26 novembre 2007

Rothko

Non ho abbastanza vista
Per contenerli
Gli occhi mi fanno male
Premono gli angoli infiammati
Mentre la luce erutta
Dai pertugi che il pittore le concede
E venera, con devozione euclidea,
L’intercapedine che giustifica lo spazio
Mentre lo crea

La stanza brulica di soli
- e in qualche modo centra Stanley Kubrick -
Pronti poi a declinarsi in nero
Quando l’urgenza della visione,
Sfiancata dalla propria fierezza,
Soccombe allo sfavillare della luce
Forse scoprendo che ciò che brucia
E’ un grumo di follia termonucleare

Dopo di lei
Non resta nulla da guardare

Roma, 23 novembre

10 novembre 2007

Dyer, un Borges per la fotografia

"In fotografia non esiste un 'nel frattempo'. C'era solo quell'istante e adesso c'è quest'altro istante e nel mezzo non c'è niente. La fotografia, in un certo senso, è la negazione della cronologia". E' una lettura affascinante quella che lo scrittore inglese Geoff Dyer fa della fotografia in un saggio, misterioso e inusuale, edito da Einaudi nella storica collana Saggi. "L'infinito istante" è, nella modesta opinione di Kilgore, uno dei migliori libri sulla fotografia degli ultimi anni e trasmette al lettore la sensazione di trovarsi a rovistare in un mucchio di immagini. Scegliendo di volta in volta le gli scatti che più lo colpiscono, Dyer crea un percorso per associazioni che attraversa la storia dell'arte fotografica, soffermandosi spesso sugli uomini e le donne che stavano dietro l'obiettivo, oltre che naturalmente, su persone, cose e luoghi che ci stavano davanti. Il tutto con la convinzione che ogni passaggio da un'immagine - o anche da una tematica - all'altra potrebbe essere opinato. In fondo, in fotografia e nella vita, la massima di Cartier-Bresson può sempre essere valida: "Esistono solo le coincidenze".

E, di coincidenza in coincidenza, il libro di Geoff Dyer, già noto al grande pubblico per aver raccontato le vite dei grandi del jazz, costruisce una trama affascinante, che fa luce sulle dinamiche che presiedono allo sguardo di un fotografo, tenendo presente una considerazione fondamentale: "A me interessa - scrive Dyer - solo quel che succede all'interno dell'inquadratura: non ciò che accade in realtà, ma ciò che le foto mi inducono a credere che accade". E nelle fotografie il tempo non esiste: il ragazzo ritratto nel 1913 su una panchina di Budapest dal fratello André Kertész su quella panchina in triste contemplazione resterà per sempre, così come l'uomo con un cappello sgualcito che volge le spalle alla folla in una delle più famose foto di Dorothea Lange ("White Angel Bread Line" del 1933) è destinato per sempre a rappresentare "la verità langeiana di stoica rassegnazione". Salvo poi, scrive Dyer in uno dei passi più affascinanti e visionari del suo libro, tornare - e stiamo parlando dell'uomo fotografato da Lange - in un'immagine del 1952 scattata da Roy DeCarava. Lo stesso uomo? No, perché questa volta il soggetto è un afroamericano. , nell'occhio di chi guarda: "E' come - scrive Dyer - se il cappello e l'uomo, e tutto ciò che simboleggiano, riemergessero di nuovo alla luce del giorno, ritornassero in superficie". Il tempo nelle fotografie non esiste, ma quell'uomo, vent'anni dopo, sembra davvero incarnare la storia di un Paese che ha vissuto la tragedia della Depressione e della guerra e ora ritorna alla vita.

Ispirato, seppure in maniera necessariamente eccentrica, ai cataloghi di Borges, "L'infinito istante" è la riflessione di uno scrittore che non fotografa, ma guarda. E sulle orme di un vate cieco come l'argentino, ma anche come Omero, inizia il suo percorso proprio dalle fotografie che ritraggono persone non vedenti, salvo poi mostrare come a essere "trattato come un cieco", era anche l'anziano fotografo Kertész, che "tutti pensavano fosse morto da trent'anni".

