26 novembre 2007

Rothko

Non ho abbastanza vista
Per contenerli
Gli occhi mi fanno male
Premono gli angoli infiammati
Mentre la luce erutta
Dai pertugi che il pittore le concede
E venera, con devozione euclidea,
L’intercapedine che giustifica lo spazio
Mentre lo crea

La stanza brulica di soli
- e in qualche modo centra Stanley Kubrick -
Pronti poi a declinarsi in nero
Quando l’urgenza della visione,
Sfiancata dalla propria fierezza,
Soccombe allo sfavillare della luce
Forse scoprendo che ciò che brucia
E’ un grumo di follia termonucleare

Dopo di lei
Non resta nulla da guardare

Roma, 23 novembre

10 novembre 2007

Dyer, un Borges per la fotografia

"In fotografia non esiste un 'nel frattempo'. C'era solo quell'istante e adesso c'è quest'altro istante e nel mezzo non c'è niente. La fotografia, in un certo senso, è la negazione della cronologia". E' una lettura affascinante quella che lo scrittore inglese Geoff Dyer fa della fotografia in un saggio, misterioso e inusuale, edito da Einaudi nella storica collana Saggi. "L'infinito istante" è, nella modesta opinione di Kilgore, uno dei migliori libri sulla fotografia degli ultimi anni e trasmette al lettore la sensazione di trovarsi a rovistare in un mucchio di immagini. Scegliendo di volta in volta le gli scatti che più lo colpiscono, Dyer crea un percorso per associazioni che attraversa la storia dell'arte fotografica, soffermandosi spesso sugli uomini e le donne che stavano dietro l'obiettivo, oltre che naturalmente, su persone, cose e luoghi che ci stavano davanti. Il tutto con la convinzione che ogni passaggio da un'immagine - o anche da una tematica - all'altra potrebbe essere opinato. In fondo, in fotografia e nella vita, la massima di Cartier-Bresson può sempre essere valida: "Esistono solo le coincidenze".

E, di coincidenza in coincidenza, il libro di Geoff Dyer, già noto al grande pubblico per aver raccontato le vite dei grandi del jazz, costruisce una trama affascinante, che fa luce sulle dinamiche che presiedono allo sguardo di un fotografo, tenendo presente una considerazione fondamentale: "A me interessa - scrive Dyer - solo quel che succede all'interno dell'inquadratura: non ciò che accade in realtà, ma ciò che le foto mi inducono a credere che accade". E nelle fotografie il tempo non esiste: il ragazzo ritratto nel 1913 su una panchina di Budapest dal fratello André Kertész su quella panchina in triste contemplazione resterà per sempre, così come l'uomo con un cappello sgualcito che volge le spalle alla folla in una delle più famose foto di Dorothea Lange ("White Angel Bread Line" del 1933) è destinato per sempre a rappresentare "la verità langeiana di stoica rassegnazione". Salvo poi, scrive Dyer in uno dei passi più affascinanti e visionari del suo libro, tornare - e stiamo parlando dell'uomo fotografato da Lange - in un'immagine del 1952 scattata da Roy DeCarava. Lo stesso uomo? No, perché questa volta il soggetto è un afroamericano. , nell'occhio di chi guarda: "E' come - scrive Dyer - se il cappello e l'uomo, e tutto ciò che simboleggiano, riemergessero di nuovo alla luce del giorno, ritornassero in superficie". Il tempo nelle fotografie non esiste, ma quell'uomo, vent'anni dopo, sembra davvero incarnare la storia di un Paese che ha vissuto la tragedia della Depressione e della guerra e ora ritorna alla vita.

Ispirato, seppure in maniera necessariamente eccentrica, ai cataloghi di Borges, "L'infinito istante" è la riflessione di uno scrittore che non fotografa, ma guarda. E sulle orme di un vate cieco come l'argentino, ma anche come Omero, inizia il suo percorso proprio dalle fotografie che ritraggono persone non vedenti, salvo poi mostrare come a essere "trattato come un cieco", era anche l'anziano fotografo Kertész, che "tutti pensavano fosse morto da trent'anni".

Corredato da 93 immagini in bianco e nero e dodici tavole a colori, il saggio di Dyer è un omaggio alla fotografia, ai suoi interpreti, alle loro vite a volte eccessive (Edward Weston), a volte maniacali (Alfred Stieglitz), a volte destinate, anzi predestinate, a finire con un suicidio (Diane Arbus). Un viaggio che si conclude con una domanda, forse "la" domanda, scritta al collo di un uomo a New York l'11 settembre 2001: "After Death What?".

03 novembre 2007

Un libro per Sua Maestà

Un romanzo leggero, divertente, acuto e a volte molto pungente che si chiude, proprio nell’ultima riga, con un colpo di scena davvero inatteso. “La sovrana lettrice”, ultima fatica letteraria di Alan Bennett, esce in Italia da Adelphi e si candida a ripetere il successo di libri come “Nudi e crudi” e “La cerimonia del massaggio”, che hanno fatto conoscere lo scrittore e commediografo inglese nel nostro Paese. La trama del romanzo, che a volte fa pensare all’ultimo Calvino e altre alle storie migliori della Walt Disney, è semplice: entrando per caso in una biblioteca circolante, la regina Elisabetta scopre la lettura e fa la conoscenza con uno sguattero, Norman, che diventerà il suo consulente letterario privato. La passione per i libri diventa presto impellente e la regina, che ammette di avere perso tempo, cerca di recuperarlo leggendo il più possibile nel crescente fastidio del suo entourage per la nuova inclinazione culturale della sovrana. Tra episodi buffi, in cui non fanno mai una grande figura il nervoso principe consorte (esilarante) e il primo ministro (un po' sinistro), e divagazioni molto acute sul senso della letteratura, il romanzo di Bennett avvince il lettore e regala piccole perle come il riassunto implacabile e ingenuo della vita e dell’opera di Proust: “Poveretto – dice la regina – una vita infame. Un martire dell’asma. Il tipo di persona a cui viene da dire: ‘Insomma, tirati un po’ su!’. Ma la letteratura è piena di gente così. La cosa strana è che quando ha intinto un pezzo di dolce nel tè (pessima abitudine) gli è tornato in mente tutto il suo passato”.

Ironica indagine nei corridoi della monarchia, dove valletti e collaboratori più realisti della regina non concepiscono l’umanità della sovrana e decrepiti consiglieri si addormentano nel bel mezzo di un colloquio regale, il romanzo di Bennett è anche una difesa della letteratura fatta con quella leggerezza teorizzata proprio da Italo Calvino. “I libri non sono un passatempo – esclama a un certo punto la regina – Parlano di altre vite, di altri mondi. Altro che far passare il tempo, non so cosa darei per averne di più”. E, poco più avanti, un’altra considerazione di Elisabetta lettrice, questa volta riferita alla propria specialissima posizione sociale: “L’attrattiva della letteratura, rifletté, consisteva nella sua indifferenza, nella sua totale mancanza di deferenza. I libri se ne infischiavano di chi li leggeva: se nessuno li apriva, loro stavano bene lo stesso”.

Come già aveva fatto Umberto Eco ne “Il pendolo di Foucault”, anche Bennett mette in bocca alla sua regale protagonista espressioni come “Sono l’unica a voler dare una bella lavata di capo a Henry James?”. E poi apre scorci di affettuosa luce sulla personalità della sovrana, aiutata dai libri a capire se stessa: “Anche se Shakespeare non lo capisco sempre, quando Cordelia dice ‘non riesco a trarre il cuore in bocca’ condivido appieno il suo sentimento. Il suo problema è il mio”. Alla fine, dopo che “con sua leggera sorpresa, quell’anno la regina compì ottant’anni”, Elisabetta decide di saltare il fossato e da semplice lettrice (il titolo originale del romanzo è “The Uncommon Reader”, con ovvio riferimento al “The Common Reader” di Virginia Woolf) diventare lei stessa scrittrice. Ma per farlo avrà bisogno di fare un altro, considerevole strappo.

20 ottobre 2007

Il mio nome è Todd

Dopo aver lanciato in Italia scrittori come Charles D'Ambrosio e Kevin Canty, l'editore Minimum Fax ha scovato un altro virtuoso della short-story americana: si tratta del 38enne Todd Hasak-Lowy, la cui raccolta d'esordio, "Non parliamo la stessa lingua", esce nel nostro Paese in queste settimane. Sette storie discretamente lunghe nelle quali lo scrittore aggiorna la tipologia del racconto con il ricorso a stratagemmi narrativi e scelte stilistiche che spesso disorientano il lettore, lasciando la sensazione di trovarsi davvero davanti a qualcosa di nuovo e importante. Michael Chabon, uno dei guru della letteratura americana contemporanea, ha definito Hasak-Lowy "un nuovo stupefacente talento" e i suoi racconti "storie accessibili nella loro modernità, già classiche nel loro tono autorevole". Un giudizio molto lusinghiero che coglie nel segno: con il loro mix di riferimenti sociologici, storici, quotidiani, i racconti di Hasak-Lowy mettono il lettore di fronte al nostro presente, interpretato attraverso la lente di un narratore che dimostra di avere interiorizzato con finezza la modernità, con le sue miserie e le sue ossessioni, ma anche le grandi possibilità ironiche (e talvolta meta-letterarie) che essa fornisce allo scrittore.

Il dramma privato di un rancoroso barista del Museo dedicato agli ebrei vittime delle persecuzioni naziste; la strana metodologia di dieta proposta da una compagnia di guardie del corpo; un inconsueto colloquio di lavoro; una storia che mischia la ricerca di un portafogli, una guerra nucleare "limitata" e una buona dose di espedienti da "racconto nel racconto"; la morte di un uomo su una cyclette. Le storie di Todd Hasak-Lowy trattano di argomenti diversi, ma quello che li accomuna è lo stile dello scrittore, in questo erede della più grande tradizione ebraica, che gli permette di unire, sotto l'egida di una ironia poco appariscente ma implacabile, aspetti di narrativa a dati statistici sulla popolazione obesa, storie di fantapolitica e modesti problemi quotidiani, fino a diventare egli stesso, lo scrittore Hasak-Lowy, protagonista di una delle vicende che lui racconta.

Storie come "Il colloquio di lavoro" hanno qualcosa di Kafka, ma ci parlano della nostra vita quotidiana e della nostra società con una lucidità sorprendente. Altre, come "La Nazione dei predatori", sono costruite con tempi narrativi perfetti. Altre ancora, come "Il compito di questo traduttore" o "La fine del portafogli di Larry", riescono a indagare con acutezza nei malesseri più striscianti dei rapporti quotidiani tra le persone, accostandoli sorprendentemente con grandi eventi globali. Fino adarrivare a "Come morì il padre di Keith", un racconto dove quest'uomo è identificato solo come il genitore di suo figlio, ma di quest'ultimo la storia non tratta in nessun modo.

"Non parliamo la stessa lingua" è un libro che segna un momento importante per il racconto americano e Todd Hasak-Lowy ha dimostrato di saper rinnovare la tradizione della short-story. Nel 2008 uscirà negli Usa il suo primo romanzo, una nuova sfida che sarà interessante seguire.

