21 febbraio 2012

Le Falkland di Fogwill: gli armadilli e la guerra

La guerra delle Falkland raccontata dalla prospettiva di un gruppo di soldati argentini imboscati in una vera e propria “tana”. E’ inconsueto il taglio scelto dallo scrittore di Buenos Aires Rodolfo Fogwill per il romanzo Scene da una battaglia sotterranea, opera postuma (Fogwill è morto nel 2010 a 69 anni) che segna il debutto in italiano di un autore considerato tra i più importanti del suo Paese. Il libro, uno dei tre titoli con cui ha esordito il marchio Sur (della scuderia Minimun Fax), è notevolissimo e giustamente Vittorio Giacopini lo ha paragonato sulla Domenica del Sole24Ore al Vonnegut di Mattatoio n. 5: molto simile è infatti la postura di fronte all’impari confronto tra i corpi umani, così fragili e difficilmente riparabili, e le armi dei conflitti contemporanei, così assurdamente letali. Ma Fogwill, in questo più “contemporaneo” e problematico, aggiunge nella prefazione al romanzo una fondamentale precisazione: “Torno a ripetere che non ho scritto un libro sulla guerra, ma su me stesso e sulla lingua di uno che non scriverà mai contro la guerra, contro la pioggia, contro i terremoti né i temporali, ma scriverà sempre contro i modi sbagliati di chiamare il nostro destino e di conviverci”. Insomma, questo romanzo scritto “contro una maniera stupida di pensare la guerra e la letteratura”, suppone che la guerra sia inevitabilmente iscritta nella storia dell’umanità, e quindi i suoi straordinari personaggi agiscono di conseguenza, con lo stesso distacco ideologico che si prova di fronte a un acquazzone imprevisto.

Gli armadilli (questo il titolo originale del romanzo, Los pichiciegos, la traduzione è di Ilide Carmignani, ossia la voce italiana di Roberto Bolaño) hanno scelto di sfuggire alla guerra nascondendosi sottoterra, creando un sistema sociale alternativo, che ha le proprie gerarchie (i Re lo governano in modo autocratico) e le proprie regole (si esce solo di notte, si tratta con gli inglesi). Ma nel tono tra il tragico e il farsesco che Fogwill modula con abilità e con una prospettiva di narrazione molto mobile si coglie una verità fondamentale: l’incompatibilità di parole come “vita” e “guerra” e l’assurdità della distinzione tra i due eserciti nemici: gli inglesi – pensa a un certo punto un personaggio, “non erano peggio [degli argentini], erano uguali”. Ecco, questo è probabilmente il punto chiave del romanzo che si fregia di un livello di ribellione profondissimo, di un abbandono del concetto di appartenenza così estremo da essere quasi inaccettabile. Se si cala questa posizione di Fogwill nell’Argentina della dittatura militare (e la guerra per le isole che qui chiamano Malvinas è un esempio storico della follia di quel regime, anche in politica estera) si capisce quanto solitario e controverso debba essere apparso lo scrittore.

Sotto la crosta delle ferite – reali o metaforiche che siano – e della sporcizia, negli armadilli pulsa il senso più profondo e disperato dell’umanità. In fondo quelle pecore che saltano in aria sui campi minati, che poi diventano cibo per gli imboscati, sono esattamente uguali a noi. Semplicemente c’è una impercettibile (e quindi a ben guardare trascurabile) differenza di prospettiva. Ma nonostante tutto questo, si lotta per restare aggrappati alla vita, anche sottoterra, anche nel gelo assurdo delle contese isole australi. Tutto ciò, comunque, non deve mettere in secondo piano un altro aspetto fondamentale del libro: la sua qualità letteraria e visionaria. Fogwill crea una narrazione apparentemente polifonica, in realtà guidata dall’interno (fingendo, borgesianamente, che avvenga dall’esterno), e regala al lettore scene visionarie e indimenticabili, come il racconto allucinato della “Grande Attrazione” nel cielo per una volta schiaritosi. Un libro importante, anomalo, grottesco, disperato e umano: insomma di quelli da ricordare.