Corredato da 93 immagini in bianco e nero e dodici tavole a colori, il saggio di Dyer è un omaggio alla fotografia, ai suoi interpreti, alle loro vite a volte eccessive (Edward Weston), a volte maniacali (Alfred Stieglitz), a volte destinate, anzi predestinate, a finire con un suicidio (Diane Arbus). Un viaggio che si conclude con una domanda, forse "la" domanda, scritta al collo di un uomo a New York l'11 settembre 2001: "After Death What?".

03 novembre 2007

Un libro per Sua Maestà

Un romanzo leggero, divertente, acuto e a volte molto pungente che si chiude, proprio nell’ultima riga, con un colpo di scena davvero inatteso. “La sovrana lettrice”, ultima fatica letteraria di Alan Bennett, esce in Italia da Adelphi e si candida a ripetere il successo di libri come “Nudi e crudi” e “La cerimonia del massaggio”, che hanno fatto conoscere lo scrittore e commediografo inglese nel nostro Paese. La trama del romanzo, che a volte fa pensare all’ultimo Calvino e altre alle storie migliori della Walt Disney, è semplice: entrando per caso in una biblioteca circolante, la regina Elisabetta scopre la lettura e fa la conoscenza con uno sguattero, Norman, che diventerà il suo consulente letterario privato. La passione per i libri diventa presto impellente e la regina, che ammette di avere perso tempo, cerca di recuperarlo leggendo il più possibile nel crescente fastidio del suo entourage per la nuova inclinazione culturale della sovrana. Tra episodi buffi, in cui non fanno mai una grande figura il nervoso principe consorte (esilarante) e il primo ministro (un po' sinistro), e divagazioni molto acute sul senso della letteratura, il romanzo di Bennett avvince il lettore e regala piccole perle come il riassunto implacabile e ingenuo della vita e dell’opera di Proust: “Poveretto – dice la regina – una vita infame. Un martire dell’asma. Il tipo di persona a cui viene da dire: ‘Insomma, tirati un po’ su!’. Ma la letteratura è piena di gente così. La cosa strana è che quando ha intinto un pezzo di dolce nel tè (pessima abitudine) gli è tornato in mente tutto il suo passato”.

Ironica indagine nei corridoi della monarchia, dove valletti e collaboratori più realisti della regina non concepiscono l’umanità della sovrana e decrepiti consiglieri si addormentano nel bel mezzo di un colloquio regale, il romanzo di Bennett è anche una difesa della letteratura fatta con quella leggerezza teorizzata proprio da Italo Calvino. “I libri non sono un passatempo – esclama a un certo punto la regina – Parlano di altre vite, di altri mondi. Altro che far passare il tempo, non so cosa darei per averne di più”. E, poco più avanti, un’altra considerazione di Elisabetta lettrice, questa volta riferita alla propria specialissima posizione sociale: “L’attrattiva della letteratura, rifletté, consisteva nella sua indifferenza, nella sua totale mancanza di deferenza. I libri se ne infischiavano di chi li leggeva: se nessuno li apriva, loro stavano bene lo stesso”.

Come già aveva fatto Umberto Eco ne “Il pendolo di Foucault”, anche Bennett mette in bocca alla sua regale protagonista espressioni come “Sono l’unica a voler dare una bella lavata di capo a Henry James?”. E poi apre scorci di affettuosa luce sulla personalità della sovrana, aiutata dai libri a capire se stessa: “Anche se Shakespeare non lo capisco sempre, quando Cordelia dice ‘non riesco a trarre il cuore in bocca’ condivido appieno il suo sentimento. Il suo problema è il mio”. Alla fine, dopo che “con sua leggera sorpresa, quell’anno la regina compì ottant’anni”, Elisabetta decide di saltare il fossato e da semplice lettrice (il titolo originale del romanzo è “The Uncommon Reader”, con ovvio riferimento al “The Common Reader” di Virginia Woolf) diventare lei stessa scrittrice. Ma per farlo avrà bisogno di fare un altro, considerevole strappo.