il punto, però, è che Egan restituisce questa sensazione sfruttando la brevità, e i suoi flashforward (si veda il capitolo forse in assoluto più bello, ma è difficile dirlo con sicurezza, che è il numero 4, Safari) sono come un treno in piena corsa che travolge il lettore e lo lascia completamente in balia della magia del romanzo. E con la sensazione che il tempo sia in fondo il genio ultimo della nostra vita, la vera grandezza incommensurabile con cui la misura dell’umano deve confrontarsi e, come ci ricorda il titolo, essere sempre sconfitto, almeno apparentemente. Ma quando un romanzo riesce ad analizzarlo in profondità (e leggerezza), come fa Egan, ecco che, almeno per un poco, si ha la sensazione che in qualche modo la sconfitta possa essere ribaltata in una, seppur parziale, vittoria.

Il romanzo ruota intorno a due personaggi principali: l’ex musicista e discografico di successo Bennie Salazar e la sua assistente Sasha. Accanto a loro si muove una pletora di altri personaggi che sono la vera ricchezza del libro, anche per le situazioni imprevedibili che li contraddistinguono. “Io stessa – ha detto Jennifer Egan a Martina Testa – non ho idea di cosa succederà ai miei personaggi mentre ne scrivo. Cerco le mosse istintive, spiazzanti: quelle che non ti aspetti. E’ questo che mi diverte, quando scrivo. Tutto il mio processo di scrittura mira a rendere possibili queste sorprese”. E Cathleen Schine è molto acuta quando nota che si tratta di “una commovente saga umanistica, un’enorme epopea ottocentesca magistralmente travestita da ironico pastiche postmoderno”. E quando una scrittrice riesce a commuoverci anche con una serie di grafici (capitolo 12, ambientato nel futuro, guardatelo), capiamo che siamo di fronte a qualcosa che ha una forza fuori dal comune, ed Egan dimostra di avere capito e digerito, con condimento di ironia, la lezione della grande letteratura contemporanea. Così questo 2011 si chiude con un romanzo che entra di diritto tra le cose migliori apparse in Italia in tutto l’anno.

03 dicembre 2011

Il Re Pallido: se questo non è un capolavoro

Non credete a quello che vi possono dire su David Foster Wallace, tanto i suoi fanatici ammiratori quanto i suoi tenaci detrattori (tra i più recenti c'è il pur un tempo leggendario Bret Easton Ellis). Se volete credere a qualcosa su di lui c'è un solo modo: leggerlo. Con attenzione, a volte con fatica, pressoché sempre con una resa emotiva ed estetica fuori dal comune. La sensazione prendendo in mano - e affondandoci - Il Re pallido, l'attesissimo romanzo postumo che Einaudi ha pubblicato nella collana Stile Libero (perché non un Supercorallo, ci viene da chiedere) è quella di essere davanti alla manifestazione della stupefacente maturità di uno scrittore. Una manifestazione talmente clamorosa che DFW, perennemente convinto di non essere abbastanza ben attrezzato (come ha sottolineato Sandro Veronesi in uno splendido pezzo su La Repubblica), ha dovuto camuffare sotto un'apparenza di grigiore e noia. Scegliendo come ambientazione l'ufficio dell'Agenzia delle entrate di Peoria, Illinois e come tema principale del libro la noia. Ma il camuffamento resiste solo all'approccio superficiale al romanzo, come se fosse una sovracoperta ingannatrice, una volta levata la quale ci si trova immersi fino al collo (e talvolta anche di più, con il rischio concreto di affogare) dentro il talento scomodo di quello che sempre più appare lo scrittore più importante - e per questo anche solitario, pur nella folla di chi da lui ha tratto ispirazione - degli ultimi anni.

Parlare ancora del suo suicidio non è neppure interessante, ma non si può fare a meno di percepire, in modo epidermico, quasi fosse un'orticaria, il senso di perdita che la scelta di Foster Wallace ha lasciato nei lettori, una perdita che più che umana è letteraria, figlia della poderosa padronanza della materia che anche un romanzo incompiuto e frammentario come Il Re pallido riesce a trasmettere con la stessa evidenza - solo apparentemente offuscata - delle grandi tele di Mark Rothko. E i temi di cui si parla sono universali, sebbene la fotografia scattata da DFW, a una risoluzione inimmaginabile, da esprimere con le potenze di 10, sia sostanzialmente quella dell'America contemporanea, né più né meno. Come aveva fatto, mirabilmente, già nella sua prima grande raccolta di racconti (La ragazza dai capelli strani), David Foster Wallace anche qui applica il suo microscopio elettronico morale - nel senso più ampio e neutro del termine - alla società americana, arrivando a un iperrealismo che confina pericolosamente con la visionarietà. Qui sta, in buona sostanza, la grandezza del libro, che - e questo è il grande merito dell'editor Michael Pietsch che lo ha assemblato partendo dalle circa tremila pagine che DFW aveva lasciato ("nascoste in piena luce" verrebbe da dire parafrasando lo stesso scrittore) sul proprio tavolo di lavoro, in garage (e non è questo il luogo per ricordare una volta di più quanta della creatività americana è nata in un garage...) - pur nella sua struttura sconnessa si contraddistingue anche per un grande sostanziale compattezza nella forma romanzesca.

 Il Re pallido, cronaca senza una vera trama della vita di un gruppo di impiegati del fisco tra cui anche un David Wallace che asserisce di essere l'autore del libro, è un oggetto distante, abbacinante, affettuoso. Un nuovo, per usare la perfetta espressione di Zadie Smith, dono difficile di DFW. Ma anche un'esperienza letteraria che ci restituisce uno stupore (e una paura, una rabbia, un divertimento...) che tanti romanzi non sembrano più in grado di suscitare, così intenti a focalizzarsi, di volta in volta, su uno specifico obiettivo (intrattenere, scandalizzare, vendere...). Qui siamo invece nel cuore del Maelstrom di un caos solo apparentemente calmo, in realtà del tutto incandescente (ricordate Rothko, poco sopra?) e intimamente connesso alla vita di ogni lettore. Gli stravaganti impiegati del fisco siamo noi, lo siamo terribilmente, lo siamo irrimediabilmente. E il primo di tutti è proprio quel David Wallace dalla faccia butterata che mai si pone fuori da questo girone grottesco-infernale, che mai giudica, che mai dimentica che solo la com-passione è il segreto della nostra sfiancata umanità.

23 novembre 2011

L'ultimo Baricco, un romanzo fatto per piacere

Ad Alessandro Baricco tutti coloro che si occupano di comunicazione sulla cultura sono debitori per quello che ha fatto portando in televisione i libri con l'indimenticabile stile della sua trasmissione Pickwick. Un esperimento di divulgazione di alto livello che fu capace di conquistare molti non lettori e che resta, a distanza di anni, un modello ancora molto attuale di come si può parlare di letteratura anche sul piccolo schermo (tanto che perfino alla prima riunione di TQ si è espressamente citato questo modello, salvo poi lasciarlo cadere al momento delle scelte, per così dire, operative del gruppo). Oggi Baricco pubblica un altro romanzo, Mr. Gwyn, che Feltrinelli manda in libreria con una bella copertina non plastificata e che ha subito scalato la classifica dei bestseller.