15 ottobre 2007

Piccole ossessioni giapponesi

Una ragazza che ha subito una piccola mutilazione a un dito accetta di lavorare come assistente nel laboratorio del signor Deshimaru, dove si preparano “esemplari”. Lentamente scivolerà in una strana storia d’amore e ossessione, venata di feticismo, che la avvinghierà a un uomo e a un paio di scarpe da cui non sarà più in grado di staccarsi. “L’anulare”, romanzo del 1994 della scrittrice giapponese Ogawa Yoko che viene ora pubblicato in Italia da Adelphi, è una storia misteriosa e rarefatta che, pur nella sua brevità, trascina il lettore in universo straniante e magnetico, nel quale non manca una, neppure tanto strisciante, inquietudine.

In una sorta di originale mix tra il Kawabata de “Il paese delle nevi”, di cui conserva certe atmosfere opprimenti, i film del regista coreano Kim Ki-duk, a cui è legata dall’indagine sui rapporti ossessivi, eppure amorosi e le storie brevi della nuova star della letteratura francese Amélie Nothomb, Ogawa costruisce un libro che offre al lettore occidentale uno sguardo nuovo sulla società giapponese, nella quale convivono aspetti tradizionali (il rapporto uomo-donna, la cortesia) e altri sorprendenti (il feticismo, il diffuso ricorso alla misteriosa produzione del laboratorio di esemplari). Ma quello che è il cuore del libro è lo sguardo, tra il disincantato, l’ingenuo e l’ossessivo, della giovane protagonista che, pur apparendo spesso una pedina manovrata da altri, in realtà persegue con ostinata noncuranza la propria scelta. E in fondo anche questo è amore.

Nata nel 1962 a Okayama, Yoko è considerata una delle “ragazze terribili” della nuova letteratura giapponese e ha già ricevuto numerosi premi nel proprio Paese. E, come i personaggi del suo romanzo, anche lei sembra essere riuscita a fissare sulla pagina il modo lieve e misterioso nel quale si manifestano le ossessioni, oltre che a creare un oggetto letterario di forza narrativa non consueta.

19 settembre 2007

Nasce (forse) il nuovo romanzo italiano

Un incrocio tra un’indagine sociologica sul malessere profondo di un Paese senza più parametri di riferimento e un pamphlet scritto da un Voltaire che scopre inattese inclinazioni per lo splatter. “Italian fiction”, romanzo del ventisettenne genovese Michele Vaccari, è un oggetto letterario che piomba sul palcoscenico italiano con la furia di un ciclone rabbioso e lascia il lettore scioccato e stupito di fronte all’evidenza di una scrittura ricercata fino all’eccesso e di una storia in cui tutti i personaggi sono mostri quotidiani che sorpassano senza farsi troppe domande le proprie linee d’ombra. Edito da Isbn, casa editrice che mostra un occhio particolarmente attento alle nuove tendenze letterarie, il libro di Vaccari fa a pezzi con leggerezza l’intera tradizione del romanzo classico, lasciando sul terreno vittime illustri come la coerenza narrativa, la verosimiglianza e pure le unità di luogo e tempo care al teatro. E ogni tanto il gioco è così spinto che pare che, insieme all’acqua sporca, Vaccari butti via anche il bambino. Ma in realtà l’operazione è lucida e l’effetto è quello di una rivelazione su come raccontare il presente italiano – esploso e folle - in maniera così vivida da mozzare il fiato.

La storia è, per modo di dire, quella di una fuga d’amore tra un hardcore warrior, Guido, che passa le notti in discoteca imbottito di pasticche e si rilassa facendo a pezzi le automobili altrui, ed Elena, “forse la migliore cosplay d’Italia”. Dove per cosplay si intendono ragazze che impersonano le dive dei fumetti ad uso di fanatici appassionati delle eroine di carta. Lui violento e “fascio”, lei gelida e interessata solo ai propri capelli, si scontrano per caso per le vie di Vigasio, allucinante paesino della provincia veronese, e da quel momento inizia il loro viaggio improbabile – tanto in termini di realismo quanto di tempi narrativi – verso la Scandinavia, per partecipare a un rave party che durerà fino alla fine dei tempi. Intorno a loro il mondo crolla, devastato dall’esplosione della follia della gente comune che, per i più futili motivi, sceglie la via assoluta e grottesca della violenza. In fondo al viaggio di Guido ed Elena c’è la città-utopia di Appearence, dove tutto ciò che conta, appunto, è apparire, in una sublimazione al vetriolo dell’etica da reality-show che si stende, sembra dirci Vaccari, come una maledizione sulla nostre società evolute.

La realtà non esiste mai e, quando esiste, tutti preferiscono nasconderla” dice a un certo punto il padre di Guido, anche lui in fuga dall’orrore quotidiano addirittura nei panni di Mal dei Primitives. E, come in un “Candide” immerso nell’acido lisergico, “Italian fiction” ci racconta questo mondo impazzito e fittizio con un abuso di metafore e citazioni pop che danno la cifra stilistica della voce di Vaccari, ridondante come si addice a un vero moralista. Alla fine, al termine di un viaggio da incubo che fa pensare anche all’ultimo Céline, si intravede forse una via d’uscita dalla follia dell’apparenza a tutti i costi nella “sedizione” a cui Guido dice di voler dare inizio. In realtà il romanzo è tutto tranne che consolatorio e la visione del mondo che ne deriva è desolante come poche altre. Ma è anche uno sguardo sul presente che entra in zone oscure, di cui si tende a non parlare, del malessere profondo di un Italia che finora non avevamo mai potuto guardare in questo modo.

12 settembre 2007

Le visioni italiane di Mimmo Jodice

Luoghi d'Italia letti dall'obbiettivo nitido e visionario di uno dei più grandi fotografi del nostro Paese. La mostra "Perdersi a guardare", che si inaugura oggi presso il Centro internazionale di fotografia Forma di Milano, è un omaggio a Mimmo Jodice e al suo lavoro trentennale, che si concentra però solo sugli scatti italiani del fotografo. Un viaggio che, nelle parole di Jodice stesso, racconta l'Italia "non nella sua quotidianità, ma attraverso un percorso che segue l'immaginazione e che comprende le mie visioni e le mie inquietudini". Il risultato sono 160 immagini di grande formato e grande impatto, sospese in quello spazio in cui abbondano le emozioni e mancano sicuri riferimenti temporali, che è la cifra stilistica del maestro napoletano.

Torino, Napoli, Stromboli, Milano, le architetture, i reperti archeologici, i luoghi più famosi rivisitati dallo sguardo di Jodice: il suo viaggio attraverso Italia è articolato in periodi diversi e le immagini, nate senza l'idea di essere raccolte in un unica esposizione, sono legate tra loro da rimandi sottili e a volte imprevedibili. Un'ambiguità affascinante che lo stesso Jodice eleva quasi a forma programmatica del suo lavoro: "Le fotografie - ha spiegato sorridendo - un po' sono quello che sembrano piuttosto che quello che sono". Una considerazione solo apparentemente ironica, come i suoi scatti stanno a dimostrare, e l'Italia che ci raccontano è un Paese che sembra magico, quasi irreale nella sua bellezza.

"L'Italia in questi trent'anni - ha detto Jodice, timido e cortese sotto la barba bianca - è cambiata, non in meglio. Le città sono invase da automobili, cartelloni pubblicitari e ci manca lo spazio per contemplare, ci manca il dialogo con la città. La bellezza dei luoghi la sento tradita e vorrei avere la bacchetta magica per ripulire, per ridare visibilità agli spazi e alla storia contenuta nei luoghi". Forse la bacchetta magica Jodice non la possiede, ma nelle sue fotografie ha la capacità di catturare il fascino e il mistero dei luoghi, sia che si tratti di fabbriche, strade suburbane, o di piazza San Pietro e dei musei archeologici. "Mimmo Jodice - ha detto la curatrice della mostra milanese, Alessandra Mauro - ci insegna a guardare, per esercitare una visione che sia autentica, profonda, lontana dagli stereotipi". Provare per credere.

01 settembre 2007

Il soffio della passione

Lui è in carcere e attende la condanna a morte, alla quale vorrebbe sfuggire, senza successo, tentando il suicidio. Lei fa sculture, ha un marito e una figlia con cui vive in una casa arredata con grazia. Lei si innamora di lui, lo va a trovare in carcere, gli racconta di quando, da bambina, è “morta per cinque minuti” dopo un gioco di apnea subacquea spintosi un po’ più in là. Poi decora le pareti della stanza dei colloqui e, complice il misterioso direttore del carcere, inventa per lui uno specialissimo karaoke delle stagioni e, in un amplesso che ha più di un punto in comune con la morte, ama il prigioniero sotto l’occhio incessante della telecamera. Dopo di che tornerà alla vita di prima. “Soffio” è il nuovo film di Kim Ki-duk, e la storia è un condensato della poetica dell’autore coreano, sempre più a proprio agio tra i grandi del cinema di oggi. Un film che ipnotizza, sorprende, lascia le solite domande a cui è difficile dare una risposta e, come in tanti altri lavori di Kim, ci ricorda che l’amore è un’impresa complessa e indecifrabile, che trova una sua dimensione assoluta quando danza con l’altro arcano inconoscibile, la morte.

“Soffio” affonda la sua forza nel contrasto tra l’ambiente gelido della scenografia (l’inverno coreano, le nude pareti delle prigioni che tanto spesso ricorrono nei film di Kim Ki-duk, senza che per questo il loro ancestrale mistero ci sia chiarito) e la devastante passione che incendia gli amanti impossibili. E si arricchisce di una riflessione (è proprio il caso di dirlo) metacinematografica quando veniamo a sapere che il volto che si specchia nel monitor del misterioso direttore del carcere che tutto scruta con le sue telecamere è proprio quello del regista, assurto qui a onnipotente gestore del destino degli amanti, forse con il segreto scopo di regalare al condannato un ultimo bruciante assaggio della vita e alla donna quella indicibile emozione che le consentirà, appagata un po’ come lo fu Ulisse del mistero del mondo, di ritornare alla sua Itaca domestica. Oppure solo di ricordarci una volta di più, l’essenza ambigua e ricca di fascino della settima arte.

Su tutto domina la passione, che nel film è coltivata anche da altri personaggi, come il compagno di cella del protagonista o l’amante del marito della donna, che lui, una volta scoperto il segreto della moglie, deciderà di lasciare. La coppia sembra ritrovare una sua normalità (ma che cos’è la normalità ci viene da chiederci ogni volta che guardiamo un film di Kim Ki-duk o la fila del sabato pomeriggio in un supermercato) mentre per il condannato non c’è alternativa alla morte, che pure sembra venire da un eccesso di amore possessivo (altro “fondamentale” del cinema di Kim). E la domanda nasce spontanea: solo la rinuncia o la morte sono le alternative alla passione che “entra nelle nostre stanze e le brucia”? A giudicare dalla sinossi del film verrebbe da dire di sì, ma c’è una terza via che il regista percorre sicuro ed è quella dell’arte di guardare e di raccontare questa passione, il cui brillante ardore scalda e illumina un po’ anche noi.