09 febbraio 2012

Coupland, un'altra Apocalisse (ma con speranza)

La guerra nucleare è un totem segreto davanti al quale –  rigorosamente in orario d’ufficio, indossando cravatte e pullover molto simili e utilizzando i social network – i fan di Douglas Coupland si ritrovano puntualmente a prestare una silenziosa invocazione, al tempo stesso atterrita e affascinata. Questa volta, però, nell’ultima edizione dell’Apocalisse secondo il grande scrittore canadese, la bomba atomica non c’entra (anche se un paio di volte una sorta di fungo nucleare appare all’orizzonte, ma è solo una deformazione percettiva dell’autore e della sua generazione che sono cresciuti con una solo immagine di esplosione, L’Esplosione) e a mandare in frantumi il mondo per come lo conosciamo è una repentina e spaventosa crisi petrolifera, seguita dall’avvento di una nube tossica, forse omaggio all’indimenticato Evento tossico aereo di Rumore Bianco di Don DeLillo.

Le ultime 5 ore, pubblicato da Isbn a pochi mesi di distanza da un altro grande romanzo visionario e couplandiano come Generazione A (e ancora meno dal suo magnifico saggio su Marshall McLuhan), è la storia di cinque persone in una “squallida” sala da cocktail di un albergo accanto a un aeroporto che, da quel microcosmo iperrealista, vedono accadere l’inimmaginabile. Una trama forte, dunque, articolata su una narrazione policentrica ma potabile, che dietro l’apparenza nasconde però i temi classici e le riflessioni di Coupland, sul concetto di “tempo lineare” e, in fondo, sul senso della vita. E solo da uno scrittore come Coupland si può accettare, anzi farlo con entusiasmo, una frase come questa: “Brindo a chiunque su questa Terra sia mai stato ansioso, anzi, disperato di scoprire anche il minimo segno dell’esistenza di qualcosa in noi che sia più bello, grande e miracoloso di quanto potevamo immaginare”.

A pronunciare questa magnifica frase è probabilmente il personaggio più importante del romanzo, Rachel, una sorta di top model autistica, incapace di distinguere i volti degli altri e di comprendere le metafore. Al di là della finezza di Coupland – che sceglie di mettere tutti quei problemi nel corpo di una ragazza mozzafiato, ribaltando così in un colpo solo una buona dozzina di cliché – il personaggio presenta una serie di complessità che, sommate, ne fanno una sorta di Eva al contrario, qualcosa come l’Ultima donna, che per una sorta di miracolo metaforico – lei, che le metafore non le capiva – si trasforma nel primo essere umano della “Nuova Normalità” che viene dopo la catastrofe. Perché la vera novità per i lettori di Coupland, quelli (come Kilgore) che hanno amato libri fuori dal comune come Fidanzata in coma o La vita dopo Dio, è proprio in questa speranza che Rachel, che è anche il misterioso deus ex machina della storia – e dello spaziotempo – significativamente chiamato Giocatore Uno, si fa carico di portare alla fine del romanzo. 

Dunque dopo il disastro, dopo il fallimento spaventoso e violento della nostra società vorace di petrolio, qualcosa – la vita! – continuerà a esistere uguale e diversa al tempo stesso rispetto a ciò che abbiamo conosciuto finora. E’ un apologo? E’ letteratura moralisteggiante? Qualcuno potrebbe sicuramente dirlo, ma è probabile che non colpirebbe nel segno, perché Coupland è uno scrittore che, nonostante alcune apparenze, è pressoché impossibile da rinchiudere in una definizione predigerita. E il nostro destino, così come l’idea del tempo, sono concetti che la sua penna “post-qualunque cosa” è in grado di mostrarci in una luce che risulta sempre nuova, capace di lasciarci abbagliati più di una volta.