La storia è, in buona sostanza, quella di uno scrittore di discreto successo, Jasper Gwyn da cui il titolo, che un giorno decide, insieme ad altre 51 cose, di smettere di scrivere, nella costernazione del suo agente letterario e, a ben vedere, suo unico amico. In sostituzione dei libri, Mr. Gwyn decide di scrivere "ritratti", ispirato proprio dai più classici dipinti, questa volta però fatti di parole. E per farlo allestirà un set ad hoc, con tanto di lampadine "fatte a mano", e musica di fondo creata da un grande compositore. L'esito di questi lunghe e complesse sedute di posa, i ritratti veri e propri, nel romanzo non li leggeremo mai, e questo è uno dei principali pregi del libro. Che però per molti altri aspetti sembra essere, nonostante l'indubbia bravura di Baricco nel creare situazioni letterarie (o talmente ben fatte da sembrare letterarie), un prodotto fatto proprio per piacere, con molti spunti affascinanti e molti, forse troppi, personaggi artefatti. Non si fraintenda: la lettura è piacevole e coinvolgente, ma se solo si aguzza un po' la vista non si può fare a meno di notare che la stucchevolezza è spesso dietro l'angolo. Come se per essere un Bartleby, ossia uno che rinuncia senza un particolare motivo più o meno a tutto, si debba per forza essere stereotipati o radicalmente chic...

In questo romanzo, ma un po' in tutto Baricco, le cose "vere" riescono ad accadere solo in contesti particolarmente sofisticati ed elitari (lo studio di Mr. Gwyn, le sue lampadine "infantili", la sua costosissima musica di fondo). Come se lo scrittore fosse clamorosamente sfiduciato verso l'umanità, ma con una sfiducia molto snobistica. Pensiamo invece, per esempio, a David Foster Wallace e al suo postumo Il Re pallido, uscito pressoché contemporaneamente a Mr. Gwyn: qui avviene esattamente l'opposto, ossia i personaggi arrivano a scoprire quelle che potremmo definire "verità" - sempre molto provvisorie, com'è giusto che sia - proprio attraverso i contesti più banali e meno letterari che ci si possa immaginare, come per esempio l'ufficio dell'Agenzia delle entrate di Peoria, Illinois. E qui pare di trovare una certa fiducia, magari volontaristica, nelle possibilità delle persone, anche le meno interessanti. Alla fine Mr. Gwyn, attraverso il bellissimo personaggio di Rebecca - che riesce a essere difficile da dimenticare nonostante il fatto che Baricco continui a sottolineare che è "grassa", come se questo fosse un aspetto morale e inalienabile - ci fa capire che noi tutti siamo delle storie, articolate, disperse, uniche. Tutto molto bello e molto vero, anche se il mistero di una storia ben confezionata, a volte, risiede anche nei suoi non detti e nei suoi non risolti.

04 ottobre 2011

Perugia, un viaggio nella (ir)realtà - Cronache da un processo

C'è vento, come pare accada spesso, a Perugia la sera prima della camera di consiglio della Corte che dovrà pronunciare la sentenza di secondo grado sull'omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese assassinata il 1 novembre del 2007. C'è vento, e per le strade ondivaghe della città umbra si muove una gioventù diffusa, che sembra tenere a freno a fatica la propria energia. Sarà la suggestione del momento, saranno tutte le storie torbide che qualcuno - ma chi mi viene da chiedermi, fermo davanti alla fontana più famosa dalla città, sinistramente circondata da una cancellata che è una minaccia da film gotico - ci racconta dal giorno dopo quel delitto. Una storia fatta, come tutti noi vogliamo, di sesso sfrenato, pulsioni oscure e, non potendo più fare a meno di gialli e serie tv sul crimine, un omicidio e una - possibilmente bella e giovane - vittima. Eppure, qualcosa di sotterraneo vibra, ed emette segnali inquietanti, che viaggiano però al di fuori - al di sotto, per meglio dire - dello spettro visibile. Qualcosa che assomiglia a una catastrofe imminente, che non ci sarà - perché anche la catastrofe deve essere narrazione e non c'è nulla di più definitivamente anti-narrativo dell'apocalisse… (perché la guerra atomica si è radicata così tanto nell'immaginario collettivo di almeno due generazioni? Perché non è successa, altrimenti non ci sarebbe stato più neppure l'immaginario collettivo…) - ma che incombe, come nuvole bluastre in basso nel cielo, sul centro storico di una delle tante città impossibili dell'Italia eternamente votata alla provincialità.


Di notte, nel mio hotel, i pavimenti scricchiolano, e forse si agitano anche i materassi, un piano più sopra, prima che cali un silenzio troppo definitivo per essere rassicurante. Poi arriva l'alba, che porta con sé il ruggito della massa critica dei media di tutto il mondo, ammassati fuori da un tribunale nascosto dentro la pietra medievale. E proprio nel contrasto tra il nostro essere così riconoscibili e uniformemente up-to-date (stesse camicie, stessi blackberry, stessi MacBook con chiavetta per navigare a banda larga, certo poi i big americani stanno tra gradini sopra, ma partono, pure loro, da questa base) e l'assurdità atemporale del contesto nasce quel senso di distonia liquida che, mi rendo improvvisamente conto, è la vera qualità - la forma direbbero gli aristotelici - di tutta questa storia. Noi questa mattina non siamo qui… e questo è l'unico modo per esserci, per raccontare quello che stiamo per vedere, per non pensare che tutto, ma proprio tutto, sia un circo mendace del quale io per primo sono un, per quanto irrilevante, tassello.


Dentro, nelle viscere del venerando palazzo, si estende, come un tumore, l'Aula. E sotto il muro parossistico delle telecamere e dei loro poderosi cavalletti, accanto all'incredibile leggerezza con cui i colleghi anziani attraversano - abituati da anni non c'è dubbio, ma quanto insopportabile vezzo da mestieranti - l'orrore di cui si discute (sicuramente l'unico modo per sopravviverci, in quella palude), accanto a tutto questo c'è una gabbia e da quelle sbarre - metafora scadente mi rendo conto, ma è andata così - osservo per la prima volta di persona, o meglio, quasi sempre mediato dal monitor della telecamera, che non è la stessa cosa - i volti di Amanda Knox e Raffaele Sollecito che attendono di fare l'ultimo appello alla Corte e, soprattutto, la sentenza. "Hanno paura" penso. Ed è l'unica cosa che riesco a focalizzare, mentre cerco di non ascoltare quella corda morbosa che mi riecheggia nell'orecchio interno e chi mi vorrebbe spingere a guardarli come si guarda una celebrità sportiva, come si guarda un sito porno, come si guarda ogni tanto la nostra immagine nello specchio dell'ambizione alla fama, tanto più reale quanto modesta. "Hanno paura" penso, ma quando la ragazza per un attimo si volta e guarda in camera, alla pietà umana subentra il serpente, biblico e assurdo, del compiacimento professionale. Sono lì per quello, mi pagano per quello. Ma in un cantone della coscienza il disagio mi resta addosso, come un miasma sottile che molte ore dopo mi laverò, con foga leggermente maggiore del consueto, sotto la doccia.