16 agosto 2007

Truman e gli alieni

Arrivano improvvisamente in città senza che sia chiara la loro provenienza, spesso sconvolgono la vita di diverse persone e dopo il loro passaggio le cose non saranno mai più come prima. Sono i bambini che compaiono in diversi, magistrali racconti di Truman Capote, scrittore la cui abilità straordinaria per la short-story è stata forse un po’ trascurata. Eppure la nuova antologia completa edita da Garzanti (“La forma delle cose”) è un libro di grandezza inusitata, che celebra degnamente il talento di uno scrittore visionario come pochi, maestro di stile ma anche di mistero, come molti dei suoi racconti stanno lì a dimostrare. Recensendo il libro Pietro Citati si è soffermato proprio sui bambini di Capote, che sembrano essere degli alieni caduti sulla Terra da chissà quale misterioso pianeta e, come insegna la migliore fantascienza, queste enigmatiche figure in fondo restano sempre inconoscibili, per quanto noi si tenti di stabilire un contatto con loro, se non altro scrivendo o leggendo le loro storie.

Appleseed, miss Bobbit, Miriam. Tre bambini che sconvolgono. I primi due una città, la terza la vita di un’anziana signora. Tutti e tre noi lettori. Hanno doti fuori dal comune (come esponenti di una civiltà extraterrestre) e fanno cose che non si riesce a spiegare: Appleseed conta tutti i nichelini contenuti in un grande boccale; miss Bobbit strega una comunità intera con i suoi modi di fare e la sua abilità di ballerina; Miriam appare e scompare nei modi e nei momenti più improbabili e liberarsi di lei è impossibile. Kilgore sa che nessun critico dotato di senno, e che tenga un minimo alla sua reputazione, si azzarderebbe mai a sostenere che Capote è un grande scrittore di fantascienza, ma forse, da questa nostra modesta tribuna, possiamo azzardarci a pensare che possa essere anche un maestro occulto della science-fiction. In fondo ciò che noi possiamo capire di questi bambini-alieni non è molto diverso da ciò che gli esploratori galattici di Arthur C. Clarke (che Kilgore da sempre preferisce ad Asimov, non ce ne voglia il caro basettone) sanno delle immense statue abbandonate da civiltà extraterrestri ormai scomparse. In fondo la solitudine di questi ragazzini, che Capote ha la magnetica intuizione di descrivere come se fossero adulti, è la stessa che coglie la sentinella galattica di Fredric Brown o l’impostore di Phil Dick... azzardato? Senza dubbio. Però, almeno per Kilgore, molto affascinante.

Non ce ne voglia l’ottimo Truman, che certamente non pensava a se stesso come a uno scrittore di fantascienza, genere da sempre – quanto ingiustamente! - relegato ai margini della grande cultura che invece Capote frequentava da legittimo protagonista. Ma noi che amiamo tanto racconti alti come “Il falco senza testa” di Capote, quanto avventurosi come “Il duello” di Brown, forse possiamo permetterci il paragone. Che si arricchisce di umori alieni se ai bambini di Truman aggiungiamo anche le straniate ragazze che popolano i suoi racconti con una dolcezza misteriosa che ci rimanda ad altri luoghi (altre voci... altre stanze), dove – proprio come su un altro pianeta – vigono regole diverse, che noi non sempre possiamo capire. Psicologia spicciola magari, che però nelle mani di Truman Capote diventa un oggetto splendente e unico, un po’ come l’uovo di cristallo di H. G. Wells. E così, chissà che il cerchio non si chiuda.

01 agosto 2007

Un'avventura (racconto ferroviario)

Il treno è moderno e silenzioso.
L’uomo, seduto in un posto vicino il finestrino, appare assorto nella lettura del quotidiano. Talvolta alza lo sguardo e scruta il paesaggio, con noncuranza forse troppo calcolata. L’uomo oggi sta viaggiando solo.

La donna è giovane e da questo viaggio si aspetta delle risposte.
Dietro alle domande c’è sempre una storia d’amore, lei lo sa, e la sua vita è sempre stata piena di domande. Indossa un top azzurro e ha con sé una valigia di stoffa semirigida. Siede lungo il corridoio e guarda le scarpe dei viaggiatori quando le passano accanto per raggiungere il vagone ristorante.

Il paesaggio è una finzione, pensa l’uomo.
La sua bellezza mutevole e gratuita è una promessa che non verrà mai mantenuta. Come se la vita ti facesse vedere tutto, salvo poi permetterti di raggiungere solo una minima parte di ciò che puoi desiderare. Questa oggi per l’uomo è la vera tristezza.

Vorrei tanto che tu. Ricordati di. Non hai capito che.
I pensieri della donna scivolano rapidi come gli alberi e le città mobili di là del vetro che lei non guarda. La tua assenza. Sei cambiato eppure. Parlami davvero, per una volta.

Una hostess in divisa arancione attraversa il corridoio spingendo il carrello del mini bar. L’uomo, come d’abitudine, rifiuta. Anche se affamato.
La donna resta a lungo in silenzio. Poi chiede un bicchiere di aranciata amara. Mentre lo porta alle labbra il treno ha un sobbalzo e qualche goccia cade sul pavimento, accanto ai sandali delle donna.
L’hostess continua a sorridere, quindi si allontana con l’accompagnamento del tintinnìo delle bottiglie.

A questo punto qualcosa cambia.

L’uomo chiude il giornale, che non ha finito di leggere, e fissa il finestrino.
La forza delle possibilità inespresse lo sta soggiogando e un giorno lo ucciderà. Sente che la sua vita, le sue scelte, i suoi attuali pensieri e desideri sono soltanto un riflesso di qualcos’altro.
Come se le circostanze lo avessero trascinato a valle senza chiedergli il consenso.
Guarda la corsa del paesaggio e desidera una cosa sola.

La donna si alza dal suo posto, inquieta.
Le risposte che sta cercando, ha capito, non sono certo al capolinea di questo viaggio.
Vorrebbe che il treno non si fermasse mai, che rimanesse in movimento per sempre, che le luci che illuminano il corridoio, questo luogo sospeso sul niente, rimanessero accese all’infinito.
Così avrebbe una giustificazione, così potrebbe dire a tutti non posso mi spiace sono in viaggio. E intanto le cose potrebbero mutare lontano da lei, protetta in questo microcosmo su due binari che corre a una velocità di vita che fuori non è più concepibile.

Come se tu. Come se tu. Come oggi, domani, ieri e forse per sempre.

Lei guarda l’uomo, alzandosi. E vede i suoi occhi sfumati da lacrime leggere. Lei guarda lo sconosciuto e sente il desiderio di abbracciarlo, di baciarlo, di sentire i suoi capelli tra le sue dita e il suo profumo sulla sua pelle.
Di quanti baci si ha bisogno in una vita?

Chi sei. Chiede l’uomo
Siamo qui. Dice la donna. Un corridoio.
Il treno è deserto. Dice l’uomo.
E se tu potessi. Rifaresti tutto?
Forse. Ma sarebbe banale.
Adesso. Qui. Io non ti conosco. Dice lei.
Adesso, qui. Dice lui.
Dimmi qualcosa. Dice lei.
Dove sei stata in tutto questo tempo.

Quando si baciano si baciano con furore ma lei, che lo sovrasta di alcuni centimetri, tiene sempre una mano sulla nuca dell’uomo. Con dolcezza.
Lui la cerca attraverso i vestiti, abbraccia le sue anche, segue il filo esile delle sue spalle, gioca con le lievi asimmetrie del suo sguardo.
Lei chiude gli occhi solo a intermittenza, cerca le mani dell’uomo e annusa con entusiasmo l’odore che i loro corpi cominciano a emanare.
Se in questo momento guardassero fuori dai finestrini si accorgerebbero, probabilmente senza troppo stupore, che il paesaggio è scomparso e dall’esterno filtra soltanto una luce bianca, come di neon.

Avevo un solo grande desiderio. Dice lui. Quella casa.
Volevi il prato. Dice lei.
Il prato.
E volevi me.
Volevo te.
Dove siamo. Dove stiamo andando. Dice lei.
Siamo qui. Adesso. Risponde lui.
La tua vita. Dice lei.
La mia vita. Avrei voluto che.
Lo so. Le cose erano troppo grandi.
Troppo grandi. Ma non chiedermelo.
Devo farlo. Devo chiedertelo.
Se il resto non ci fosse. Dice lui.
E se nessuno soffrisse. Dice lei.
Nessuno.
E il resto non ci fosse.
Lo sai. Dice lui.
Ho bisogno che tu lo dica. Dice lei.
Qui e ora. In questo corridoio.
Adesso.
Sì.
Ripetilo.
Un milione di volte sì. Dice l’uomo.

Non c’è una stazione alla fine di questo racconto.
Soltanto un uomo e una donna che camminano in silenzio su di un lungo marciapiede, in direzioni opposte.
Portano una valigia ciascuno.
E stanno lentamente sparendo nella foschia, come perduti nell’orizzonte.

19 luglio 2007

Metti una sera i Pet Shop Boys

Quando andavo al liceo avrei dato un dito per assitere dal vivo a un concerto dei Pet Shop Boys. Con, grosso modo, 20 anni di ritardo ieri sera ce l’ho fatta. Tra le centinaia di tipi un po’ strani in piedi sulle sedie di Villa Arconati per l’unico show della band londinese in Italia, c’ero anche io. In sala mi aspettavo di trovare più “mod”, con i loro occhiali di celluloide e le camice strette. Qualcuno a dire la verità c’era, insieme pure a giovani che non avrebbero certo sfigurato nella Factory di Andy Warhol. Ma il resto del pubblico era perlopiù gente “normale”, con qualche – sebbene non frequente - scivolata pure nel modello banalotto del muscoloso-con-barbetta-rasata-sottilissima. Gasp.

Ma una volta spente le luci – su una struttura, bisogna dirlo, per quanto bellissima come scenografia e tutto il resto non adatta a un concerto di questo tipo: da due terzi dei settori era impossibile vedere e bisognava arrangiarsi in altre maniere... – eccoli qui, nella loro luccicante sonorità, i mitici ragazzi del negozio di piccoli animali. Ve lo confesso: quando è partita “Left to my own devices”, primo brano in scaletta, mi sono emozionato. Neil Tennant, classe 1954, vuol dire oggi 53enne, e Chris Lowe, di cinque anni più giovane, si sono presentati sul palco rispettivamente con marsina e cilindro il primo e incredibile felpa giallo fosforescente con cappuccio il secondo. Quest’ultimo capo era pure in vendita nello shop ufficiale: mi ha trattenuto dal comprarlo solo il fatto che costasse 60 euri. Che fosse pressoché impossibile da indossare in qualunque altra situazione della vita non mi è neppure passato per l’anticamera del cervello.

Uno schermo mobile e molto optical fa da sfondo allo show dei due Psb, che ormai ammiccano con grande stile all’arte contemporanea, quasi da sembrare due novelli Gilbert&George. E le suggestioni di Rothko e di Beckett si fondono bene con i brani più famosi della band, da “Always on my mind” a “Domino dancing”, passando per la straordinaria “Rent” e per le mitiche “Suburbia” e “West end girl”. Grandissimi. Anche nel contaminarsi con un gruppo di musicisti afro, che oltre a una presenza scenica di forza latinoamericana, regalano al pubblico anche una versione inedita e low-tech di “So Hard”. L’apoteosi però è finale, con la doppietta che vale il biglietto: “It’s a sin” e, di seguito, anzi in crescendo, “Go West”. Folla impazzita, Tennant – grigio di capelli ma con la stessa voce di 20 anni fa – che gigioneggia col suo cappotto a coda e Lowe sempre superbamente impassibile. Io c'ero.