Il resto è cronaca, dubito che diventerà storia, ma chi può dirlo. E quella piazza di curiosi che ondeggiava in attesa della sentenza - con una rabbia educatamente sepolta sotto l'indifferenza di prassi - quella movimentazione di individui alla ricerca dell'affermazione della propria esistenza (in questo li guardavo con affetto postmoderno, fingendomi forte della mia convinzione che in fondo - per dirla un po' alla Hume, un po' alla Sebald - noi raramente esistiamo, di certo non stasera) brillava della stessa alta definizione dei telefilm in digitale, tanto tecnicamente perfetti da far passare in secondo piano il contenuto. Esattamente in linea con ciò che tutto il mondo collegato in diretta tv si aspettava da noi, qui e ora in questa piazza. E anche i "vergogna, vergogna", diligentemente gridati al momento giusto e altrettanto diligentemente filmati e spediti in redazione in tempo quasi reale, somigliano più alla battuta prevista dal copione che a rabbioso moto della piazza. Certo, la storia insegna che la piazza la ghigliottina (altrui ovviamente) la vuole sempre veder calare sulla testa del potente (in questo caso la celebrità, perché non esiste altra definizione) di turno. Certo la nostra Storia - con la maiuscola - sarebbe stata diversa se un'altra folla avesse gridato "Gesù!" e non "Barabba!" (forse sarebbe stata anche "migliore" dice l'iconoclasta infantile che alberga nel mio cervello). Ma in quel disegno provvidenziale la folla doveva gridare il nome del ladrone, era scritto. Così, mutatis mutandis, questa sera la piazza perugina doveva girare "vergogna!", era scritto. Stavolta non in un libro sacro, ma nella comunque potente mitologia dell'essere-per-lo-schermo contemporaneo (la definizione è semplicistica, in realtà siamo andati oltre Camus, e il rapporto si è fatto più articolato e problematico, con momenti di reciprocità meno schematici). E quella furia sotterranea che ho intravisto la sera prima - e allora mi aveva spaventato - adesso - camicia stropicciata, badge pendulo, occhiaie infinite, fermo in mezzo ai resti di una festa pagana - mi pare essere l'unica cosa vera, insieme al cavo di rete che mi ha permesso di allestire un proto-studio nella mia camera d'albergo, che ho incontrato in questi due (o forse infiniti) giorni a Perugia.

12 settembre 2011

David Foster Wallace e noi (tre anni dopo)

di Leonardo Merlini

1. The Funeral

“La Storia è sempre prima di tutto una scelta e i limiti di questa scelta”[1], scriveva Roland Barthes qualche decennio fa pensando al rapporto tra la letteratura e il tempo in cui questa aveva la ventura di manifestarsi. Oggi, a tre anni da quel 12 settembre del 2008 che è stato l’ultimo giorno della vita di David Foster Wallace, viene da domandarsi quali siano stati i limiti della sua scelta, apparentemente definitiva e, in un certo qual modo, totalmente libera, pur nella sua complessità tragica[2]. Usare la parola infinito sarebbe troppo semplice e bibliografico, e allora possiamo pensare, come fa Sandro Veronesi[3] che se avesse avuto una seconda chance, David “non lo avrebbe fatto”, oppure che negli infiniti mondi postulati dal realismo modale del filosofo David Lewis - tutti mondi possibili esistono concretamente, anche se ciascun mondo è del tutto impossibilitato dal comunicare in qualsivoglia mondo con gli altri - ce ne sia uno dove DFW non si è suicidato, magari decidendo all’ultimo momento di scendere da quel drammatico gradino (o sedia, o tavolo che fosse, non lo so, non mi interessa saperlo), come cantava Sergio Caputo in un brano ingiustamente sottovalutato[4], e perciò ha continuato a scrivere romanzi e racconti, e ha lasciato The Pale King ancora ad attendere in garage, chissà per quanti anni. E quella sera sua moglie Karen Essex lo ha trovato stranamente sorridente in poltrona con i i suoi cani vicino, mentre pochi minuti dopo una consegna a domicilio ha portato in casa Wallace una gustosa cena orientale ancora ben calda...

Se crediamo a Lewis[5] oggi questo anniversario assume forse una leggera sfumatura meno triste, pur nell’incomunicabilità di quella speranza statistica, peraltro ambivalente[6]. Ma se non vogliamo perderci in una ricerca onanistica della consolazione a qualunque prezzo, non possiamo che prendere atto di una realtà del nostro qui e ora, della nostra assai limitata capacità di sfruttare le potenzialità del cervello umano, dell’unica opportunità che, allo stato attuale delle nostre capacità cognitive e al netto dalle speranze di carattere religioso: e la realtà è che David Foster Wallace, uno scrittore di genio, è morto e quello che oggi possiamo fare, stringi stringi, non è altro che una riedizione, ovviamente meno spettacolare - sia detto con assoluto rispetto - del funerale realmente andato in scena poco meno di tre anni orsono[7]. Ma questo dovrebbe essere un funerale alla “Back To Black” di Amy Winehouse, o meglio, un funerale al quale tutti i partecipanti arrivino leggermente ubriachi, pur nella sincera serietà del loro dolore. Un funerale che abbia la stessa forza evocativa di quello - metaforico e indimenticabile - che Diego Armando Maradona ha fatto a se stesso una sera su un palco circondato dagli amici e che Emir Kusturica ha così indelebilmente fissato con la sua cinepresa. Un Diego grasso e con gli occhi tristi canta, circondato da altri ex calciatori e da diversi amici La Mano de Dios, una canzone meravigliosamente subdola che celebra lui stesso, davanti alla moglie e alle figlie con gli occhi lucidi. Finisce con un lungo e commovente collettivo familiare sul palco, nel segno di un mito che non muore e di un uomo che dice, festosamente ma inesorabilmente addio a ciò che era stato[8]. Ecco, questo spirito metà argentino e metà balcanico - due versanti egualmente tragici e propensi al melodramma - dovrebbe sostenere il nuovo, ennesimo, funerale di David, prima che tutto si trasformi in un ballo di fantasmi ubriachi su un’isola che certamente è esistita ma di cui, col tempo, si sono perse le mappe[9].

2. Losing My Religion

David Foster Wallace è stato anche un membro di quelle che Michael Stipe e Douglas Coupland[10] hanno definito la prima generazione cresciuta senza religione. E paradossalmente, o forse no se siamo sufficientemente autistici da ricordare cosa diceva Voltaire[11], proprio lui è divenuto oggetto di culto per quella vera e propria setta – gli Howling Fantods – che sono i suoi fan più accaniti, capaci di rispondere a molte domande su DFW con lunghe citazioni, spesso in lingua originale, tratte da Infinite Jest. A ben guardare, al di là del fanatismo, David era uno scrittore che nelle sue pagine più lontane andava a mettere non un dito, ma un intero pugno, se non tutto il braccio, esattamente nell’angolo più oltraggioso di tutte le domande connesse alla vita umana. E si intendono davvero tutte[12]. Domande che, nel loro indagare apparentemente amorale sull’unica cosa che gli esseri umani fanno più o meno per tutta la vita, ossia tentare di gestire il disagio che la vita stessa ci impone come biada quotidiana – disagio fisico, intellettuale, erotico, professionale… – portano in molti casi a cercare una forma di consolazione vuoi nella religione, vuoi nella letteratura, vuoi in qualsiasi feticcio di cui decidiamo di innamorarci per non essere obbligati ad ascoltare la nostra solitudine. Noi, come diceva il filosofo individualista Max Stirner, unici (e soli) con le nostre proprietà.

E pertanto questo disagio, non è il caso di scomodare Baudelaire o Montale, che pure di questo scrivevano, porta a scelte come il monachesimo di clausura, la militanza in un partito xenofobo, la dipendenza dalle droghe, l’edonismo sfrenato o, e questo era il caso di David Foster Wallace, la malattia mentale. Parole pesanti, parole che sono un tabù irrisolto della nostra società[13], ma che sono state pronunciate da uno dei migliori amici di David, Jonathan Franzen, al termine di un lungo percorso umano e artistico che lo ha portato – per lo meno così racconta lui – ad affrontare il dolore per la morte dell’amico e la rabbia verso un gesto che considera “una vendetta sulle persone che lo amavano”[14]. “Chi lo conobbe in modo fugace o formale – scrive Franzen – prese alla lettera le sue faticose doti di iperintelligenza e saggezza morale”[15]. Ma dietro questa titanica professione di lucidità c’era un uomo che per decenni aveva tirato avanti a psicofarmaci e che, sempre nelle parole dell’autore di Le Correzioni, “per dimostrare una volta per tutte che non meritava davvero di essere amato, doveva tradire nel modo più odioso possibile le persone che lo amavano di più, uccidendosi in casa e trasformandole in testimoni diretti del suo gesto”[16]. E dunque in DFW c’era un moralista, nel senso filosofico della parola, capace di rivolgersi agli studenti con parole indelebili: “La libertà che davvero conta richiede attenzione, e consapevolezza, e disciplina, e sforzo, e la capacità di interessarsi davvero alle altre persone e di sacrificarsi per loro, continuamente, ogni giorno, in una moltitudine di piccoli e poco attraenti modi. Questa è la vera libertà. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la configurazione standard, la ‘corsa di topi’ - la costante e divorante sensazione di aver posseduto e perduto qualcosa di infinito”[17]. Ma accanto ad esso c’era anche una persona depressa capace di escogitare, almeno sentendo Franzen che lo amava, la propria distruzione in modo metodico, per “lasciare le persone che lo amavano e consegnarsi al mondo del romanzo e dei lettori”[18]. Come se leggendo Dante scoprissimo che il tradimento – ossia la colpa che il Vate fiorentino ritiene la più grave di tutte e la cui personificazione è affidata a Giuda, Bruto, Cassio e, infernale apoteosi, a Lucifero in persona – altro non fosse che un’altra manifestazione della somma virtù di fronte al Primo Mobile che irradia di luce divina il paradiso. Sembra non funzionare granché. Ma la complessità è e resta la qualità più insondabile del cervello (ma potete leggere anche del cuore) degli esseri umani.

Perciò anche in un giorno di commemorazioni, in questo anniversario wallaciano per adepti e semplici estimatori, possiamo scegliere a ragion veduta di lasciare fuori dalla porta l’agiografia, che in letteratura è un genere spesso praticato[19] e che con DFW potrebbe venire spontaneo anche a lettori moderatamente scettici. Del resto è lo stesso David a ricordarci, scrivendo di Dostoevskij, che “trasformare qualcuno in un’icona equivale a trasformarlo in un’astrazione, e le astrazioni non sono in grado di avere una comunicazione vitale con i vivi”[20]. Il mio modesto suggerimento è quindi quello di concentrarci invece sulla lezione estetica di David, sulla sua arte, sul suo poderoso tentativo di avvicinarsi a quella Forma che secondo Barthes stava sopra la scrittura, quasi come lo Sfero di Parmenide, così ermetico, decisivo e in fondo irraggiungibile[21]. Come l’America che lui ha raccontato con vera crudeltà animata da sincero affetto e compartecipazione.

3. A Supposedly Fun Place (God Bless America, My Home Sweet Home)

“Il nostro infinito e impossibile percorso verso casa in realtà è già casa”[22]. Lo aveva detto in qualche modo Novalis e lo ha ripetuto Foster Wallace, parlando di Kafka: noi siamo qualcosa, ma anche tutto ciò che ruota intorno a questo qualcosa, “casa” è il posto in cui stiamo, per quanto transitorio – o impossibile, apocalittico, folle, insensato, iperviolento, lontanissimo da noi – ci possa sembrare. Ed è l’America, non quella delle mille luci di Manhattan o della Frisco fighetta[23], bensì quella della National Rifle Association (“Un fucile in ogni casa”, diceva più o meno il suo frontman Charlton Heston, perfetto in questo ruolo dopo Ben Hur), della televisione perennemente accesa a risuonare come un mantra[24], degli uffici e dei focus group dove ci si allena scientificamente alla disumanità, dei mall e della rabbia incontrollabile che tiene costantemente sul filo di un’esplosione violenta le code alla cassa dei supermercati. Questa America che a noi europei fa tanta paura – ma in cosa ci differenziamo? Forse solo nel numero di corsie delle autostrade[25]… - è l’America di David, èd è il panorama che fa da sfondo al suo talento che, sempre noi europei sovraistruiti e sottopagati[26], abbiamo tanto amato, pur nella sua aspra difficoltà. E dunque, per quanto sono convinto che non la amasse, DFW sapeva del suo debito verso di essa e, come dimostra in modo lampante Una cosa divertente che non farò mai più[27], ne ha scritto con un fondo inalienabile di empatia, se proprio non vogliamo dire anche affetto. Naturalmente ben nascosto in piena vista sotto la lucida e spietata crudeltà delle sue parole.

L’America di David emerge, con tutta la sua tragica vacuità, in due racconti a loro modo perfetti, contenuti in quel libro molto fuori dal comune che è La ragazza dai capelli strani[28]. Il primo è Piccoli animali senza espressione, storia della più grande campionessa del quiz televisivo Jeopardy. Un racconto capace di cogliere i gangli del meccanismo[29] che genera e sostiene la televisione più massificata – lo so, non esiste una televisione non massificata, ma di certo ne esistono alcune che sono più massificate di altre (e che Marshall McLuhan mi perdoni) – fino quasi ad arrivare a una sua, della televisione, del prodotto, del programma, capacità autogeneratrice non solo delle dinamiche spettacolari, ma anche di quelle umane e psicologiche dei personaggi che, in teoria, questa televisione dovrebbero farla. Unica eccezione, in questo scenario da fine del mondo morale, la protagonista, Julie, indecifrabile genio del telequiz che buca gli schermi americani e fa impazzire i responsabili della produzione, tra cui la sua compagna Faye. Dov’è l’America, mi chiederete. Ovunque, è nell’aria – come un gas nobile di Primo Levi o come il Sarin diffuso nella metropolitana di Tokyo nel 1995 dalla setta Aum Shinrikyo – e nel modo di bere e tagliarsi i capelli dei personaggi, è nel cielo che fa da sfondo alla scena dell’abbandono di Julie e di suo fratello da parte della madre sul ciglio di una strada. E’ da tutte le parti, e in tutte le parole di David Foster Wallace (tranne che in esse, perlomeno a livello esplicito). “Sei felice da impazzire – dice a un certo punto Julie – ma nello stesso momento in cui ti senti al massimo della completezza, di te non è rimasto molto”.

Il secondo racconto è uno dei più famosi di DFW, Lyndon, e tautologicamente parla proprio del senatore texano divenuto presidente in volo, mentre da Dallas riportavano a Washington la salma di John Fitzgerald Kennedy, assassinato. Un testo mirabolante che fin dall’ouverture mostra di cosa stiamo parlando. “Mi chiamo Lyndon Baines Johnson. Quel cazzo di pavimento che hai sotto i piedi è mio, ragazzo”. Enorme, mostruoso, violento, LBJ è una perfetta metafora di un momento storico – spendere la parola “Vietnam”, così come “contestazione”, non è nemmeno necessario – in cui l’America, scioccata da Lee Oswald, chiunque e qualunque cosa egli fosse e rappresentasse, non trovò più la forza di essere migliore. Ma a raccontarci Johnson è un suo assistente gay, David Boyd, e nel racconto c’è la struggente storia della morte del suo compagno malato di Aids, in un tempo in cui la parola neppure esisteva[30], che trova una strada per avvicinarsi all’uomo che si nascondeva negli enormi stivali o nella poltrona dello Studio Ovale, mostrandoci come anche il peggio, è in fondo semplicemente umano. E non per questo smette di essere peggio. E poi c’è Lady Bird, la signora Johnson, a cui affidare la citazione conclusiva: “David, Lyndon dice sempre che per quanti sforzi faccia non riesce a capire perché le nuove generazioni come la tua vedono tutto quello che c’è di importante nel mondo in termini di amore. Come se potesse spiegare sentimenti che durano anni e anni, quella parola”.