Per quanto forse passati di moda, i Pet Shop Boys restano una pietra miliare per un certo tipo di musica, che riesce ancora a creare sonorità dance, senza però rinunciare all'armonia. E contaminando le discipline artistiche ci mandano a casa con la gradevole sensazione, dopo tanto ballare e cantare, di aver preso parte a un’esperienza che è, a tutti gli effetti, cultura.

18 luglio 2007

La piscine, la dimanche

La morsicata di una zanzara impertinente
Ti ha punteggiato il corpo
Stretto nell’euforia domenicale e collettiva
Dell’estate di provincia
E il tuo sorridere si mescolava
Al luccichio di slip argentei
Al tramestio segreto dei giochi dei bambini
All’orizzonte cremoso di una giornata
Che abbiam tentato di prolungare

Avrebbe voluto chiederle
Mi passi il sale per favore
Soltanto per sentire ancora nella nuca
Quel brivido d’intimità infantile
Che fosse scudo a tutto ciò che non sapeva
Ma lei, sfuggendo alle regole del gioco,
lo sorprendeva con una bracciata
a tradimento
ed una gara che già era incominciata

11 luglio 2007

Un giovane Holden postmoderno

Un ragazzo del Wyoming parte per arruolarsi nell’esercito e finisce coinvolto in una serie di eventi incredibili che lo porteranno fino a essere accusato di terrorismo e recluso a Guantanamo, prima che qualcosa di molto simile al “deus ex machina” del teatro greco classico arrivi a regalare un ultimo colpo di scena. Molto in breve è questa la storia che ci racconta “Callisto”, romanzo scoppiettante firmato dal misterioso autore Torsten Krol, che viene pubblicato in questi giorni in Italia da Isbn edizioni. Un libro inconsueto, potente e magnetico, costruito attorno al suo protagonista, Odell Deefus, un ragazzone che viene dalla periferia degli Usa, non è istruito e guarda al mondo con un’ingenuità disarmante. Insomma, un personaggio difficile da dimenticare e che sembra la versione aggiornata dell’Holden Caulfield di Salinger.

Come il suo illustre predecessore, anche Odell deve in qualche modo cercare di farsi largo nel caos del mondo, ma l’universo di cui si occupa Krol è quello impazzito e paranoide degli Stati Uniti del dopo 11 settembre, un Paese spaventato nel quale si muovono presunti terroristi, agenti corrotti, predicatori televisivi, spacciatori e misteriosi uomini della Sicurezza nazionale. Il tutto sotto una cappa di controllo tecnologico e di esasperata paranoia che fa pensare a Don Delillo e, ancor di più, a Thomas Pynchon. Un autore che possiamo accostare a Krol anche per la scelta di invisibilità: l’autore di “Callisto” vive infatti nell’interno selvaggio dell’Australia e comunica solo via e-mail.

Una scelta di solitudine che non sembra però danneggiare la fantasia di Torsten Krol, che nelle 400 pagine del romanzo immagina situazioni rocambolesche, talvolta al limite del ridicolo, ma che trovano una loro giustificazione nella personalità semplice e universale di Odell. Che se anche non sa parlare molto bene – e Krol è straordinario nel creare una lingua su misura per lui, rendendo terribilmente complicato il lavoro del traduttore Francesco Pacifico – riesce sempre a riportare la vicenda su un piano più umano. “Succedevano troppe cose – dice a un certo punto il protagonista – e tenere dietro a tutto quanto stava diventando molto difficile. Io cosa volevo, una vita semplice, io, Lorraine e un paio di figli in questa casa qui che è perfetta per allevare bambini non c’è praticamente traffico per strada è molto sicuro per i bambini”.

Nella trama abnorme, che serve a Krol anche per creare una satira pungente degli Stati Uniti, si intrecciano molti dei temi d’attualità più scottanti: oltre al terrorismo, il problema del dialogo con il diverso: i personaggi di “Callisto” – che è il nome della contea dove si svolge il romanzo – credono che bin Laden si chiami Sammy e danno per scontato il parallelismo musulmano-terrorista. E poi le congreghe di cristiani rinati che svolgono un ruolo ambiguo, i metodi poco ortodossi della polizia, i centri di detenzione segreta, gli intrighi per spingere un candidato alla Casa Bianca, le misteriosi propaggini di un potere che sembra vedere e sapere tutto. L’ingenuità ottusa di Odell, che stravede per Condoleezza Rice tanto da tenere una sua foto nel passaporto, fatica a trovare un suo spazio in questo mondo impazzito. “Penso che sei caduto dal cielo l’altro ieri – gli dice Lorraine, la sbrigativa e losca ragazza di cui Odell si innamora – Nessuno si comporta come dovrebbe comportarsi. Né i politici che ingrassano con i soldi dei lobbysti, né i predicatori televisivi a caccia di donne, né gli sbirri e neppure io, per questo non mi lamento come dovrei”.

Non si lamenta neppure Odell, nonostante l’incredibile serie di sventure che gli capitano. E nel suo essere in qualche modo vicino al “buon selvaggio” di Rousseau forse possiamo trovare una possibile speranza per il futuro. In un mondo falso e violento, un uomo di un metro e novanta che si commuove leggendo sempre lo stesso libro per ragazzi è un patrimonio da tutelare. Così come il talento di Krol.

02 luglio 2007

Le braccia forti di Phil

“Ciò che fa grande una storia è l’elemento umano”. Phil LaMarche, 31enne scrittore statunitense che debutta in Italia con il suo primo romanzo “American Youth – Un omicidio involontario” (Bompiani), ha le idee chiare su ciò a cui deve puntare la letteratura: descrivere la condizione umana. Timido e pacato, ma con braccia forti - nella tradizione dei più solidi scrittori dell’America rurale – Phil LaMarche, a Milano per il lancio del suo libro, ha scritto un romanzo di formazione d’impianto classico, che però prova a fare luce su alcuni aspetti controversi della realtà americana come la diffusione delle armi e le bande giovanili politicizzate. “American Youth” è infatti il nome di un’associazione di giovani conservatori che avvicinano il protagonista del romanzo, l’adolescente Ted LeClare, dopo che questi viene messo sotto inchiesta per l’omicidio di un coetaneo, ferito a morte da un colpo partito dal fucile del padre di Ted, seppur sparato dal fratello della vittima. Ma su Ted pesa il sospetto di avere mostrato l’arma ai due amici e di avere caricato il proiettile fatale. Nel periodo necessario per lo svolgimento delle indagini di polizia il ragazzi attraverserà la propria linea d’ombra e, non senza sofferenze, arriverà a diventare più maturo e consapevole.

Le recenti stragi nei campus universitari degli Stati Uniti hanno portato una volta di più sotto i riflettori della cronaca il tema del possesso delle armi. Nel romanzo di LaMarche però emerge anche un aspetto di cui in Europa si sa poco, ossia il forte legame che unisce molta gente comune, non dei fanatici estremisti, alle proprie armi. “Quando mio padre ha lasciato casa nostra per trasferirsi per lavoro – ha raccontato LaMarche – mi ha messo un fucile sotto il letto e mi ha detto di usarlo nel caso la nostra famiglia fosse stata minacciata. Vivevamo soli in una casa di campagna e l’arma rappresentava una forma di protezione”. Dalle pagine del romanzo, poi, emergono altri aspetti di cui dall’altro capo dell’Atlantico forse si parla poco, come il senso di legame con il passato che le armi trasmettono. “C’è un’idea di tradizione – ha aggiunto LaMarche – quando Ted prende in mano il fucile del nonno e sente di avvicinarsi alle proprie radici”. Un altro tema d’attualità nel romanzo sono i gruppi giovanili ultra-conservatori che si muovono tra richiami allo spirito originario degli Stati Uniti e atti di vandalismo. “Questi gruppi – ci ha detto LaMarche – sono comunque delle piccole minoranze e nel mio romanzo volevo mettere in evidenza il loro essere in fondo impotenti, vorrebbero essere violenti ma non sono abbastanza capaci per riuscirci davvero”.

Accostato dalla critica a Cormac McCarthy, LaMarche si avvicina all’illustre collega nella capacità di raccontare un mondo fatto per gli adulti che è però popolato di ragazzini. “McCarthy – dice il romanziere – ha uno stile più forte e accattivante del mio, e al momento scrive cose ideologicamente più interessanti. Quando leggo i suoi libri, o quelli di Hemingway, Faulkner o Flannery O’Connor, cerco di prendere qualcosa da loro e di rielaboralo a modo mio. In fondo – ha ammesso LaMarche – credo che sia vero l’aforisma che dice che i libri sono fatti di altri libri”. Ma accanto alle suggestioni dei grandi autori il romanzo nasce anche dall’esperienza diretta dello scrittore che, da buon docente di scrittura creativa, ha ben chiari i processi che portano alla creazione di personaggi attendibili: “Ho attinto dalla mia esperienza personale – ha spiegato LaMarche – ma poi ho dovuto permettere ai personaggi di diventare qualcosa di diverso e indipendente. Ho alzato il volume delle mie emozioni per dare maggiore drammaticità alla storia. In pratica ho esteso la mia vita”.

06 giugno 2007

Un presente alternativo e ghiandolare

Un mondo in cui accanto agli americani vivono i neutrodini e i Fetidi, dove la chirurgia estetica, che si avvale di organi di animali, serve a deformare più che ha ricostruire, dove le leggi cambiano di minuto in minuto - ma è possibile infrangerle se si possiede una dispensa e allora verrà punita la persona più vicina - e a cicli trentennali si verificano le Dimenticanze. E' questo l'universo alternativo che esce dalla scrittura potente di David Ohle, romanziere americano che travalica i generi e inventa un nuovo presente, fatto di umori corporei e satira sociopolitica, che oggi si presenta al pubblico italiano nel libro "L'Era di Sinatra", tradotto e pubblicato nel nostro Paese da Isbn edizioni con il significativo sottotitolo "Un romanzo molto strano". Un'opera senza dubbio degna dei migliori lavori del nostro Trout!

Quello dei romanzi di Ohle - scrive Mario Bonaldi nell'introduzione - è il mondo come si sarebbe sviluppato se una dozzina di miliardi di anni fa la materia si fosse aggregata con un atomo in più o in meno. La differenza, per diventare tale, può dipendere da uno scarto minimo, infinitesimale, delle condizioni di partenza". Basta questa piccola differenza però per dare vita a esseri che restano umani nelle emozioni e nei comportamenti, e forse soprattutto nelle assurde dinamiche che governano il potere, ma che fisicamente assomigliano a degli ibridi postmoderni e richiamano alla mente le figure della serie "Cremaster" dell'artista Matthew Barney. A metà strada tra la fantascienza - da cui mutua per esempio il tema del dopo-catastrofe, in questo caso rappresentata dall'ultima Dimenticanza - e la letteratura visionaria di Kafka, Beckett o William S. Burroughs, di cui la leggenda vuole che Ohle fosse il trascrittore dei sogni, "L'Era di Sinatra" è un romanzo che incide la pelle del lettore con la stessa precisione con cui i chirurghi sostituiscono i cuori umani con quelli di maiali o pecore, magari mettendone quattro - come nel caso del protagonista Moldenke - per compensare la minore capacità vascolare.