4. I’m Not There (A Space Odyssey)

“C’è stato un tempo in cui, per me – e per molti altri, miei coetanei o giù di lì, - Hemingway era un dio. Ed erano tempi buoni, che ricordo con soddisfazione, senza neppure l’ombra di quell’ironica indulgenza con cui si considerano mode e scalmane giovanili”. Così scriveva Italo Calvino in un bel saggio del 1954, l’anno in cui Ernest Hemingway vinse il premio Nobel per la Letteratura, due anni dopo avere pubblicato il suo romanzo peggiore, Il vecchio e il mare. David Foster Wallace il Nobel non lo vincerà più ormai, e forse non lo avrebbe vinto neppure in una vita di scrittore lunga e prolifica, troppo distante la sua sensibilità da quella dei reali accademici di Svezia. Ma la frase di Calvino potrebbe aiutare noi oggi a fare i primi passi verso quel necessario superamento anche di un vero idolo come DFW, in vista di ulteriori passaggi di crescita e di letteratura. E’ un po’ l’operazione compiuta da Franzen, che riuscendo a scrivere, anche con crudeltà, dell’amico libera se stesso dalla sua ombra ingombrante e si apre a nuove possibilità. Ovviamente senza dimenticare la lezione di David che, ancora una volta, è notevolissima e incistata nella storia della letteratura, per quanto molto spesso ciò possa apparire sorprendente. Ancora Calvino, nella sua lezione americana sull’esattezza ci fa pensare in più di un passaggio a Foster Wallace, ma è nel saggio Cibernetica e fantasmi che si coglie (visionaria la lucidità dello scrittore ligure) quello che sembra essere l’intero significato della parabola artistica di DFW. Scrive Calvino: “Il narratore cominciò a profferire parole non perché gli altri rispondessero altre prevedibili parole, ma per sperimentare fino a che punto le parole potevano combinarsi l’un l’altra, governarsi una dall’altra: per dedurre una spiegazione del mondo (il corsivo è mio) dal filo d’ogni discorso-racconto possibile, dall’arabesco che nomi e verbi, soggetti e predicati disegnavano diramandosi gli uni dagli altri”[31]. Non è, come ha inteso qualche strenuo difensore dell’ortodossia wallaciana, una notazione sull’arte di combinar parole per semplice gusto estetico[32], bensì un elogio del tentativo di cogliere il tutto, di leggere tutta la Biblioteca di Babele di Borges per dedurre quella spiegazione del mondo che, sola, nobilita il nostro viaggio nei libri, nell’esperienza, insomma in quella cosa che, con una certa imprecisione, tendiamo a chiamare realtà.

E lungo questo sentiero ci viene incontro ancora Barthes, illuminante. “Ogni volta che lo scrittore traccia un complesso di parole – scrive il francese – è messa in questione l’esistenza stessa della Letteratura; e ciò che nella pluralità delle sue scritture la modernità mette in luce è l’impasse della propria Storia”[33]. David Foster Wallace è stato il cantore dell’America degli anni Novanta e Duemila, i grandi anni dell’impasse della potenza statunitense, schiacciata tra il sogno di un momento unipolare (e del Nuovo ordine mondiale che ne doveva essere la naturale conseguenza) e la drammaticità del ritorno della paura, sotto forma di aerei che piombavano dentro i grattacieli. In questo contesto, e le parole sono ancora di Barthes, ma aderiscono a DFW come una camicia su misura, “la scrittura è un atto di solidarietà storica”[34]. Così è stato. Una solidarietà tanto esogena quanto endogena, ossia proiettata verso se stesso, verso quel tentativo di salvarsi attraverso la letteratura, e anche il successo e l’affetto del suo pubblico[35], cosa di cui forse si tende a parlare con troppo pudore. “La letteratura – ha detto David in un’intervista – si occupa di cosa voglia dire essere un cazzo di essere umano. Se uno parte […] dalla premessa che negli Stati Uniti di oggi ci siano cose che ci rendono decisamente difficile essere veri esseri umani, allora forse metà del compito della letteratura è spiegare da dove nasce questa difficoltà. Ma l’altra metà è mettere in scena il fatto che nonostante tutto siamo ancora esseri umani”[36].

A proposito di Brevi interviste con uomini schifosi, opera straordinaria e secondo Nicola Lagioia il punto in cui DFW si è spinto più lontano, Zadie Smith – che scrivendo di Foster Wallace ha mostrato come si possa unire un grande cuore e un grande cervello, un po’ come lei stessa dice sapeva fare David, e il cerchio si fa interessante – ha notato che i suoi personaggi “conoscono le parole giuste per tutto, ma non sanno il significato di niente. […] Il nostro linguaggio si rivela sempre insufficiente, anche nella sua apparente chiarezza, anzi specialmente nella sua chiarezza”[37]. A questo punto ci siamo ufficialmente persi e credo che quindi siamo anche ufficialmente arrivati dove avremmo voluto, in un punto indefinibile che non so descrivere se non dicendo che assomiglia all’immobilità delle api, per ottenere la quale gli insetti si devono muovere rapidissimi. Un movimento che non è bastato a salvare David, di cui oggi, come ha detto Don DeLillo, ricordiamo la voce così americana[38].

Altrettanto americana è però anche la voce dl grande critico Harold Bloom, il padre del Canone occidentale, a cui vorrei lasciare l’ultima parola: “Non è mia intenzione polemizzare – scrive ma ritengo che David Foster Wallace sia un pessimo scrittore. Paragonarlo a James Joyce è semplicemente ridicolo”[39]. Ecco, nessun santino in questo anniversario, solo noi qui davanti a una tomba immaginaria a pensare che dopo David la vita continua senza di lui, ma che averlo conosciuto attraverso i suoi libri è stato qualcosa che valeva la pena fare. Anche se lui probabilmente non è mai stato qui, ma ha vissuto la sua odissea nello spazio – sfinito diremmo con Pincio – molto lontano da tutti noi. O forse vicinissimo, che poi è lo stesso.

“Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra che sia la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce, nonostante l’oscurità dei tempi. La buona letteratura può avere una visione del mondo cupa quanto vogliamo, ma troverà sempre un modo sia per raffigurare il mondo sia per mettere in luce le possibilità di abitarlo in maniera viva e umana”[40].

L.M.



[1] Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Einaudi

[2] E l’aggettivo serve tanto per indicare la traumaticità di tale scelta - ovviamente stiamo parlando del suo suicidio, mettere la parola in una nota a piè di pagina chissà che non sia una forma, un po’ pelosa, di pudore - quanto l’effetto teatrale che questa ha conseguito, sia sui testimoni diretti della scena - perché pur con tutte le cautele del caso e l’infinito affetto che si celava, ne siamo certi, dietro l’addio di DFW, una scena magistrale è accaduta davvero - sia sul pubblico globale che non ha mai visto pencolare il cadavere dello scrittore, ma ha vissuto massmediaticamente l’onda d’urto della notizia.

[3] Uno che di DFW parla con una cura e una delicatezza quasi commovente, grazie anche a una voce estremamente interessante.

[4]Vieni a salvare mia anima, tratto dall’album Storie di whisky andati del 1988. Ecco l’incipit: “Mi sto impiccando e sono già lì lì per saltare / ma arriva un pacco e devo scender giù per firmare”.

[5] Ma anche, con una discreta possibilità alla Teoria delle Stringhe, che nella sua versione primaria postulava la necessità dell’esistenza di 24 dimensioni: in almeno una per David sono sicuro che è andata diversamente.