"Io tendo a considerare le mie opere - dice David Ohle in un'interessante intervista del febbraio 2007 - in modo tutto sommato tradizionale, gli altri in genere no. Credo che il genere più appropriato sia quello cosiddetto di 'narrativa speculatva', che include anche sci-fi e fantasy". Nelle pagine di "L'Era di Sinatra", che è il seguito del romanzo culto "Motorman" che Ohle pubblicò nell'ormai lontano 1972 , ci sono però anche molti riferimenti alla politica e all'attualità, oltre a frequentissimi richiami all'omicidio di John F. Kennedy, episodio che, per ammissione dello stesso romanziere, "è stato un evento di enorme importanza nella mia vita, proprio nel momento in cui stavo iniziando a scrivere seriamente". E nelle pagine del libro si scopre che la religione ufficiale degli Stati Uniti è il culto di Arvey, ossia Lee Harvey Oswald, che continua a proclamarsi innocente dall'accusa di avere sparato al presidente Kenny.

Ancora più attuali poi i riferimenti al governo oppressivo e umorale del presidente Ratt, paragonato da Bonaldi al Rufus T. Firefly di Groucho Marx, che domina con falsa benevolenza la vita del Paese e crede nel principio del "tutto in equilibrio". Moldenke sarà coinvolto, sebbene senza eccessivo slancio, in un complotto contro il leader che però, gattopardescamente, alla fine non produrrà grandi cambiamenti di linea politica. "Per me Ratt - ha detto Ohle - rappresenta ciò che c'è di implicitamente oppressivo in tutti i governi". Poi la stoccata a Bush: "Per quanto riguarda quello attuale, tutto considerato, è il peggiore, più distruttivo, più antiamericano, più razzista governo della storia americana, e non solo per il disastro in Iraq". Ma anche nelle situazioni più disperate, sembra dirci il romanzo di Ohle, conviene continuare a coltivare la nostra umanità.

13 maggio 2007

Ivato Airport

Il buio è diverso, ad Antananarivo
L’aria fuori dal Jumbo sa di umidore
Le luci sono fioche e il mondo lontanissimo
Soltanto la Via Lattea splende

Era qui che dovevamo arrivare
Mi dici con gli occhi in fiamme
Credo di sì
Io ti rispondo
Ed io ti ho amato mentre parlavi con un fisiatra
Di Melegnano
Che aveva girato tutta l’Africa
Con sua moglie francese
E il visto a 15 dollari
E le guardie di frontiera che sembravano bambini
Come nei sogni, le proporzioni erano irregolari
E ciò che ti aspettavi grande era minuto
Ma il cielo, quello sì, restava immenso

Abbiamo preso un taxi, l’autista era sfregiato
Forse dal labbro leporino
E il suo francese divertente, “merscì” diceva per ringraziare
Fuori la notte che non immaginavo
Dentro noi due sperduti nel cuore del Madagascar

Era qui che dovevamo arrivare
Mi hai detto
E io non ti vedevo seduta accanto a me
Era qui che volevamo arrivare ti ho risposto
Parlando alla notte
E tu mi hai preso la mano

Mi chiamo Riccardo Monzelletti
Tra pochi giorni avrò 35 anni
La stessa età, se non ricordo male,
di Dante, quando intraprese il viaggio nella Commedia

Mi chiamo Riccardo Monzelletti
Tra pochi giorni avrò 35 anni

Mi chiamo Riccardo Monzelletti.

12 maggio 2007

Ancora su Safran

Oltre a essere un magnifico scrittore, mi sono accorto che Jonathan Safran Foer è anche un sarto, un piccolissimo sarto che con le sue quasi invisibili forbici fatte di parole si insinua sotto la mia pelle emotiva come un acaro e me la taglia e sfila centimetro dopo centimetro, lasciandomi completamente indifeso davanti alle enormi emozioni che “Molto forte, incredibilmente vicino” scatena. E l’ondata che a quel punto mi travolge è assoluta e incontrollabile. La tempesta perfetta. Come essere nudi nella bufera, e sentire ogni singolo fiocco di neve sulla propria pelle. Unico, anche meraviglioso. Solo che si rischia di restare assiderati. E Safran, in questo incapace di compromessi, ci prende, ci sconvolge, ci frulla nella sua prosa elegante e imprevedibile, quindi ci scaglia lontano, in territori sconosciuti, dove fatichiamo a riprendere il contatto con la realtà, una volta che – volenti o nolenti – dobbiamo chiudere il libro.

Kilgore non riesce a smettere, la vita cartacea prende il sopravvento su quella reale e lo vediamo aggirarsi per le vie di Milano con gli occhi fissi sulla pagina. Prima o poi prenderà un palo in faccia, ma forse sarà tanto preso da Safran che non sentirà neppure tanto male.

(La vita con la V maiuscola dove sta? A leggere Safran verrebbe voglia di rispondere “Nei libri”. Ma potrebbe anche essere una risposta pericolosa. Kilgore lo sa, ma non baratterebbe il suo essere lettore con nient'altro).

Post Scriptum per Maria Adele: non ti ringrzierò mai abbastanza per avermi fatto leggere un libro che mi ha fatto scendere due lacrime perfino durante un pranzo al Cantinone. Forse c'è speranza che il mondo migliori.

Post Post Scriptum:

Barcollo, come ubriaco, per piazza Repubblica
Stordito dalla prosa di Safran Foer
E penso che sia vero,
che qualunque cosa vale la pena
che tutto è nostro, se lo vogliamo
che in fondo a quella scatola dove tenevo
delle fotografie sbiadite
ci sono pure delle risposte
che ogni libro parla esattamente di me
che le ragazze sono tutte un sorriso
che la città ti rende quello che ha preso
prima che venga sera

10 maggio 2007

Essere Oskar Schell

Devo alla mia carissima amica Maria Adele la scoperta di Jonathan Safran Foer. O meglio, chi fosse e cosa avesse scritto mi era ben noto, ma è grazie a lei che ho deciso di leggerlo. E grazie a lei sono rimasto folgorato dalla bellezza quasi insostenibile di “Molto forte, incredibilmente vicino”. Confesso di essere un vero neofita di Safran, finora ho letto solo 120 pagine del suo secondo romanzo, ma sono state sufficienti per convincere Kilgore di essere di fronte a uno scrittore di immenso talento.

Al centro del romanzo c’è un bambino (“ragazzino” dice lui almeno in un’occasione) geniale e problematico, alle prese con la morte del padre e la scoperta di una vita che è fatta di lettere a Stephen Hawking ma anche di segreti dolorosi. Ma quello che più colpisce dell’intraprendente Oskar Schell è il suo essere un personaggio universale. Le sue stranezze sono le nostre, il suo peregrinare per le vie di New York siamo noi che camminiamo in tutti i posti del mondo, il suo affetto per la nonna è l’essenza di ciò che – in fondo alla nostra natia ingenuità – dà un vero senso all’esistenza. Oskar ha sette anni, fa cose strane, vive di manie. Eppure è stupefacente come Safran ci faccia capire che in fondo lì c’è già tutto e che se non sentiamo il bisogno di essere Oskar finiremo per impazzire. E proprio nell’essere pazzi come lui si può trovare un barlume di senso nelle cose che accadono intorno a noi.

Safran Foer scrive magnificamente e, per quanto straordinarie siano le storie che ci racconta, alla fine è la sua scrittura a catturare, è la sua cadenza a farci desiderare di leggere non tanto per scoprire cosa succede, ma per vedere come lui lo racconta. E la cosa che più colpisce è capire che Safran, pagina dopo pagina, frase perfetta dopo frase perfetta, sta parlando esattamente di noi.

Come tutta la grande letteratura - e di questo Kilgore è radicalmente convinto – anche Safran ci restituisce una fotografia della vita che è molto molto molto più reale di quello che ciascuno di noi sperimenta ogni giorno. Senza paragoni. Questo pensiero ogni volta mi colpisce in profondità e mi convince che il tempo che dedichiamo ai libri – e alla loro folle malia – non è sottratto alla “vita”, ma è vita a un altro livello, che in certi fortunati casi, come quello di Jonathan Safran Foer, si rivela essere anche un alto livello. Grazie Mimì per i tuoi preziosi consigli, ti devo un favore.

12 aprile 2007

Good bye Tralfamadore

Kurt Vonnegut è morto oggi a 84 anni. Aveva picchiato la testa cadendo in casa e nell'incidente aveva riportato danni cerebrali che si sono rivelati fatali.

Per Kilgore è come perdere un padre: il nostro modesto magazine deve infatti il proprio nome a un personaggio, forse IL personaggio, creato dalla mente di Vonnegut. Kilgore Trout. Scrittore di fantascienza fallito che vive ai margini della società e che vede pubblicizzati i propri libri - lucidi deliri intitolati per esempio "Ora si può dire" - con fascette che allettano il lettore con frasi del tipo "All'interno tope spalancate". Kilgore Trout che insegue il suo creatore implorando furioso: "Fammi giovane". Kilgore Trout a cui sui piedi si applica una patina azzurrognola d'inquinamento e che nella sua vita ha ricevuto una sola lettera di ammiratori nella quale Eliot Rosewater si augurava che fosse nominato "presidente del mondo". Ecco, questo è Kilgore Trout, e questo siamo noi, ed è anche Kurt Vonnegut. L'abbiamo già scrito, lo ripetiamo: "Dio la benedica, mister Vonnegut".

Nel suo ultimo libro apparso in Italia Vonnegut scriveva: "Non c'è motivo per cui il bene non possa trionfare sul male, se solo gli angeli si dessero un'organizzazione ispirata a quella della mafia". Difficile dargli torto.

In uno dei suoi romanzi c'è una pietra tombale sulla quale il defunto ha voluto che fosse scritto "Ci provò". Idealmente anche noi - da oggi un po' più orfani - vogliamo scrivere la stessa frase per Vonnegut e deporre un fiore nel suo prato. E dietro a Kilgore ecco che sfilano tutti gli altri personaggi: da Billy Pilgrim a Circe Bernam, da Rabo Karabekian a Dwayne e Celia Hoover, da Howard J. Campbell a Terry Kitchen. E chiediamo scusa a tutti gli altri che, forse vinti dalla commozione, abbiamo dimenticato. Ma sono comunque tutti in fila qui dietro per dire ciao al buon vecchio Kurt.

Così va la vita.