[6] Nelle infinite possibilità, infatti, sussiste anche una, per l’appunto, infinita serie di eventi più drammatici del suicidio di DFW... (lui che compie una strage di massa, una guerra nucleare che scoppia quel giorno, la sua, o la nostra non esistenza...) E’ complicato.

[7] A tal proposito, imperdibile il saggio Un funerale americano, 23 ottobre 2008 di Stefano Bartezzaghi, in Scrittori giocatori (Einaudi)

[8] Maradona by Kusturica di Emir Kusturica: si commuove anche chi sportivamente detestava El Pibe.

[9] Non posso non citare il copyright di questa immagine mentale: la scena finale di Underground, sempre di Kusturica, è semplicemente perfetta.

[10] In un piccolo e memorabile libro, La vita dopo Dio, opera ingiustamente trascurata di uno scrittore troppo spesso rinchiuso nella gabbia interpretativa, ottusa come tutte le semplificazioni, del padre della Generazione X. In realtà Coupland è una fonte straordinariamente copiosa di riflessioni sul mondo pop e sull’ossessione per delle grandi catastrofi, che sembrano essere rimaste le uniche, controverse, portatrici di una qualche possibile speranza di rinnovamento. Ma il tutto in una salsa postmoderna e problematica che aggiunge ai ragionamenti un sapore indescrivibile.

[11] “Una società di atei per prima cosa creerebbe una religione”, citazione a memoria, frutto di anni di applicazione sulle domande della prima, storica edizione di Trivial Pursuit in italiano.

[12] Prendete, per esempio, Brevi interviste con uomini schifosi e la B.I. n.46. Una discesa nel male a occhi talmente aperti da rischiare di confondere il volto dell’orrore che stiamo guardano con il riflesso dello specchio.

[13] Insieme alla morte, un concetto che è stato semplicemente messo al bando, dopo secoli in cui – con una morale pratica legata alla fisiologia degli esseri viventi per come li conosciamo sulla Terra – era stata costantemente esibita, forse in un grande rituale apotropaico collettivo, forse semplicemente perché unica certezza, sebbene la filosofia di David Hume ci lasci un barlume di speranza empirica che la notte, in gran segreto, sussurra a molti di noi, “con te andrà diversamente”.

[14] Jonathan Franzen – Farther Away – New Yorker, 18 aprile 2011. Versione italiana, L’isola più lontana, pubblicato su Internazionale del 26 agosto 2011.

[15] E, non ce ne voglia Franzen, era difficile non farlo dopo aver letto il discorso agli studenti del Kenyon College tenuto da DFW nel 2005 e intitolato Questa è l’acqua. Talmente forte è la “saggezza morale” dei suoi contenuti che non c’è superficialità che tenga.

[16] Jonathan Franzen, op. cit.

[17] David Foster Wallace, Questa è l’acqua, Einaudi

[18] Jonathan Franzen, op. cit.

[19] Sebbene probabilmente meno del suo gemello opposto, la stroncatura, spesso unica ragione di scrittura per tanti critici, misteriosamente inclini a credere solo nel passato o in autori pervicacemente minori. Una lettura interessante, per sconfiggere questo micragnoso vezzo, potrebbe essere Mainstream di Frederic Martel, Feltrinelli.

[20] David Foster Wallace – Il Dostoevskij di Joseph Frank in Considera l’aragosta, Einaudi

[21] Scrive Barthes in Il grado zero della letteratura: “La Forma sta sospesa davanti allo sguardo come un oggetto. Qualunque cosa si faccia, essa è uno scandalo: se è mirabile appare fuori moda; se è anarchica è asociale; se è particolare rispetto all’epoca o agli uomini, essa è sempre e comunque solitudine”.

[22] David Foster Wallace, Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka in Considera l’aragosta, cit.

[23] Non si offenda Dave Eggers, parte del suo fascino deriva anche dall’essere un po’ fighetto, seppure in modo molto molto casual. Il che non toglie nulla alla sua bravura e inventiva non solo a livello di scrittura, ma anche – e forse oggi soprattutto – di editoria.

[24] Quando Bret Easton Ellis era meno scoppiato di ora le sue scene di adolescenti che guardavano i videoclip di Mtv togliendo l’audio avevano una forza innovativa dirompente. E la tv era un oggetto non meno alieno dei suoi pazzeschi personaggi.

[25] Sempre BEE, apriva memorabilmente il suo Meno di Zero scrivendo: “La gente ha paura di cacciarsi nella mischia delle autostrade di Los Angeles”.

[26] Ho rubato due versi a Douglas Coupland, mi perdonerà

[27] Il personaggio di Capitan Video, l’ottuagenario che vive sempre con una telecamera in funzione Rec in mano, è uno degli idealtipi americani moderni. Quasi un nuovo “classico americano” per dirla con D.H. Lawrence

[28] Ripubblicandolo per Minimum Fax “quasi vent’anni dopo”, Martina Testa, che lo ha tradotto e curato per la versione italiana, nota nella prefazione al volume: “E’ un libro che, per l’originalità delle sue storie, l’audacia dello stile, la visione critica di certi aspetti della realtà, risulta a tutt’oggi non solo attuale, ma ancora innovativo”.

[29] Come direbbe Nicola Lagioia, per capire la versione italiana del fenomeno della penetrazione televisiva sono molto utili diversi brani del suo romanzo Riportando tutto a casa, Einaudi.

[30] “Per quegli ultimi molti mesi avevo passato la notte abbracciato a un uomo che moriva di sistematicità”, dice Boyd a un certo punto.

[31] Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi, in Una pietra sopra, Einaudi

[32] L’arte per l’arte è un concetto che ai fanatici, di qualunque tipologia, fa sempre un po’ paura. Ma non è di questo che stiamo parlando qui.

[33] Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Einaudi

[34] Roland Barthes, Op. cit.

[35] Anche di questo parla David Lipsky nel suo Come diventare se stessi, Minimum Fax fresco di stampa. David pareva amare il fatto di essere una celebrità, di avere le sue groupie. E in qualche modo anche il suo suicidio è stato da rockstar, quel darsi al pubblico che tanto ha amareggiato Franzen (“Aveva preferito l’adulazione degli estranei all’amore delle persone più vicine”, scrive in tono piuttosto ricattatori, da genitore ferito dalla crescita dei propri figli) in certe condizioni di luce mi fa pensare al tuffo di un Jim Morrison verso la platea adorante. La band resta da sola sul palco a gestire il quotidiano del concerto, mentre lui, fugge, ma lo fa con un salto nel vuoto che comporta, comunque, un passo senza rete nell’incognito…

[37] Zadie Smith, Brevi interviste con uomini schifosi: i doni difficili di David Foster Wallace, in Cambiare idea, Minimum Fax. Un saggio imprescindibile su DFW.

[38] Don DeLillo, prefazione a Questa è l’acqua, Einaudi. Una frase che in qualche modo riecheggia il memorabile incipit di Underworld.

[39] Alessandra Farkas, L’anti-canone di Bloom, in Corriere della Sera, 20 luglio 2011

[40] A conversation with David Foster Wallace, by Larry Mc Caffery, cit.

16 agosto 2011

Un pensiero per DFW

"Il narratore cominciò a profferire parole non perché gli altri rispondessero altre prevedibili parole, ma per sperimentare fino a che punto le parole potevano combinarsi l'un l'altra, generarsi una dall'altra: per dedurre una spiegazione del mondo dal filo d'ogni discorso-racconto possibile, dall'arabesco che nomi e verbi, soggetti e predicati disegnavano diramandosi gli uni dagli altri".

Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi

02 agosto 2011

La (difficile) gestione del talento di Mr. Amis

Stando alle cronache letterarie, Martin Amis non è un personaggio semplice: le sue invettive e provocazioni lo hanno spesso portato sulle prime pagine dei quotidiani, non solo britannici, quasi mai come modello positivo. E pure certi suoi libri negli anni duemila non hanno brillato in modo particolare. Ma sotto la faccia burbera e una gestione delle proprie doti a volte da figliol prodigo (lui che figlio d’arte di un padre ingombrante lo è davvero), brilla un talento raro, a volte assolutizzante, a volte gestito non benissimo, ma puro. Un romanzo come L’Informazione, è ancora oggi difficile da circoscrivere per la sua importanza e carica visionaria. Altrettanto acuminato è sorprendente è il nuovo La vedova incinta (Einaudi), lettura estiva perfetta per chi non sopporta l’idea stessa di letture estive. Un libro che ha una strana qualità di preveggenza: leggendolo sembra che abbia fatto da (colta) fonte di ispirazione per un bestseller di qualche anno fa come Anime alla deriva di Richard Mason, peccato che la vedova di Amis sia uscita oltre dieci anni dopo...

La storia è, in qualche modo, un romanzo di educazione sentimentale e sessuale per un giovane britannico, Keith (lo stesso nome di uno dei protagonisti de L’Informazione, quasi un feticcio per Amis), che nell’estate italiana nel 1970 vive un trauma amoroso che riuscirà (forse) a gestire solo tre decenni dopo. C’è un triangolo, forse anche qualcosa di poligonale, ma soprattutto c’è il racconto di un desiderio. Abituati come siamo all’accessibilità di qualunque cosa, la qualità della brama controversa di Keith per Scheherazade, ha quella chiarezza offuscata che fa pensare alle pagine del giovane Hemingway parigino, con qui suoi espatriati lievi e disperati. Martin Amis mette in scena la gioventù (e Keith però legge classici della letteratura inglese) all’indomani del Sessantotto e alle prese con gli aspetti problematici della liberazione sessuale, in un contesto di eccitazione (corporale e paesaggistica) che rotola inesorabile verso un climax complesso. Che richiederà anni per essere capito e che a quel punto porterà con sé una nota di rimpianto per il tempo passato, sempre in salsa Amis ovviamente. “Oggi – pensa Keith a un certo punto – le persone invecchiano diversamente. Sembravano giovani in circolazione da troppo tempo. Il tempo gli scorreva accanto ma loro sognavano di rimanere identici”. E poco oltre: “Certo, i non fumatori vivono sette anni di più. Ma quali sette anni verranno sottratti dal dio chiamato Tempo? Non sarà quel momento convulso, mozzafiato tra i ventotto e i trentacinque. No. Sarà quel periodo strafigo tra gli ottantasei e i novantatre”. Grandissimo.

La vedova incinta del titolo è, almeno stando alla citazione di Aleksandr Herzen posta in epigrafe al romanzo (insieme alla voce “narcisismo” del Concise Oxford Dictionary e a un verso di Ted Hughes ripreso da Ovidio), l’eredità lasciata dal mondo uscente. E viene da pensare che quel mondo sia quello, spiazzante, ereditato dopo il grande falò del 1968. Non pare di essere di fronte a un pensiero reazionario, ma di certo a una lettura di quel momento storico che rinuncia a ogni forma di agiografia, per guardare in faccia, come sempre fa la buona letteratura, quel mostro a nove teste che è la vita che ciascuno di noi si trova quotidianamente a dover affrontare. E questo Amis è uno scrittore che, quando riesce a gestire bene il proprio talento, sa farlo in modo quasi impareggiabile.

25 luglio 2011

Il sorriso del Male

C'è qualcosa che non torna, che disturba profondamente, nella foto che ritrae il killer di Oslo, Anders B. Breivik, con una sorta di sorriso strafottente mentre, su un'auto della polizia, torna in carcere dopo il primo interrogatorio in tribunale. Forse ride perché è un folle, forse per spregio alle vittime del massacro... Ma forse ride perché, fuori dal finestrino, vede migliaia di norvegesi, quei pacati, civili, democratici norvegesi che lui odia e disprezza, simbolo di una mollezza progressista incapace di dare risposte ai problemi sociali più scottanti della contemporaneità, li vede folli di rabbia, schiumanti, che invocano al linciaggio dello stragista....

Ride, forse, perché vede che ha trionfato andando a strappare la violenza dal lato oscuro del cuore dei norvegesi e gettandola in piazza, davanti alle telecamere di tutto il mondo. Davanti a lui. Ride, come solo il Male sa ridere.

11 luglio 2011

McLuhan-Coupland, un'accoppiata davvero esplosiva

Difficile che una biografia di un grande sociologo (ma chissà se questa definizione ha anche solo una piccola dose di pertinenza...) possa essere uno dei libri per l'estate che sta già scoppiando in tutta Italia. Eppure Marshall McLuhan di Douglas Coupland, ennesimo bel colpo della casa editrice milanese Isbn, è un libro che ha tutte le caratteristiche per candidarsi a questo difficile ruolo, normalmente affidato - forse con un misto di snobismo e di pilatesca astuzia - ai grandi bestseller. In primis c'è il personaggio di cui si narra, il leggendario massmediologo (definizione brutta, ma questa volta più pertinente) canadese che, tanto per dirne due, coniò l'espressione "villaggio globale" e il mantra di tutto i futuri radical-geek: "Il medium è il messaggio". In secondo luogo c'è il narratore, Douglas Coupland, canadese pure lui, che è uno dei più grandi - e acuti, seppur sempre con un elemento di meravigliosa distonia - interpreti della contemporaneità. Non voglio citare il cult Generazione X e neppure il recentissimo e superbo Generazione A, mi basta ricordarlo per romanzi "minori" come Fidanzata in coma, fuori catalogo ma cercatelo nei mercati dell'usato, o libri indefinibili e commoventi come La vita dopo dio. Il risultato è un altro oggetto anomalo, un libro che ammicca alla grafica del Dos (qualcosa di perfetto nel modo in cui è perfetto lo Sfero di Parmenide o la voce di Hal9000 nella versione italiana di 2001 Odissea nello spazio) e gioca con passione la partita di ricordare al mondo il genio visionario di un fanatico cattolico con seri disturbi cerebrali e un'anomalia rarissima nell'afflusso di sangue alla testa che vide e descrisse la nostra società anni, se non lustri o decenni, prima di tutti gli altri.

L'occasione del libro - ed è bello pensare che un'occasione serva ancora, anche per una biografia così proteiforme - è il centenario della nascita di McLuhan, che cade il 21 luglio di quest'anno. Ma di lui, in sostanza, si continua a parlare da quasi 50 anni, come Coupland, in un lungo excursus nella vita pre-celebrità di McLuhan, mette in risalto sotto molti punti di vista, talvolta prevedibili talaltra davvero eterodossi. Come il già citato aspetto della malattia, decisiva nel definire il carattere di "Marshall", come confidenzialmente viene chiamato nelle pagine del libro. L'effetto, e Coupland lo dice come ambizione della sua biografia, è quello di una "patografia", un'analisi che mette sul tavolo tanto le visioni geniali di un uomo che sembrava capace di pensare nel futuro - mentre viveva cercando disperatamente di ancorarsi al passato e alle tradizioni, dato che Coupland mette in risalto molto spesso, giustamente - quanto il suo soffrire di piccoli ictus frequenti, insomma come, scrive Tommaso Pincio in una notevole recensione del libro, se non avesse tutte le rotelle a posto. E proprio Pincio, commentando una delle grandi intuizioni di McLuhan sulla rivoluzione informatica, coglie il fascino contraddittorio che fa da spina dorsale all'intera biografia. "Scrisse questa fedele prefigurazione di Internet - nota il romanziere - quando nemmeno gli alti dirigenti dell'Ibm immaginavano il dilagare di dispositivi quali personal computer e smartphone. Scrisse ciò e altro quando, avendo superato i cinquanta, era ormai 'un babbione in giacca a quadri', un signore di mezza età per nulla attrezzato a calarsi nel ruolo di polo d'attrazione delle feste e dei cocktail cui veniva regolarmente invitato". Già, perché McLuhan detestava il villaggio globale e viveva con malcelato disagio anche il rapporto con gli hippie che lo veneravano come un guru... Insomma, Coupland è bravissimo a mostrare quante contraddizioni ci fossero nel personaggio, ma al tempo stesso quanta preveggenza e forza innovativa si propagò durante il momento McLuhan, in qualche modo epicentro del salto intellettuale che ci ha preparati al presente iper mediatizzato.