09 aprile 2007

Before Landing

Un nastro di luce si batte
Contro la notte che incombe
E l’allontana, forse sogna di vincerla
Ma in fondo soltanto allunga
Dolce l'agonia vespertina

Le città sono ragni arancione
Ideogrammi alieni
La cui geometrica determinazione
Si perde incomprensibile
Nella stratificazione urbana
Che ne ribalta la prospettiva

Nel mio di buio
(si atterra infatti a luci spente)
Io provo a non dimenticare come si scrive
Il tuo e molti altri nomi
Che giorno dopo giorno vedo affannare
Oltre la siepe - e la distanza - di un libro

Ritratti e identità

Una mostra per scoprire come sta cambiando il ritratto fotografico e anche per riflettere su come si evolve il volto umano. "Faccia a faccia", esposizione curata da William Ewing in corso presso il Centro internazionale di Fotografia Forma di Milano, è un viaggio attraverso le ultime tendenze della ritrattistica, che spesso abbandona il terreno del naturalismo per entrare nel campo della sperimentazione e della manipolazione digitale. "Negli ultimi anni - ha spiegato il curatore Ewing - il corpo ha perso centralità nell'attenzione dei fotografi ed è stato sostituito dalla sua parte più importante: la faccia. Ora il volto è però inteso come un paesaggio da investigare, che oltretutto sta cambiando molto in fretta grazie alla chirurgia plastica e all'ingegneria genetica, ma anche per i mutamenti legati alle diverse teorie sulla nutrizione". Il volto, insomma, nuovo campo di battaglia della ricerca artistica dei fotografi, che sperimentano e ricercano nuove forme di interpretazione. Cui Kilgore guarda con grande interesse.

La mostra milanese presenta oltre 100 opere di 40 fotografi e il percorso parte idealmente da uno scatto di Robert Walker, reporter di strada, che ha bloccato una serie di volti di persone reali stretti tra i quelli, patinati e irraggiungibili, della pubblicità. "E' una sorta di anticipazione del futuro - ha spiegato Ewing - quando sceglieremo su dei cataloghi gli occhi, il naso e la bocca dei nostri figli". La tipologia di ritratti presentati allo spazio Forma è vastissima: dalle fotografie mediche per documentare delle patologie oculistiche ai ritratti dei cadaveri - inaspettatamente sereni - in una camera mortuaria; dalle fotografie di brandelli di carta colorata che ricordano le fattezze di un viso alle immagini multiple e sovrapposte. Tra queste ultime spicca il sorprendente "Volto del 2000", un'opera di Chris Dorley-Brown che ha elaborato in un unico viso i volti dei 2000 abitanti di un villaggio inglese, con età compresa tra i due e i 70 anni. Il risultato è straordinariamente armonioso perché, come ha spiegato Ewing, "più è alto il numero di soggetti che compongono il ritratto più è bello il risultato, perché il nostro concetto di bellezza si basa sulla media".

Le suggestioni e i percorsi artistici documentati dalla mostra sono numerosissimi, tra quelli di maggiore impatto spiccano i ritratti dei grandi del mondo firmati dal ceco Jirì David che ha ricercato, con grande fatica, immagini ufficiali nelle quali i vari Bush, Blair, Chirac, Putin e Berlusconi non apparissero forzatamente sorridenti e quindi, con un misto di manipolazione digitale e intervento pittorico, ha arrossato i loro occhi e vi ha aggiunto le proprie lacrime. Il risultato è di grande impatto e, spiega Ewing, "benché si tratti di finzioni, queste fotografie appaiono molto più vere delle immagini ufficiali". Di forte valenza "politica" anche gli scatti di Suzanne Opton, che ha lavorato con dei soldati americani: i suoi ritratti, che volevano essere il più possibile distanti dalla rigida marzialità, mostrano i giovani con la tempia appoggiata a terra, senza difese e senza pose. "Vittime sacrificali" - ha detto Ewing - che sembrano attendere il colpo mortale.

La tecnologia digitale interviene nel lavoro di molti tra gli artisti esposti: si possono ricordare le fotografie riprese con il cellulare da Virginie Otth, sorta di ritratti rinascimentali che poi, stampati in grande formato, mostrano tutti i limiti della tecnologia. Oppure lo scatto di Mathieu Bernard-Reymond che ha prima ritratto una signora con pellicola tradizionale, quindi ha scannerizzato l'immagine e l'ha fatta reinterpretare da un programma che genera paesaggi: il risultato è una figura intera calata in un panorama simile a un deserto che in realtà rappresenta il suo stesso volto. Un gioco di specchi virtuali che sintetizza i numerosi spunti di riflessione, anche al di là della fotografia, che la mostra milanese innesca.

16 marzo 2007

Kitano e l’amore impossibile

L'amore impossibile secondo Takeshi Kitano. A guardare da lontano il bellissimo film “Dolls” del 2002, e a leggere quanto dichiara lo stesso regista giapponese, questo dovrebbe essere il senso della sua opera (forse) più bella. Ma in realtà “Dolls” è un grandissimo film sull'amore a tutto tondo, in particolare sulla sua natura contraddittoria e intrinsecamente destinata alla delusione. Non è però – secondo Kilgore che di Kitano è un grande ammiratore - la negazione dell'amore quella cui si arriva, bensì la sua sublimazione, la sua perfezione devastante, quello che per Walt Withman è il noto "midollo della vita". Una teologia negativa, venata pure di violenza, ma straordinariamente struggente, un'aspirazione quasi alla Lessing a una purezza impossibile (perché il giovanotto si piega "al successo", perché lo yakuza sceglie il clan, perché il fanatico rinuncia a vedere la sua amata) ma in fondo appagante. E forse questa è la vera essenza della vita. Forse.

La vicenda tocca tutte le corde del romanticismo, ma Kitano è sempre abbastanza burbero da non diventare melenso, mentre una componente melodrammatica è indispensabile - Casablanca docet - e serve a portare il film due passi al di sopra della media. Kilgore confessa addirittura due momenti di lacrima: quando lo yakuza ritrova la donna che per anni lo aveva aspettato su una panchina il sabato e quando la ragazza si ricorda del ciondolo. Straordinario: viaggio alla radice profonda dei sentimenti umani.

Molto buono poi anche a livello di immagini: i colori sono potenti, la macchina da presa si muove con la disinvoltura di un autodidatta di genio e la violenza è sempre solo immaginata (e quindi più impattante). Eccezionali i silenzi alla Kitano e la devastazione muta dei protagonisti. E’ vero, talvolta al regista sfugge qualche inquadratura un po’ di maniera, ma il peccato mi pare veniale. Inquietantissimi i personaggi del teatro medievale Bunraku (Kilgore deve le spiegazioni tecniche all’amica Yoshino, grande esperta di cultura giapponese) che hanno occhi che indagano direttamente lo spettatore e sottendono la storia profonda dei due vagabondi legati, che trovano pace nel doppio suicidio, lo shinjuu.

Un’ultima cosa: mi pare che “Dolls” abbia molti punti in comune con i film di Kim Ki-duk. Che i due autori si siano influenzati a vicenda?

11 marzo 2007

Kevin Canty e i racconti perfetti

Undici racconti dal cuore degli Stati Uniti che fotografano i lati meno conosciuti della società americana e offrono, accanto a uno stile che regge il confronto con quello dei grandi maestri della narrazione breve, una lettura poetica e in fondo ottimista delle circostanze della vita."Tenersi la mano nel sonno" è il primo libro dello scrittore americano Kevin Canty a essere pubblicato in Italia - edizioni Minimum Fax - e nelle sue 150 pagine rinnova felicemente la tradizione della short story americana. "Sono un profondo ottimista - ha detto lo scrittore, che Kilgore ha intervistato a Milano - e benché non tutte le cose che ci capitano sianonecessariamente positive, credo che si possa arrivare a crescere e a migliorare anche attraverso il dolore". Un passaggio che si adatta perfettamente alla struttura dei racconti di Canty, neiquali un senso di minaccia e di pericolo è sempre presente sullo sfondo, ma spesso si stempera in una svolta positiva, in una ritrovata pace, che danno al lettore una sensazione di sollievo."Mi auguro - ha aggiunto lo scrittore - di riuscire a dare speranza".

Nato a Berkeley nel 1953, biondo e imponente, con una lunga serie di mestieri alle spalle, Canty scrive di una relazione complicata tra zia e nipote che pure, nelle profonde diversitàtra loro e passando per spazi ambigui e pericolosi, riescono in qualche modo a portare avanti il loro amore. Oppure racconta di un nonno che deve recuperare il nipotino lasciato solo a casa dalla madre drogata e in questo viaggio notturno e misterioso l'uomo trova una compagna inattesa. O ancora il matrimonio tra una ragazza che è stata obesa e il suo uomo insonne: dopo paginedi straziante precisione ecco la frase finale: "La nostra piccola storia va avanti un giorno in più". Racconti di periferia americana insomma, geografica e sociale, nei quali però non cisono solo drammi, ma anche la possibilità di una vita normale, pure nel caos e nelle difficoltà del presente.

Tra le undici storie di Canty spicca "Il vestito rosso", racconto dell'apprendistato alla vita di un ragazzino finalmente ammesso a servire come barman alle feste organizzate dai genitori. Si troverà a oltrepassare la propria linea d'ombra, a scoprire dei segreti su sua madre e infine a stabilire un rapporto di muto rispetto con lei. Il tutto in circa 12 pagine. Straordinario, un modello per il racconto perfetto. "E' un racconto nato per caso - ha spiegato Canty - dalla mia curiosità per un manuale sulla preparazione dei cocktail. Poi la storia ha preso una sua direzione autonoma, io non sapevo dove sarebbe andata a finire, e i personaggi si sono composti scrivendo. Non sono io il protagonista e i genitori non rappresentano i miei genitori". Un metodo di creazione delle storie che Kevin Canty adotta sempre: "Inizi a scrivere una storia - ha detto - partendo dal mezzo, poi il resto si compone strada facendo". Una certezza però c'è fin dall'inizio: la dimensione della narrazione. "Alcune storie nascono come romanzi, altre come racconti. Proprio perché alcune hanno bisogno di molte pagine, altre di poche". A differenza di grandi della narrazione breve come Carver o Cechov, Canty ha infatti al suo attivo anche tre romanzi e rivela di avere già idee anche per altri.

Nei racconti di "Tenersi la mano nel sonno" passano comunque molte delle inquietudini sociali dell'America: dall'alcolismo all'obesità, dalla malattia alla droga. Ma forse il vero filo rosso che unisce le storie è la narrazione delle molte forme della solitudine. "Io sono cresciuto in una grande famiglia dove non si era mai soli, ma per scrivere cerco di guardare agli altri, alle esperienze degli altri. Si è soli in tanti modi". E la letteratura per Canty può essere anche uno degli antidoti alla solitudine, oltre che un modo per crescere attraverso dei percorsi che ciascuno trova nella pagina scritta e che può poi forse declinare nella propria vita.