Ci sarebbe molto, moltissimo altro da dire. Ma forse basta uno dei tanti aforismi di Marshall McLuhan che Coupland ha sparso nel suo libro (che sembra quasi un'installazione artistica, ovviamente multimediale): "L'arte è qualcosa con cui si può sempre farla franca". Sia che ti chiami McLuhan, sia che ti chiami Coupland, verrebbe da dire. Un hurrà per entrambi.

10 luglio 2011

La Domenica torna triste domenica…

E’ un pomeriggio inglese, di quelli rivestiti di carta da parati beige e tazze di tè troppo carico mentre fuori piove e la noia se ne sta seduta sorridente sul canapè. Ecco, la nuova (vecchia) Domenica del Sole 24 Ore a Kilgore fa esattamente questo effetto. Il ritorno al formato large e alla veste grafica dei bei tempi andati – tempi fatti di pezzi noiosetti ancorati a una cultura impantanata in qualcosa che a noi, a essere proprio sinceri, non interessa granché – ha portato in eredità direttori e cardinali (niente da dire per l’amor del cielo, ma la cultura secondo il nostro modestissimo avviso non è esattamente il posto delle divise e delle gerarchie…)… E dove sono finite firme brillanti come Lagioia, Carnero o Ricuperati? (Torneranno, vero? E’ solo un caso estivo, ne siamo sicuri!) E il bravissimo Stefano Salis che si batteva per un libro come “Fame di realtà” di David Shields adesso se ne sta un po’ relegato in qualche taglio basso abbastanza nascostino… (Ma presto lo rivedremo in prima, è certo). E poi a noi di Kilgore manca tremendamente, TREMENDAMENTE, quella vocazione pop rappresentata dal formato tabloid e dall’aria fresca, un po’ americana e anti accademica, seppur culturalmente solida…

Domenica era un’attesa eccitante, adesso sembra più leopardiana. (E sappiate che Kilgore, che detesta il Manzoni, invece venera il recanatese, ma questo non importa, o meglio è giusto che non importi. Invece adesso sembra di essere tornati ai tempi in cui DEVE per forza importare, almeno è la sensazione che, con disagio fisico, proviamo guardando l’ultimo numero, quello del 10 luglio…). Perfino Cordelli, Cordelli!, oggi sul Corriere della sera parla di Tommaso Pincio, e sembra, in confronto, di vivere in quadro di Andy Warhol anziché nella campagna pavese in un giorno nebbiosetto, mentre tutti i tuoi amici sono in vacanza ai tropici e la connessione Adsl non ne vuole sapere di funzionare.

Sparare giudizi non è granché bello, e in effetti ci accorgiamo di averlo fatto, forse con troppa foga. Ma è perché alla Domenica ci teniamo, perché non vediamo l’ora che esca, perché la cultura è una figata, a patto di saperlo dire con una certa eleganza, o quantomeno con la faccia seria e una giacca di felpa verde scuro. Ma una figata va difesa, fatta crescere, tutelata nella sua meravigliosa e postmoderna fragilità, sennò c’è il rischio che l’atmosfera uggiosa della Sunday britannica, triste domenica!, ci ripiombi tra capo e collo come una incudine, di quelle che colpiscono, ma i danni sono più scenografici che reali, il povero Wyle E. Coyote (naturalmente di marca Acme).

24 giugno 2011

E se Kafka fosse sopravvissuto? Il dilemma di Philip Roth

E se Franz Kafka fosse sopravvissuto alla malattia e all’Olocausto e avesse raggiunto l’America? Avremmo ancora il più grande scrittore del Novecento (o almeno uno dei più grandi, ma a contendergli lo scettro, a ben guardare, ci sono solo due irlandesi, Joyce e Beckett) oppure solo un professore attempato che ha tenuto nel cassetto, nascosti a tutti, romanzi intitolati Il Processo o Il Castello? Di questo ha scritto Philip Roth, uno dei maggiori autori viventi, in un breve testo del 1973 che esce per la prima volta in Italia per Einaudi: Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno – Ovvero, guardando Kafka. Un piccolo libro, articolato in due parti, che è una scintilla d’intelligenza e apre una finestra prima sull’ultima felicità di Kafka, quella più autentica e senza speranza, quindi sulla possibilità di una “seconda chance” per lo scrittore praghese, con un prezzo da pagare però.

Roth parte dalla citazione del digiunatore kafkiano, che muore di inedia perché non riusciva a trovare un cibo che gli piacesse, per rievocare la figura di Kafka, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, quando, ormai certo di dover morire, vive una breve stagione d’amore accanto alla giovane Dora Dymant. Philip Roth ricorda che Kafka aveva scritto al padre di essere escluso dalla sfera del matrimonio in quanto questa era propriamente sua, del genitore. “Ma adesso – aggiunge lo scrittore di Newark – a quanto pare la prospettiva di una Dora per sempre, di una moglie, di una casa e dei figli per l’eternità, non è più la prospettiva terrificante, sbigottente, che sarebbe stata un tempo, perché adesso ‘per l’eternità’ senza dubbio non significa più che qualche mese”. L’intelligenza di Roth è affilata come un coltello, e poco oltre, quando si parla della relazione casta e quasi genitoriale tra Franz e Dora, ecco la geniale parafrasi del celeberrimo attacco della Metamorfosi: “Quando Franz Kafka una mattina nel suo letto si svegliò da sonni inquieti, si ritrovò trasformato in un padre, uno scrittore e un ebreo”.

La seconda parte del libro è più narrativa, è una storia ambientata a Newark nel 1942 e il protagonista è il 59enne insegnante della scuola di ebraico dove studia il narratore, un ragazzino ebreo di 9 anni. Manco a dirlo, si tratta del dottor Franz Kafka, con il suo alito cattivo “che alle cinque del pomeriggio è aromatizzato dai succhi intestinali”, tanto da valergli il nomignolo di “dottor Kishka”, ossia in yiddish “interiora”. Il sopravvissuto è timido, ha una storia, poi troncata bruscamente, con una zia zitella del ragazzo, quindi sparisce e muore a 70 anni, senza eredi e, soprattutto, senza libri. “Le carte del deceduto – scrive Roth – non vengono reclamate da nessuno, e scompaiono”. E quindi la gloria letteraria, seppur postuma e forse umanamente ancora più amara, che ha poi raggiunto il nome del Kafka storico, qui si dissolve nel nulla. “No – Conclude Roth – semplicemente non è dato che Kafka possa mai diventare ‘il’ Kafka, perdinci, sarebbe ancora più strano di un uomo che si trasforma in un insetto. Nessuno ci crederebbe, men che meno Kafka”. Ma forse la letteratura sì.