35 versi

Io devo andare
Disse comunque imprigionata
Dall’inquadratura
Resta, solo per un bicchiere
Per salutar la notte
Che ormai già ci condanna

Io devo andare
Dissero le sue corde vocali
Mentre smentivano il bioritmo
Non c’è più niente che tu debba fare
Salvo sognare che tutto questo
Accade

Io me ne sono andata, ormai da tempo
Disse il suo cuore immoto
Che l’avvinghiava allo schienale
Ma il tempo di un ultimo sorso
Di quel liquore che io,
povero astemio, non ho bevuto

Io devo andare
Fuori da questa scena stinta
Che la tua mente ancora filma
(Quale realtà oltre la cinepresa)
Se credi, allontanandoti,
Spegni la luce

Sui treni la notte
Incontro solo stranieri e ti rivedo
Quasi in ognuno di loro
Tanto lontana sono scappata
Perché il tuo odore
Mi abbandonasse

Fermati ancora, lo spazio
Di un sorriso e di un rimpianto
Ben assestato
Che nella calca, ieri l’altro,
Temo di aver perduto

22 febbraio 2007

Modest proposal per il Medio oriente

Non più guerra tra arabi e israeliani, non più bagni di sangue. Questo era lo slogan quando, a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, Sadat parlò per la prima volta di pace. Secondo me è possibile ripeterlo anche oggi”. E’ un messaggio di speranza per il Medio Oriente quello che l’ex ministro degli Esteri israeliano Shlomo Ben-Ami, protagonista con il premier Barak dei negoziati di Camp David del 2000, ribadisce oggi, pur a fronte di un clima che nella regione sembra farsi sempre più teso. In Italia per presentare il suo vasto saggio storico “Palestina – La storia incompiuta”, Ben-Ami - in unintenso incontro con il vostro Kilgore - chiarisce i termini del suo ottimismo e comunque ne circoscrive chiaramente i confini: “Non si tratta di una pace paradisiaca, non è un discorso che riguarda l’amore tra arabi e israeliani, ma solo il mettere fine alla guerra, creare una pace politica che si basi su confini internazionali precisi. Questo è il massimo obiettivo per la nostra generazione”.

La ricostruzione storica di Ben-Ami prende in considerazione più di un secolo di eventi legati alla presenza ebraica in Palestina e, con dovizia di dettagli, ricostruisce le basi della situazione politica attuale, fino a giungere a formulare una sua proposta per dare il via alla risoluzione del conflitto. In sostanza Ben-Ami considera chiuso il momento delle azioni unilaterali sul modello del ritiro da alcuni insediamenti portato avanti da Sharon e sostiene “un processo di pace totale che sia annesso alla Road Map e porti alla pratica imposizione di essa sui contendenti da parte di una coalizione internazionale di pace guidata dagli Stati Uniti”. In quest’ottica l’ex ministro e ambasciatore propone anche l’istituzione di un “protettorato internazionale” sui territori palestinesi. Si tratta di due problematiche complesse, sia perché gli Stati Uniti sono alle prese con un sempre più difficile impegno in Iraq, sia perché entità politiche come Hamas potrebbero vedere il protettorato come una sorta di nuovo giogo imposto alla loro terra.

“Usa e Hamas – ha ribattuto Ben-Ami – potrebbero essere due forze d’ostacolo sulla via della pace. In precedenza Washington è sempre stata molto gelosa del proprio ruolo di mediatore privilegiato ed ha guardato con sospetto al coinvolgimento di altri Stati. Ma ora le cose sono cambiate: l’esperienza in Iraq ha segnato la fine dell’unilateralismo - se non per Bush, sicuramente per il suo successore – e anche gli Stati Uniti hanno capito che da soli non si vince la pace. Per questo l’adesione americana al Quartetto che ha proposto la Road Map è il segno di un cambio di strategia”. Per quanto riguarda il protettorato, Ben-Ami ha voluto sottolineare che “i palestinesi non sono una tribù sperduta dell’Africa e noi non dobbiamo andare a insegnare loro qualcosa. Ma al momento se io, che pure sono una colomba, fossi primo ministro non accetterei uno Stato palestinese nelle condizioni attuali: troppa anarchia, venti diversi servizi di sicurezza, gruppi che agiscono al di fuori della legalità. Per questo – ha proseguito Ben-Ami – serve una forza internazionale che governi la transizione dell’Autorità palestinese verso forme di statualità più evoluta”. Per fare ciò l’ex ministro ha ipotizzato anche la presenza di una forza di peacekeeping che impedisca azioni come la distruzione degli insediamenti israeliani abbandonati.

Il saggio di Shlomo Ben-Ami tocca anche il tema della democrazia nei Paesi arabi, ed è significativo notare come sia “un’ironia della storia che gli unici arabi al mondo ad avere diritto sovrano di eleggere i propri leader in elezioni pienamente democratiche sono proprio coloro che vivono sotto l’occupazione israeliana”. D’altro canto oggi l’esportazione dei metodi democratici in Medio Oriente aprirebbe probabilmente la strada a una serie di democrazie islamiche. “Non ci sono alternative – ha detto Ben-Ami – alle vittorie elettorali dei movimenti islamici oggi, perché nei Paesi arabi non ci sono le condizioni per il passaggio a una democrazia liberale: mancano la classe media, lo sviluppo economico e c’è troppa disparità tra i ricchi e i poveri. Il problema, comunque, è anche una responsabilità dell’occidente che ha imposto leader concilianti, visti dalle masse arabe come fantocci”. A fronte di queste considerazioni l’ex ministro non vede che una soluzione: “Occorre dialogare con l’Islam politico, distinguendo tra movimenti radicali come i Fratelli Musulmani e partiti che, come nel caso della Turchia o di Hamas in Giordania, partecipano legalmente alla vita politica. Al momento della vittoria elettorale di Hamas – ha aggiunto Ben-Ami – Olmert ha perso l’occasione di scambiare la legittimazione del movimento islamico con un’apertura al dialogo”.

Ben-Ami si definisce un sionista, e nel suo libro avanza una lettura del definitivo successo di questo progetto: “Se Israele – scrive nelle conclusione del saggio – riduce le sue ambizioni territoriali successive al 1967 e riconosce che la fase territoriale del sionismo sia giunta al termine, potrà essere finalmente decretata la vittoria del movimento”. Il concetto, che in Europa o negli Stati Uniti può apparire chiarissimo e lineare, potrebbe essere più controverso in Israele, dove il conflitto e le sue tragiche conseguenze sono una realtà tangibile e quotidiana. “Ma io credo – ha ribattuto Ben-Ami – che oggi la classe politica e la società israeliana siano pronte a fare questo passo. Il premier Olmert nel 2000, quando era sindaco di Gerusalemme e militava nel partito Likud, ha definito traditori noi che trattavamo gli accordi di Camp David. Oggi ha cambiato idea e si spinge a valutare positivamente la proposta rilanciata dall’Arabia Saudita, che è più radicale rispetto al nostro progetto di allora. Il problema – ha aggiunto Ben- Ami – non è stabilire se i governanti hanno capito che i confini del 1967 sono la soluzione, perché lo hanno capito. Il problema è se hanno la volontà e il coraggio politico di mettere in pratica questa soluzione”.

La pace tra israeliani e palestinesi passa comunque attraverso il più ampio discorso della stabilità regionale, che in questo momento appare minacciata anche dalle ambizioni nucleari dell’Iran del presidente Ahmadinejad, nemico giurato dello Stato ebraico. Anche in questo caso però Ben-Ami difende la via diplomatica: “Occorre insistere con le pressioni – ha detto – per mettere Teheran di fronte al prezzo dell’isolamento internazionale, un conflitto tra Usa ed Iran oggi sarebbe devastante per la regione”. L’ambasciatore poi ha nuovamente spostato il discorso sulla Palestina: “L’Iran – ha detto - è il principale nemico del processo di pace, perché vive del conflitto israelo-palestinese. Se questo venisse meno Teheran si troverebbe a essere additato per quello che è, ossia il reale nemico del mondo arabo”.

05 febbraio 2007

Everyman, di nuovo Philip Roth

“I dilettanti sono alla ricerca dell’ispirazione; gli altri si alzano e vanno a lavorare”. E’ una frase di “Everyman”, il ventisettesimo libro di Philip Roth che esce in questi giorni in Italia, che rispecchia bene il senso di una carriera letteraria, quella di Roth stesso, che con il passare degli anni diventa sempre più ricca e a cui, a detta di molti, manca solo il premio Nobel. Ogni anno Kilgore aspetta tifando che da Stoccolma arrivi il nome dell’ottimo Philip, ma ahinoi, finora le attese sono andate deluse, nonostante la serie infinita di miracoli letterari che lo scrittore ha mandato in libreria dal 1995. Aspetteremo...

Everyman” è un romanzo che si apre con il funerale del protagonista ed è impregnato del senso tragico del confronto con la vecchiaia e la morte, simboleggiato anche dalla copertina, completamente nera, nonostante da sempre sia il bianco il colore che contraddistingue i libri Einaudi. Salutato dalla critica statunitense come un capolavoro, “Everyman” è un altro tassello di una riflessione sulla mortalità – e di conseguenza anche sul senso della vita – che Philip Roth sta portando avanti già da diversi romanzi, basti pensare a titoli come “Il teatro di Sabbath”, e “L’animale morente”.

Oggi 73enne, Roth racconta in “Everyman” - titolo che in inglese significa qualcosa come “ogni uomo” ed è riferito al nome della gioielleria del padre del protagonista - della solitudine di un uomo di fronte alle malattie, al decadimento fisico e ai fallimenti nella vita privata. Come molti altri grandi scrittori, anche Roth torna in fondo alle tematiche classiche del suo lavoro, nel quale anche in questo caso, non mancano né un’amara ironia né l’irriverenza vitalistica di chi vuole continuare ad affermare la propria esistenza, al di là dell’età biologica. La presenza della morte è comunque tangibile pagina dopo pagina, ma non c’è morbosità o autocompiacimento. “In pochi minuti – scrive Roth in conclusione della magistrale scena del funerale – tutti erano andati via, avevano voltato le spalle, stanchi e lacrimosi, all’attività meno gradita della specie, e lui rimase indietro”. Lui, sia detto per inciso, è il defunto.

La storia del protagonista di “Everyman”, che non ha nome, è quella di un pubblicitario di successo e grande fascino che ripercorre la propria vita e le proprie malattie, i propri amori e le delusioni che ne sono seguite. Come in altri magistrali libri di Roth, anche in questo sullo sfondo aleggia il rimpianto per la perfezione dei giorni dell’infanzia sulle spiagge del New England, ma la riflessione dell’anziano sugli anni passati è inesorabilmente velata di amarezza. E il sentimento più straziante che coglie il protagonista è il rimpianto per i propri errori, che la prospettiva della morte rende, come ogni altra cosa, irreversibili. “Quest’uomo in genere pacato - scrive Roth in un passaggio intenso – ora si batteva furiosamente il pugno sul cuore come un fanatico immerso nella preghiera e, assalito dai rimorsi non soltanto per qualche errore ma per tutti i suoi errori, tutti gli stupidi, inesorabili, inestirpabili errori che aveva commesso”.

Io non so neanche cosa sia l’ispirazione”, ha detto lo scrittore in un’intervista ad Antonio Monda, e quindi, rifacendosi alla citazione iniziale, non resta che attribuire al grande lavoro di Philip Roth l’impressionante serie di romanzi di primissimo da lui piano pubblicati negli ultimi anni. Forse “Everyman” non raggiunge le vette de “Il teatro di Sabbath” o “Pastorale americana” o “Il complotto contro l’America”, ma resta l’ennesima prova di un talento letterario che ha raggiunto i suoi vertici nel pieno della maturità. E che può permettere a Roth di scrivere candidamente una frase come questa: “Io credevo, dentro di me ne ero certo, che la vita durasse in eterno”. In pratica la sintesi perfetta del principale dilemma umano.

24 gennaio 2007

Ryszard Kapuscinski

Mi ha insegnato a guardare all’Africa e mi ha accompagnato, con i suoi libri, il giorno in cui ho deciso di viaggiare in quel continente. Solo per questo gli dovrei essere molto grato. Lui è Ryszard Kapuscinski, giornalista, scrittore e viaggiatore instancabile, morto ieri notte a 74 anni. Kilgore ha amato le pagine africane di “Ebano” e quelle siberiane di “Imperium”, ha conosciuto l’Iran grazie a “Shah-in-Shah” e ha guardato con altri occhi alla professione giornalistica dopo aver letto “Autoritratto di un reporter”. Il suo ultimo libro organico, “In viaggio con Erodoto”, è stato come un ritorno a casa per chi, come me, è cresciuto a pane e storia. Inutile negarlo: senza Kapuscinski non sarà più la stessa cosa.

Per quel che vale anch’io voglio ricordare un giornalista che andava a piedi e stava sempre dalla parte dei deboli e dei dimenticati. Credo che questo da solo basti a farne un laicissimo eroe dei nostri tempi. A me resta l’onore di avere recensito i suoi due ultimi libri, anche se il rimpianto per non averlo conosciuto di persona è grande. Arrivederci Ryszard.

23 gennaio 2007

Il fantasma di RFK e quello del cinema

Una ferita ancora aperta, una storia di quasi 40 anni fa che però ci parla di oggi, un racconto corale che si ispira ad Altman e che persegue anche un evidente intento politico. Il film “Bobby” di Emilio Estevez – sceneggiatore, regista e attore – è una grande ed appassionata elegia della figura e dell’azione politica di Robert Francis Kennedy, il fratello minore di JFK, ucciso in una frenetica notte losangelina nel momento in cui sembrava destinato a ripercorrere i passi del fratello verso la Casa Bianca. Un’altra favola politica interrotta che una parte dell’America non riesce a dimenticare e che il film di Estevez trasforma, pur con ottime intenzioni, in un’agiografia. Genere che, quando si parla di politica, è sempre un po’ pericoloso.

A voler essere crudi si potrebbe scrivere che “Bobby” è, in ultima analisi, un polpettone retorico. Il giudizio ci sta, ma se si guarda più a fondo si scopre che, sotto la noia della prima parte e dietro la visione quasi messianica di RFK (che appare solo nelle vere immagini di repertorio, come una divinità che non è lecito ritrarre), ardono alcune braci interessanti: dai bei personaggi femminili di Sharon Stone, Ellen Hunt e Demi Moore - gli unici caratteri veramente complessi del film – all’idea del regista di costruire un intreccio polifonico che troverà un punto comune nel momento degli spari di Shiran Shiran. Bene anche l’unità di luogo, l’Hotel Ambassador, che ricorda i dettami del teatro classico, mentre quella di tempo – ufficialmente presente - viene rotta dai discorsi del senatore e dalle immagini dell’epoca.

Ma poi vengono i dubbi. Dagli smaccati, e un po’ poco originali, parallelismi tra il Vietnam e l’Iraq all’eccesso di zucchero di certi personaggi e certe scene, dall’edulcorazione dei conflitti razziali alla banalizzazione dei sentimenti. Ma soprattutto a Kilgore gira per la testa una strana sensazione: “Bobby” è un film, ma forse non è cinema. Provo a spiegarmi: l’obiettivo della pellicola va oltre la creazione artistica, e questo ci può stare, ma le emozioni che si provano in sala (e a volte sono intense) non nascono dalla sceneggiatura o dalle inquadrature o dall’interpretazione degli attori bensì dalla Storia, quella che si studia a scuola, dai discorsi veri di Robert Kennedy, dal destino tragico che lo ha colpito.

Pensate a un altro film di grande successo e costruito con una certa coralità di personaggi, “Schindler’s List” di Steven Spielberg: è ovvio che anche in quel caso era la Storia a dare tragicità al racconto filmico, ma le emozioni nascevano anche dalle scelte del regista su come raccontare l’Olocausto. La drammaticità stava nel ruolo ambiguo del nazista Amon Goett-Ralph Fiennes, nella scelta di mettere una sola macchia di colore, nella tutt’altro che santificabile personalità dello Schindler di Liam Neeson. Tutte scelte del regista, tutte implicazioni cinematografiche. In “Bobby” invece tutta l’emozione viene convogliata sul senatore Kennedy e le storie dei vari personaggi più o meno anonimi, che pure “sono” il film, sembrano scomparire accanto a lui, che pure non è impersonato da nessun attore, e anche questo, a ben guardare, allontana il film dal cinema.

Resta l’emozione umana e, se la si condivide, quella politica. Resta la commozione e il senso di smarrimento di fronte alla violenza. Resta la sensazione che se il Vietnam nasconde l’Iraq la morte di Bobby ci parli di una tragedia collettiva a noi più vicina, come l’11 settembre. Resta il dubbio su ciò che sarebbe potuto succedere se RFK avesse davvero corso contro Nixon per la presidenza degli Stati Uniti. Ma, come vedete, resta poco di cinematografico. A parte la sensazione che troppi divi forse possano soffocare un film, come succede nel caso di Anthony Hopkins, che ormai può solo interpretare se stesso.

10 gennaio 2007

L’anima nera del nuovo James Bond

Un prologo in bianco e nero sgranato che da solo vale quasi il prezzo del biglietto. Casino Royale, primo film del James Bond di Daniel Craig, si apre infatti con una serie di inquadrature che sono un omaggio alla storia del cinema: dai tagli vertiginosi dal basso cari a Orson Welles, al “correlativo oggettivo” (Montale mi perdoni) dello sguardo muto della macchina da presa di Hitchcock, alla violenza non mediata di Tarantino. Pochi minuti nei quali fa la sua comparsa un Bond fresco di nomina ad agente “doppio zero” che mette in mostra una carica di ambiguità e un’anima nera finora inedite per il personaggio. Straordinario.

E’ davvero una sorpresa piacevole di inizio anno questo Casino Royale, capace di uscire dal girone dei film di puro intrattenimento (cosa che peraltro fa molto bene) per collocarsi a pieno titolo – almeno a parere dell’aspirante cinefilo Kilgore – tra le opere più complesse e degne di nota. Craig è perfetto: il suo Bond getta a mare tutti gli aspetti da macchietta - non ce ne voglia l’ottimo Sean Connery che ha tutta la mia ammirazione, soprattutto da quando ha la barba – e costruisce un personaggio duro, violento, sfumato, meno gratuitamente ironico, perfino capace di disperazione. Come una traduzione dell’ideale hemingwayano del “Fare bene ogni cosa” – dalla guerra all’amore nell’idea dello scrittorone americano – il Bond di Craig sa uccidere a sangue freddo, catapultarsi nel vuoto, schivare un ostacolo improvviso in macchina a 200 all’ora. Ma sa anche che quando Vesper – a cui dice “Ti Amo”, questa sì che è una rivoluzione copernicana rispetto al machismo – piange sconvolta rannicchiata sotto la doccia, la cosa giusta da fare è mettersi seduto, in smoking, accanto a lei e scaldare un po’ la temperatura dell’acqua. Io ho impiegato cinque anni di matrimonio per capire che è esattamente così che ci si deve comportare in certe situazioni. Il Bond di Craig lo fa con una naturalezza – che depone ovviamente a favore della sceneggiatura – davvero meravigliosa.

Ma andiamo con ordine. Dopo l’eccellente attacco in bianco e nero ambientato a Praga, forse indiretto omaggio a Kafka, ecco che i titoli di testa sono un’altra bella sorpresa. Senza rinunciare al tradizionale stile cangiante e un po’ barocco che ha contraddistinto tutti i film di 007, questa volta l’esito è affascinante, grazie alla grafica computerizzata e alla eccezionale definizione. A questo punto siamo quasi in paradiso, ma non mancano le note meno liete: la lunga sequenza ambientata – a quanto ci dicono – in Madagascar è uno sfoggio di numeri da circo e balzi mozzafiato che però abbiamo già visto (non se ne può più della lotta sulle gru o sui ponteggi!!! Vi prego) e alla fine diventano quasi noiose. Stessa sensazione di latente deja vu anche quando l’azione si sposta alle Bahamas (dopo un breve ma intenso momento londinese tra Bond e il suo capo M): la bella che cavalca in riva al mare ha un retrogusto un po’ troppo anni 70. Ma è solo un attimo, da questo momento in avanti il film si riprende, seppur senza fretta, e ci offre le belle sequenze di Miami (bravo Claudio Santamaria, con l’espressione monocorde del terrorista), soprattutto quelle al museo e sulla pista dell’aeroporto.

Il vero clou del film è però ambientato in un Montenegro di sorprendente bellezza (sarà proprio così ci chiedevamo stupiti al cinema con gli amici Tom e Filo, ma qual è la capitale? Forse ha un futuro da meta di turismo internazionale...). La lunga scena del duello a poker tra Bond e il banchiere dei terroristi Le Chiffre, che piange lacrime di sangue, è cinema allo stato puro: magari senza elucubrazioni, ma di una concretezza filmica mirabile. Se a questo si aggiungono le ulteriori caratterizzazioni nuove del Bond di Daniel Craig (ammette – in qualche modo – di essere uno di quei disadattati che il governo assume per fare le cose peggiori, è tutt’altro che elegante di natura e tra i ricchi il suo corpo muscoloso tradisce un qualche imbarazzo sociale) ecco che il quadro si completa divenendo sempre più affascinante. E il contributo di Eva Green-Vesper è molto più importante di quello di un Giancarlo Giannini che ogni volta mi fa pensare all’Enel.

Mi sto dilungando troppo, devo stringere. Il film si alimenta dei continui tradimenti, oltre che di scene che esulano dal grigio terreno del verosimile (ma è tipico di un certo grande cinema farne a meno, vero Kusturica?) ma restano fedeli alla nuova filosofia di questo 007 capace di amare, di sopportare con dignità la tortura, perfino di covare il rancore di un innamorato tradito. Se il crollo del palazzo a Venezia è ridondante, la scena della morte di Vesper ha qualcosa di tristemente magico (mi fa pensare a Big Fish di Tim Burton). Il mondo esterno, intanto, è pieno di gente che tradisce, ma lo fa con ambiguità, con contorni grigi, con problemi di coscienza che, pure loro, sorprendono per l’ampiezza delle sfumature. La Guerra Fredda, che M in una memorabile battuta dice di rimpiangere, è proprio finita.

E siamo all’epilogo, quando il nostro Bond, ferito e disilluso, si avvicina pericolosamente al personaggio che abbiamo conosciuto nei film precedenti. Quando dice “My name is Bond, James Bond” una parte di me esulta per il gusto postmoderno della citazione pop, ma un’altra si chiede se non sia il caso di finire qui. Mi spiego: le cose migliori di questo nuovo 007 sono, a mio avviso, le novità rispetto al cliché, favorite anche dal fatto che qui si racconta una sorta di prequel rispetto alle note vicende del più celebre agente segreto. Da oggi il James Bond che tutti conoscevamo pare stia per tornare... Bond è vivo e lotta con noi, ma da quell’ultimo fotogramma, forse rassicurante per i fan tradizionali di 007, a me comincia a piacere meno.